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Aliquote rosa

Tassazione differenziata in base al sesso, tassazione con quoziente familiare e imposta negativa: sono tre proposte di riforma per il sistema fiscale italiano. Cambiare le aliquote fiscali è sempre un’operazione controversa che richiede la creazione di un vasto consenso su come distribuire i guadagni e le perdite tra i contribuenti. Ma al di là delle soluzioni tecniche, l’auspicio è che il dibattito sul fisco ci serva a capire due problemi centrali dell’economia italiana: la bassa partecipazione femminile alla forza lavoro e la bassa natalità.

Il merito maggiore del dibattito sulla riforma del fisco è di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di utilizzare lo strumento fiscale per far fronte a due problemi centrali dell’economia italiana: la bassa partecipazione femminile alla forza lavoro e la bassa natalità.

 

Tre proposte di riforma

 

Secondo i criteri della scienza delle finanze, un buon sistema tributario deve avere tre requisiti fondamentali:

1) deve essere efficiente, ossia deve avere il minore impatto possibile sulle scelte di consumo, di lavoro e di investimento degli individui;

2) deve essere equo, ossia deve far pagare le stesse imposte a individui con le stesse caratteristiche (equità orizzontale) e indurre chi ha di più a contribuire più, in proporzione al proprio reddito, rispetto a chi ha meno (equità orizzontale o progressività);

3) deve essere semplice, ossia avere i minimi costi di amministrazione, di rendicontazione dei redditi.

Alla luce di questi criteri possiamo rileggere tre recenti proposte di intervento sull’imposta dei redditi.

 

Tassazione differenziata per sesso

 

La prima proposta, avanzata da Alberto Alesina e Andrea Ichino, consiste nel far pagare agli uomini un’imposta maggiore delle donne a parità di reddito percepito.

Un primo possibile merito di questa proposta è la sua efficienza. Se è vero che le donne hanno sempre un’offerta di lavoro più elastica al reddito degli uomini, consolidati risultati di tassazione ottimale dimostrano che tassare più gli uomini delle donne, a parità di reddito, aumenta l’efficienza del sistema. In particolare, tale proposta incentiva una maggiore partecipazione femminile al mondo del lavoro, può essere calibrata in modo da non aver impatti rilevanti sulle entrate tributare complessive e, potenzialmente, induce un cambiamento culturale verso una maggiore parità tra i sessi nella società italiana, una sorta di affirmative action di stile anglosassone. Tuttavia, la differente elasticità dell’offerta di lavoro maschile e femminile non è costante per tutti i livelli di reddito, dipende dal ruolo svolto dal singolo individuo all’interno della famiglia e, come le numerose stime empiriche mostrano, le elasticità variano al variare del contesto istituzionale, familiare e culturale. Inoltre, i risultati relativi all’elasticità dell’offerta di lavoro sono validi al margine, mentre rimane da dimostrare che un lavoratore uomo, vedendosi aumentare la propria aliquota di 10-20 punti percentuali non alteri la propria scelta di partecipazione nel mondo del lavoro regolare.

Il limite principale della proposta è sul lato dell’equità. Consideriamo a titolo d’esempio due famiglie con unico genitore, uguali carichi familiari e reddito, ma in un caso l’unico genitore è uomo, nell’altro è donna: sarebbe contro il principio dell’equità orizzontale tassare più la prima famiglia rispetto alla seconda. Così come sarebbe contro il principio dell’equità verticale nell’ipotesi che la famiglia mono-genitore con capofamiglia donna abbia un reddito maggiore di quella con capofamiglia uomo e le due famiglie paghino un’uguale imposta. In termini di semplicità, il sistema proposto sarebbe probabilmente analogo a quello esistente.

