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L’innovazione possibile

Diversi studi suggeriscono che i provvedimenti di incentivazione all’innovazione servono probabilmente solo a rendere più conveniente l’investimento alle imprese che avrebbero comunque investito. Anche senza rinunciare alle erogazioni pubbliche, si potrebbero rivedere gli impieghi. Concentrandosi su infrastrutture, accesso al capitale umano e al credito, legalità e chiarezza contrattuale. Eventuali provvedimenti diretti alle aziende, dovrebbero avere obiettivi chiari e specifici. Ma soprattutto dovrebbero essere verificabili e reversibili.

Qualche tempo fa, in un suo intervento su lavoce.info, Guido De Blasio segnalava la difficoltà di valutare l’efficacia delle agevolazioni previste dalla legge 488/92 per un effetto di auto selezione delle imprese: chi ha intenzione di investire (e probabilmente lo farebbe comunque) cerca incentivi.
Con un metodo di analisi diverso, legato al confronto dei risultati delle imprese incentivate con un gruppo di controllo ricostruito a posteriori, abbiamo studiato l’impatto dei provvedimenti provinciali di incentivazione delle imprese nel Trentino. (1) Si riducono cosi i problemi di controllo evidenziati da De Blasio, e si evitano rischi e distorsioni derivanti dall’affidarsi unicamente a dichiarazioni.
Ebbene, il risultato che abbiamo ottenuto è analogo a quello indicato da De Blasio: nessuna differenza persistente nei risultati delle imprese incentivate, ma solo una “anticipazione” dell’investimento che, comunque, non modifica la combinazione produttiva.
Le imprese incentivate, infatti, in media mostrano un aumento del livello degli investimenti per i primi due anni e un aumento del fatturato, ma non mostrano nessun aumento della produttività dei fattori e nessuna alterazione del rapporto tra capitale e lavoro che utilizzano. Non si evidenziano nemmeno miglioramenti degli indici di profittabilità (Tabella 1). (2)

Cinque miliardi di erogazioni

Il risultato può apparire sorprendente. Ci si potrebbe aspettare che l’effetto di un provvedimento di incentivazione sia quello di indurre uno spostamento delle imprese verso modi di produzione “migliori”: l’acquisto di macchinari più moderni migliora la produttività. Una seconda possibilità, legata al disegno del provvedimento di incentivazione, potrebbe essere di modificare la combinazione di fattori, aumentando l’intensità di capitale con un miglioramento anche della produttività del lavoro, ma non della produttività totale dei fattori impiegati. Non accade né l’una, né l’altra cosa. Semplicemente, sembra che le imprese aumentino le risorse impiegate anticipando un programma di espansione, a tecniche date, probabilmente già programmato.
Poco male, si può sostenere. Gli investimenti portano ricchezza e occupazione e in molti paesi si cerca di attrarli o di indurre le imprese a costruire nuovi impianti: se noi non facessimo altrettanto, daremmo un nuovo handicap alle nostre imprese (vedi anche De Blasio). Questa linea di ragionamento ha portato a una distribuzione ingente di denaro. Le erogazioni totali, dovute a leggi nazionali, regionali e regionalizzate, sono state di circa 4.300 milioni di euro nel 1999, salite sino a 6.500 milioni nel 2002, per poi ridiscendere a 4.900 milioni nel 2005. (3)
Questo fiume di denaro si disperde in una miriade di provvedimenti di cui è difficile ricostruire la ratio. È difficile anche controllare se gli obiettivi previsti dai provvedimenti siano stati effettivamente raggiunti, perché questi sono, il più delle volte, confusi e contraddittori. La stessa legge 488/92 pone diverse condizioni che non aiutano a capire se l’obiettivo sia di sviluppare il sistema produttivo, aumentare l’occupazione, investire al Sud, o che altro. Ma i dati di De Blasio, i nostri e oramai molti altri studi ci dicono che probabilmente si rende solo più conveniente l’investimento alle imprese che comunque avrebbero investito. (4)
Resta da spiegare perché si insista a seguire una strada così poco ragionevole e, soprattutto, cosa è possibile fare di diverso.

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Stessi soldi, impieghi diversi

La nostra impressione è che sia difficile tornare indietro: chi è disposto a rinunciare a un incentivo, anche se di entità modesta? La questione, allora, andrebbe posta direttamente alle categorie imprenditoriali: probabilmente se potessero scegliere come impiegare gli stessi 5 miliardi di euro, le imprese chiederebbero di allocarli in modi diversi dagli attuali.
D’altra parte, non mancano le alternative né sugli impieghi di fondi per favorire l’investimento e il rinnovamento del sistema produttivo italiano, né sulle forme della loro erogazione. Esistono pochi dubbi che, nel favorire l’investimento, molto di più di pochi soldi assegnati a titolo di finanziamento, contano le condizioni di contorno: infrastrutture, accesso al capitale umano, accesso al credito, legalità e chiarezza contrattuale. I ripetuti appelli di Nicola Rossi affinché lo Stato concentri la propria azione sui compiti essenziali che permettono l’esercizio di attività imprenditoriale, invece che su macchinosi piani di intervento, non solo sono condivisibili sul piano ideale, ma hanno il supporto dei fatti.
Se restano spazi per provvedimenti diretti a favorire l’investimento, questi devono avere obiettivi specifici, chiari, e devono essere concentrati su azioni che altrimenti le imprese non attuerebbero (punti critici sono, ovviamente, l’innovazione e il capitale umano) o su piani di localizzazione industriali mirati e di scala adeguata. E, soprattutto, devono essere concepiti per essere verificati e reversibili. L’intervento di Francesco Daveri mostra come l’attenzione del legislatore sia spesso orientata a definire, in nome e per conto delle imprese, le modalità di spesa dei sussidi. Sembrerebbe più promettente, invece, progettare gli interventi per garantire la verificabilità ex-post dei risultati, ad esempio attraverso una regolazione precisa delle scritture contabili legate ai sussidi. E prevedere la reversibilità delle erogazioni, se i risultati sono insoddisfacenti.


