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Lo “scalone” si può barattare

Ancora una volta il dibattito pensionistico italiano è interamente assorbito dalle preoccupazioni di breve periodo. Ma per chi sappia guardare lontano, i risparmi generati dallo “scalone” non sono la vera priorità. Ciò che importa è il completamento della riforma contributiva per la definitiva costruzione di un sistema pensionistico equo e sostenibile. E l’elenco degli interventi da fare è davvero lungo.

Ancora una volta il dibattito pensionistico italiano è interamente assorbito dalle preoccupazioni di breve periodo: a tener banco è lo scalone del primo gennaio mentre l’aggiornamento dei coefficienti sembra usato per mantenere in ostaggio il governo finché non abbia fatto le concessioni “giuste”. È un peccato che il tasso di sconto intertemporale di questo paese resti così elevato da azzerare l’interesse per tutto ciò che non è candidato ad accadere in breve tempo.

I problemi dei coefficienti

Nel 1995 fu ancora peggio nel senso che, dei soli tre mesi impiegati a partorire la più innovativa delle riforme europee, la maggior parte furono spesi a negoziare la tabella di marcia con cui l’età minima di pensione sarebbe stata gradualmente elevata fino a raggiungere gli attuali 57 anni. Rassicurato dai tempi biblici della transizione, il sindacato accettò di avallare in fretta una “proposta contributiva” improvvisata e zeppa di errori concettuali dei quali ancor oggi non si riesce a discutere.
Gli errori riguardanti i coefficienti di trasformazione sono certamente rilevanti, ma bisogna smettere di pensare che bastino revisioni annuali anziché decennali. Ciò servirà a evitare scaloni socialmente ingestibili e a impedire il privilegio altrimenti concesso a chi va in pensione alla fine di un decennio piuttosto che all’inizio del successivo. (1)
Ma non è tutto. In primo luogo, ogni generazione ha diritto ai “suoi” coefficienti che devono esserle stabilmente assegnati quando essa varca l’età pensionabile. Diversamente, a lavoratori nati nello stesso anno saranno iniquamente imputate tavole di sopravvivenza diverse in dipendenza dell’età di pensionamento prescelta; e la prospettiva di revisioni al ribasso si tradurrà in un formidabile incentivo ad anticipare il pensionamento. (2)
In secondo luogo, le tecniche di calcolo dei coefficienti devono essere perfezionate sia per smussare la volatilità della sopravvivenza sia per evitare che essi nascano obsoleti perché basati su tavole di sopravvivenza non aggiornate.

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Tante cose da fare

La corretta regolamentazione dei coefficienti non esaurisce le cose da fare, l’elenco delle quali è troppo lungo per essere contenuto in un articolo di giornale. Mi si lascino solo menzionare gli interventi più importanti che vanno dalla correzione del meccanismo di indicizzazione per garantirne la coerenza coi coefficienti di trasformazione (3), allo “scorporo” dell’invalidità e della premorienza – entrambe inconciliabili con un sistema a contribuzione definita, alla unificazione delle gestioni previdenziali e al livellamento delle aliquote contributive – entrambi indispensabili per garantire l’equilibrio strutturale del sistema e non solo utili per ridurre i costi di amministrazione o fare cassa nel medio termine.
Agli interventi necessari per non lasciare incompiuta la “macchina contributiva”, se ne possono aggiungere altri con cui cogliere almeno alcune delle tante flessibilità che essa offre a costo zero. Fra questi, il “pensionamento graduale”, cioè la possibilità di trasformare in rendita una parte del montante contributivo lasciando che la parte residua sia alimentata dall’ulteriore contribuzione versata proseguendo (anche part time) l’attività lavorativa. In secondo luogo, la crescente femminilizzazione del mercato del lavoro apre la strada alla libera scelta fra rendite reversibili e non(4). In terzo luogo, i lavoratori potrebbero essere chiamati a scegliere il profilo temporale della loro pensione, anche accettando coefficienti di trasformazione più bassi in cambio di indicizzazioni più generose. La scelta li indurrebbe anche a riflettere sulle pensioni d’annata e sull’opportunità  di posporre l’età di pensionamento.
Questi e altri dovrebbero essere gli argomenti di un dibattito pensionistico lungimirante e maturo. E se a impedirlo fosse lo scalone, bene farebbe il governo a barattarlo in cambio dell’impegno a consolidare il modello contributivo.
Non sarò l’unico a ricordare che gli interventi sull’età di pensione giunsero inattesi e che dall’attuale maggioranza furono non solo contestati nel merito, ma anche interpretati come un furbesco diversivo teso a distrarre l’attenzione dell’Europa dalla finanza creativa di leggi di bilancio poco incisive. Fino a quel momento tutti sembravano contenti della “dolce gobba”, salita la quale la spesa pensionistica in termini di Pil avrebbe cominciato a scendere proprio grazie alla riforma contributiva.