 

Quoziente familiare

 

La seconda proposta, la tassazione in base al quoziente familiare, prevede che, una volta definita l’unità familiare da un punto di vista fiscale (per esempio, un’unità che escluda la presenza di figli e altri familiari con redditi oltre una certa soglia), si sommino tutti i redditi afferenti all’unità, li si aggiusti in base a un coefficiente (quoziente familiare) per evitare che l’ampliamento della base imponibile causi un aumento dell’imposta per l’operare dell’imposta progressiva, e si calcoli quindi l’imposta familiare, moltiplicandola infine per il quoziente familiare ottenendo l’imposta dovuta. Questa imposta è adottata in Francia, e con alcune differenze relative alla determinazione del quoziente familiare anche in Germania e negli Stati Uniti. Ciononostante, se sostituita al sistema attuale italiano causerebbe un’indubbia perdita di efficienza. Consideriamo ad esempio il caso di una famiglia di due coniugi in cui l’uomo lavora e la donna è incerta se entrare nel mondo del lavoro regolare. Nell’ipotesi plausibile che se entrasse nel mondo del lavoro il suo reddito sarebbe relativamente basso, con il sistema attuale verrebbe tassata con un’aliquota relativamente ridotta, con il sistema con quoziente familiare partirebbe da un’aliquota certamente più elevata poiché determinata tenendo in considerazione anche il reddito del coniuge. Il sistema del quoziente familiare avrebbe dunque l’effetto di scoraggiare la partecipazione femminile al mondo del lavoro rispetto al sistema attuale, una situazione tutt’altro che auspicabile nel nostro paese.

Il supposto merito del quoziente familiare consiste nel trattare con più favore le famiglie (rispetto ai single) e tener meglio conto degli oneri derivanti dalla cura dei figli e degli anziani non autosufficienti. Tuttavia, questo non è del tutto vero in quanto il sistema di detrazioni per carichi familiari può svolgere esattamente lo stesso ruolo. (1) Come mostrano anche Claudio De Vincenti e Ruggero Paladini su lavoce.info, i vantaggi maggiori dall’applicazione del quoziente familiare si hanno per famiglie con un unico reddito alto, in quanto il meccanismo consente la riduzione di aliquota media, mentre il sistema attuale non garantisce detrazioni per carichi familiari a redditi elevati. Infine, l’introduzione del quoziente familiare comporterebbe una complicazione in termini di calcolo e amministrazione. (2)

 

Imposta negativa

 

La terza proposta, l’imposta negativa, prevede un sistema del tutto simile a quello attuale con la differenza sostanziale di riconoscere un credito d’imposta (o sussidio) a quei contribuenti che si trovano ad avere un totale di detrazioni (o crediti) maggiore dell’imposta a debito.
Il sistema ricalcherebbe quanto introdotto nel Regno Unito con il Working Tax Credit (Wtc) o con il Child Tax Credit (Ctc). Con il Wtc vengono riconosciuti crediti alle famiglie a basso reddito che lavorano almeno 16 ore se con figli a carico, o almeno 30 ore senza figli a carico. Con il Ctc viene riconosciuto un credito a famiglie con figli. I crediti, percepibili come assegno periodico, sono attribuiti in base al reddito congiunto della famiglia e sono di entità rilevante: una famiglia a basso reddito che lavora oltre 30 ore settimanali può ricevere 4.100 sterline l’anno, con la possibilità di ottenere anche rimborsi dell’80 per cento delle spese documentate per la cura dei figli fino a 300 sterline la settimana. Le misure hanno avuto un impatto di forte incentivo alla partecipazione femminile al mondo del lavoro, spingendo molte famiglie a uscire dalla trappola della povertà, senza riflessi negativi sui tassi di fertilità. Anche in Italia il vantaggio in termini di efficienza sarebbe dunque evidente: rispetto al sistema attuale è prevedibile che un maggior numero di donne troveranno più conveniente andare a lavorare acquisendo il diritto a ricevere un credito per famiglie che lavorano e famiglie con figli. Allo stesso tempo, si inciderebbe positivamente sull’equità verticale del sistema complessivo, senza alterare l’equità orizzontale. I costi amministrativi e di comprensione da parte dei contribuenti sarebbero inoltre comparabili a quelli attuali e decisamente inferiori rispetto al sistema del quoziente familiare.