Tabella 1: Impatto medio degli incentivi nell’ambito della legge provinciale 4/81 sulle imprese incentivate per agli anni 2001, 2002 e 2003 sui diversi indicatori di performance.
(In neretto gli effetti significativi)

Variabile

Anno

Effetto medio degli incentivi sulle imprese che ne hanno beneficiato

Livello degli investimenti

(Mln lire)

2001

496.36

2002

2228.726

2003

264.631

Profitabilitità

MOL per addetto

(Mln lire)

2001

4.001

2002

7.735

2003

5.416

Produttività dei fattori

VA per addetto

(Mln lire)

2001

17.512

2002

12.014

2003

5.33

VA per unità di capitale

(Mln lire)

2001

0.741

2002

0.5

2003

1.662

Dimensione d’impresa

Fatturato

(Mln lire)

2001

1817.052

2002

3638.666

2003

3460.532

Intensità di capitale

K per addetto

(Mln lire)

2001

-0.042

2002

-20.459

2003

-23.997


(1)
R. Gabriele, M. Zamarian e E. Zaninotto (2006), “The economic impact of regional industrial policies: An empirical investigation”, Quaderni Disa No. 111, Università degli studi di Trento.
(2) Il metodo usato prevede che il campione delle imprese che hanno usufruito di un incentivo sia messo a confronto con un cosiddetto campione controfattuale (con caratteristiche simili). Questo permette di stimare, a parità di altre condizioni, quanto la media delle performance dei due gruppi differisca per effetto soltanto della percezione dell’incentivo.
(3) R. Brancati (a cura di), (2006) “Le politiche per le imprese: l’offerta pubblica e la domanda dei privati”, Rapporto Met 2006
(4) Si veda ad esempio Pellegrini e Centra , “Growth and efficiency in subsidized firms”, paper presentato al workshop: The Evaluation of Labour Market, Welfare and Firms Incentives Programmes, Istituto veneto di scienze lettere ed arti, Venezia. (2006).

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  1. Davide Tarasconi

    Mi sorprendo di come ancora ci si limiti a considerare l’erogazione di incentivi come driver per l’innovazione: altrettanto sorprendente che gli indicatori di performance utilizzati siano solo di natura strettamente economico/finanziaria.

    Una dimostrazione che l’innovazione è prima di tutto un fatto culturale, che ancora non abbiamo ben compreso.

    Ben venga che i policymakers vogliano favorire l’innovazione mettendo fondi a disposizione, ben venga che incontrino i favori delle aziende: quello che manca è una nuova visione su come organizzare i progetti innovativi e come misurare la loro efficacia al di là dell’aspetto di rendicontazione.

    • La redazione

      In realtà i provvedimenti da noi analizzati riguardano la legge provinciale 4/81 del Trentino inerenti incentivi all’investimento e non relativi all’innovazione. “l’innovazione” richiamata nel titolo del nostro intervento è quella delle politiche industriali!
      Gli indicatori presi in esame forniscono un quadro organico della situazione “competitiva” delle imprese incentivate. L’idea di fondo è che un incentivo all’investimento per essere giustificato deve provocare un qualche effetto significativo sugli aspetti più importanti della vita economica di una impresa: la sua capacità di generare profitti, la sua capacità di essere competitiva (produttività, crescita) e la sua capacità di mantenere o generare occupazione (dimensione e crescita). Se poi entriamo nel merito dei driver dell’innovazione: siamo d’accordo, la questione rimane aperta e da approfondire con il supporto di valutazioni quantitative relative al fenomeno.

  2. Giovanni Rapisarda

    I governi di tutto il mondo sono alle prese con problemi sempre piu’ seri per contenere i budget di spesa in alcuni settori “vitali” come salute, energia, ect., dove la domanda dei consumatori e’ crescente e non sono accettabili compromessi (e lo stesso dicasi per alcuni settori del “lifestyle”). Un’opzione disponibile per contenere questa pressione finanziaria sulla spesa pubblica e’ legata allo sviluppo delle cosidette “disruptive innovations”, vale a dire prodotti/servizi meno costosi, piu’ semplici e piu’ convenienti. Le Grandi Aziende (Incumbents), produttrici di “sustaining innovations”, tendono ad investire grandi capitali in un’ innovazione che mira a rendere piu’ appetibili nel tempo prodotti/servizi “esistenti”, ma senza necessariamente ottenere risultati qualitativamente migliori. Le Start Up o SME tecnologiche (Innovators), produttrici di “radical innovations”, tendono ad investire in un’ innovazione che mira ad immettere sul mercato prodotti/servizi “rivoluzionari” rispetto a quelli esistenti.
    In Italia, il potere industriale consolidato (Incumbents) tende a preferire uno spostamento delle risorse pubbliche di incentivazione verso una riduzione delle tasse o verso il credito di imposta (incentivazione indiretta), al fine di rendere piu’ conveniente o anticipare la realizzazione di investimenti che nella maggior parte dei casi realizzeranno comunque. Pertanto, una politica industriale che intenda incentivare gli Innovators, considerato la rilevanza strategica di questo tipo di innovazione ai fini della competitivita’ di un Sistema Paese (ormai riconosciuta quasi da tutti) ed in mancanza di un mercato finanziario sviluppato ed aperto e fino alla sua piena realizzazione, dovra’ prevedere contributi in conto capitale, indispensabili a favorire investimenti in ricerca che altrimenti non saranno mai realizzati.

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