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(1) Per approfondimenti, cfr. S. Gronchi in Il Sole 24Ore del 10 febbraio 2007.
(2) Per approfondimenti, cfr. S. Gronchi in Il Sole 24Ore del 9 maggio 2007.
(3) Per approfondimenti, cfr. S. Gronchi, in Il Sole 24Ore del 29 marzo 2007.
(4) Occorre comunque eliminare l’attuale regime di cumulo della pensione al superstite coi redditi autonomamente posseduti da quest’ultimo. Oltre ad impedire il calcolo corretto dei coefficienti, tale regime appare come un ‘tardivo’ tentativo di redistribuzione, del tutto stonato in un modello pensionistico che non prevede (pur potendolo fare con maggiore trasparenza di altri) redistribuzioni più importanti e significative di questa.

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Sommario 25 giugno 2007

14 commenti

  1. Fabio Pancrazi

    In merito allo scalone, quello che dal 1 gennaio 2008 porterebbe alcuni a lavorare 3 anni oltre l’età anagrafica di 57, tutti si danno un gran da fare per abolirlo. Lo slogan è il passaggio troppo brusco, in una notte! Al mio passaggio, in un sol giorno, a 5 anni di lavoro oltre l’età di 57 non ci pensa nessuno? Attualmente ho 53 anni di età e 31 di contribuzione: sarei potuto andare in pensione nel 2011, appunto a 57 anni e con 35 di contribuzione. La Maroni, improvvisamente, per me vuol dire andare a riposo nel 2016 a 62 anni! Quindi se si considera iniquo lo scalone, figuriamoci gli scalini che al sottoscritto porterebbero ugualmente ai 62 anni nel 2016! Ci sarebbe una proposta equa, le quote: ma pare che sommare età anagrafica e contributi ad una quota “95” non stia bene alla sinistra radicale perchè, secondo loro, sarebbe uguale alla riforma Maroni e cioè 60+35. Penso non ci sia peggior sordo di chi non vuol sentire. Con quel sistema (se uguale per tutti) potrei andare in pensione a 59 anni (con 37 di contributi!) nel 2013! Certo in futuro, per i giovani, con la flessibilità del lavoro sarà sempre più difficile raggiungere quota “95” e si dovrebbe anche fissare un’età anagrafica per andare in pensione con qualsiasi contribuzione utile. Speriamo nell’equità per tutti i lavoratori.

  2. Riccardo Sabbatini

    Le osservazioni di Sandro Gronchi, come sempre, sono molto stimolanti. Per rendere più intrigante la discussione sui futuri tassi di conversione delle rendite si potrebbe allineare la discussione a quella in corso nel mondo assicurativo sulle rendite. Le compagnie di norma assicurano per un certo tempo (5, 10 anni) il tasso di conversione al momento di sottoscrivere la polizza. successivamente, se cambiano il fattore di conversione, il montante accumulato fino a quel momento rimane convertito ai vecchi criteri. I nuovi prodotti che stanno per arrivare anche in Italia, le variable annuities, sono ancora più flessibili a vantaggio dell’assicurato. Il fattore di conversione è fissato al momento del contratto ed il rischio attuariale di una maggiore speranza di vita lo prende in carico la compagnia. Inoltre poichè il montante da cui si attinge per la rendita rimane comunque investito in fondi d’investimento il contraente della polizza può esercitare una serie di opioni: riscattare una quota del capitale e mantenere una parte della rendita, consolidare nella rendita una parte dei vantaggi ottenuti dall’andamento dei fondi. E così via. Se lo stato è così rozzo nel gestire il problema e così in balia di interessi (sindacati e aziende) interessati soltanto al breve periodo, come Sandro giustamente ci ricorda, non si potrebbe lasciare liberi i lavoratori di scegliere nel mercato la rendita migliore? Nonostante i costi del servizio assicurativo secondo me i futuri pensionati ci guadagnerebbero. Vi sono attualmente in essere contratti assicurativi (non sono molti per la verità) con tassi di conversione molto favorevoli. E nessun assicuratore, anche se non ha coperto il rischio attuariale, minaccia di cambiarli un giorno si e l’altro pure.