La proposta avrebbe un ulteriore importante effetto per il nostro paese: l’emersione di una parte del lavoro nero, che si concentra ai livelli di reddito inferiore. Con il sistema attuale, alcuni lavoratori scelgono di accettare un lavoro irregolare per convenienza, per mettersi in tasca parte delle imposte e dei contributi che dovrebbero altrimenti esser pagati. La convenienza verrebbe meno se fosse introdotto in Italia un sistema analogo al Wtc.

 
Cambiare le aliquote fiscali è sempre un’operazione controversa che richiede la creazione di un vasto consenso su come distribuire i guadagni e le perdite tra i contribuenti. Noi riteniamo che a oggi l’unica redistribuzione a mezzo Irpef che meriti di essere difesa è quella a favore delle donne che lavorano con figli a carico. La ragione è che la bassa partecipazione femminile e la bassa natalità sono un problema di tutti e il nostro più grande ostacolo alla crescita economica e sociale. Speriamo che questo dibattito sul fisco, al di là delle soluzioni tecniche, ci serva a capire questo.

 

 

 

(1) Cavalli, M e C.V. Fiorio (2006), “Individual vs family taxation: an analysis using TABEITA04”, Econpubblica WP N. 118. mostrano che, se il quoziente familiare francese fosse introdotto nel sistema di tassazione italiano, a parità di gettito vi sarebbe una forte riduzione della progressività del sistema: le famiglie con redditi superiori a 80mila euro pagherebbero in media quasi 5mila euro in meno, mentre le famiglie con redditi tra 10-20mila euro ne perderebbero circa 300.

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(2) Si veda a riguardo il contributo di Angela Martone.

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Sommario 23 maggio 2007

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Giovani? state fuori dal palazzo!

  1. Antonio Fiori

    Aliquote differenziate solo in base al sesso credo sarebbero a rischio di costituzionalità; nettamente preferibile la soluzione del credito d’imposta alla famiglia, legato al numero dei figli e alle ore lavorate. Mi domando piuttosto come il legislatore debba considerare, per la politica fiscale di cui si discorre, i nuclei familiari ‘atipici ‘ che scaturiranno dalla disciplina dei Di.co. in gestazione. Il problema evidentemente sarebbe insieme politico e giuridico: se la fattispecie della ‘famiglia fiscale’ dovesse infatti escludere tutti (o alcuni) di questi nuclei, la disposizione sarebbe esposta al giudizio di incostituzionalità per irragionevolezza.

  2. biagio

    anche voi seppur da un punto di vista leggermente diverso ponete il problema diventato di moda del lavoro femminile
    io voglio approfittare della vs approccio fiscale al problema per sottoporvi un quesito:
    sono un professionista siciliano mi chiedo perchè in Italia (e principalmente succede così negli altri paesi?) le famiglie dei lavoratori subordinati (siano essi con basso reddito ad es. metalmeccanici lavoratori delle resine etc. o con alto reddito, quadri delle banche o funzionari pubblici) devono aver un sistema fiscale di vantaggio rispetto ai lavoratori autonomi (professionisti, artigiani, commercianti etc.), la motivazione è economico-fiscale o politico-sindacale.
    E’ giusto che a parità di reddito e condizione personale e familiare due famiglie devono ricevere due differenti regimi fiscali (detrazioni, oneri deducibili ed assegni familiari).
    Ma chi lo dice che l’autonomo ha un reddito più alto del subordinato e che fra gli autonomi non vi siano famiglie monoreddito con moglie disoccupata
    Le vs proposte si applicherebbero a tutti e a tutte le famiglie o sempre e solo per i lavoratori subordinati anche se con reddito medio alto ???
    Io purtroppo ho votato questo governo ed ho paura che queste discussioni in mano a questo governo diventino un ulteriore argomento per far pagare solo alcuni e beneficiarne altri solo sul presupposto dell’appartenenza alle classi “proletarie”, forse è meglio smettere.
    Peraltro per il lavoro femminile al sud è tutto diverso il problema non è nell’offerta vantaggiosa (come scrivono Ichino ed Alesi ma dal lato della domanda)
    Comune la Vs proposta dell’imposta negativa mi pare semplice e giusta.
    biagio parmaliana

    • La redazione

      Gentile lettrice, le ragioni del legislatore per la diversa disciplina fiscale tra autonomi e dipendenti sono diverse e non sempre esplicite.
      Tuttavia, non è vero che il regime fiscale è sempre di vantaggio per i dipendenti rispetto agli autonomi. Per esempio, si pensi all’ammontare su cui calcolare l’imposta (base imponibile): per i dipendenti è il reddito,per gli autonomi è il reddito al netto delle spese per la produzione del
      reddito, il che spesso lascia più possibilità di elusione (o evasione) dell’imposta agli autonomi. Per altro detrazioni, oneri deducibili e assegni familiari, che lei ricordava, spesso sono decrescenti al crescere del reddito fino ad annullarsi oltre una certa soglia. Cordialmente.

  3. Maria Rosa Gheido

    Ho forti perplessità sulla tassazione agevolata del lavoro femminile che mi appare vada facilmente a ledere i principi della parità retributiva facilmente condizionati dalla leva fiscale. Anche la tassazione del reddito familiare mi lascia fortemente perplessa sia per le considerazioni avanzate nell’articolo, sia perché è compunque assai diverso il peso effettivo, nell’organizzazione familiare, di una stessa etrnatrata prodotta da uno o da più soggetti. Mi sembra si dovrebbe lavorare sull’incapienza reddituale rispetto alle detrazioni spettanti, generando un credito che, in questo momento di preannunciata riforma degli ammortizzatori sociali, potrebbe andare a rappresentare quel reddito minimo di sussistenza che il sistema italiano sembra poco propenso a realizzare. Maria Rosa Gheido

  4. roberto bera

    L’articolo 53 della costituzione parla di “capacità contributiva”.
    Mi pare che l’obiettivo dovrebbe essere quello di attuare questo articolo perchè mi pare che il sistema attuale si basi troppo sul “lordo incassato”.

    Ogni altro passo allontana sempre di più dall’attauzione del dettato costituzionale.

  5. riccardo boero

    Egregi professori,
    vorrei esprimere il mio piu’ profondo dissenso sulla misura di un credito d’imposta quale quella proposta.
    Qualunque seria analisi sociologica mostrerebbe che ad eccezione del ristretto milieu piccolo-borghese nel quale ahime vivono quasi tutti i ricercatori accademici, le donne italiane vorrebbero lavorare anche senza alcun credito d’imposta. Ma purtroppo non sono in grado di offrire al datore di lavoro un valore tale da giustificare i pesanti oneri legati al cuneo fiscale e il grandissimo impegno giuridico di un’assunzione in regola.
    Credo che beneficierebbero del vostro credito d’imposta solo le donne che gia` lavorano, e che non vi sarebbero molti nuovi ingressi di manodopera femminile nel mondo del lavoro, bloccata da ben altri potenti ostacoli.
    D’altra parte, credito d’imposta significa aggravio delle disastrate finanze statali, nuovo denaro immesso sul mercato con inevitabile aumento dei prezzi, e in definitiva aumento delle disuguaglianze sociali tra chi lo percepisce assieme ai suoi redditi da lavoro, e chi non riesce a beneficiare ne’ dell’uno ne’ dell’altro.
    Due parole infine sulla bassa natalita`: essa e` un atout per l’Italia, decisamente sovrappopolata e afflitta da problemi cronici di disoccupazione, delinquenza, inquinamento, cementificazione e traffico. Non avremo mai lo spazio della Russia: vogliamo dunque diventare un Bangladesh o una Finlandia?
    Porgendo i miei migliori saluti, ringrazio di un’urbana risposta.

    • La redazione

      RISPOSTA: L’impatto sull’occupazione di un meccanismo quale il credito d’imposta è stato empiricamente dimostrato nel caso UK.
      L’applicazione del WTC riduce il costo opportunità di rimanere a casa per una donna, specialmente quando è madre e/o in coppia. In quanto alla natalità il problema non è di avere più residenti in Italia ma di trovare un miglior bilanciamento tra generazioni anziane e giovani, primo
      fra tutti per contenere il probabile disavanzo previdenziale futuro.

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