  3. fabio pammolli

    Bene sottolineare la necessità di scorporare invalidità/inabilità e premorienza. Bisognerebbe che si accompagnasse al “messaggio politico” che questo non implica, di principio, nessun arretramento delle finalità equitative e redistributive, ma che anzi serve a perseguirle meglio, adesso e in futuro. In una recente proposta di riforma complessiva del sistema del welfare avanzata da CERM, la completa neutralità finanziaria delle pensioni pubbliche si accompagna al rafforzamento degli istituti assicurativi (disoccupazione e infortuni sul lavoro) e assistenziali. Un punto di vista, oltretutto in linea con le conclusioni della Commissione “Onofri” del 1997. Per il canovaccio della proposta di riforma => http://www.cermlab.it/_documents/Nuove%20pensioni%20per%20un%20%20nuovo%20welfare%20—%20canovaccio%20per%20ddl.pdf.

  4. Bruno88

    Uomini contro. In effetti si tratta di due generazioni o forse tre. La prima interessata al gradone, la seconda (quelli con il sistema misto) abbandonata a se stessa, la terza(contributivo) già disastrata prima del tempo. Ottimo lavoro!: tre categorie, tre classi, tre aspettative divere. Quando si concertò la Rifoma delle pensioni forse si è anticipata una tragedia italiana: la società divesa in classi e ciò non vale solo per le pensioni…purtroppo.

  5. MARIO

    Sono silodale con Fabio Pancrazi. Io sono del 1951.
    Senza scalone andavo in pensione il 01.07.2008-Con lo scalone il 01.01.2013.
    Il problema è che sono disoccupato da 19 mesi.

  6. FOIS MARIO

    Come si puo’ pensare di passare da 57 a 58 anni nel 2008 e 59 nel 2009, cosi’ chi e’ fuori al 2007 , sara’ sempre fuori , perche’ non riuscira’ mai ad arrivare con gli anni , se proprio si deve fare qualcosa , sarebbe piu’ giusto,passare a 58 anni di eta’ nel 2009/2010, e 59 anni nel 2011/2012, solo cosi’ una persona riesce a raggiungere’ l’eta’ pensionabile, il mio caso e’ che se non si modifica niente, io che oggi ho 34 anni di contributi e 55 anni di eta’ saro’ costretto a lavorare ancora 5 anni, raggiungendo di fatto i 40 anni di contributi , per cui chi ha iniziato a lavorare presto , sara’ costertto a lavorare di piu’ rispetto a uno che ha iniziato piu’ tardi, senza considerare magari che c’e’ molta gente che fa i turni da 35 anni, vogliamo che continuino a fare le notti in bianco come i ragazzi?

  7. Andrea Chiari

    Con 54 anni e 33 di contributi la mia situazione è analoga al caso precedente. Con la riforma Maroni, lo scalone, devo lavorare 5 anni in più. Con gli scalini, lo stesso. E mi domando: per chi sono fatti questi scalini? Per chi ha 56 anni? per un paio di classi anagrafiche (perchè per gli altri, come il mio caso, l’inseguimento è impossibile)?
    Allora teniamoci Maroni, che almeno, rispetto agli scalini, fa risparmiare qualcosa.

  8. NAZZARENO

    Concordo pienamente con il Sig. Fois, sembra una rincorsa senza fine. Ma dico io sarà così difficile capire che i colpiti dallo scalone del 2008 sono i nati dal 1951 in poi. Tutte le possibili soluzioni debbeno tenerne conto se non vogliamo giocare con le parole e se realmente si vuole rimediare in parte, come detto in campagna elettorale, all’ingiustizia determinata dalla Legge Maroni.
    In fin dei conti sarebbe anche giusto andarci più tardi ma almeno ci risparmino, in particolare il centro-sinistra, le sceneggiate e le relative prese per i fondelli.

  9. Marco Di Marco

    Il nodo centrale è e resta quello dell’età di pensionamento. Due fatti sembrano poco considerati dal dibattito sui giornali. La maggioranza di chi approfitta dell’opzione di pensionamento a 57 anni appartiene alle fasce più abbienti (i poveri vanno in pensione il più tardi possibile). Inoltre, l’aumento dei requisiti anagrafici e contributivi minimi è verosimilmente più efficace del taglio delle pensioni future nel promuovere l’allungamento della vita lavorativa.
    Il sistema delle quote (cioè la somma di età e anzianità contributiva) proposto dal Governo incorpora automaticamente degli scalini, ed è più graduale dello scalone previsto dalla riforma Maroni.
    Con ‘quota 97’, per esempio, si può andare in pensione a 60 anni con 37 anni di contributi; a 59 anni con 38 e così via. Solo per chi vuole andare in pensione a 57 anni ne occorrerebbero 40, come con lo scalone Maroni.
    Anche il sistema delle quote, tuttavia, aumenta l’età pensionabile rispetto alla Dini. Se è questo il nodo su cui non si vuole cedere, allora mi sembra che non ci siano soluzioni di compromesso possibili diverse dal ritorno alla Dini.
    Sarebbe però difficile, a quel punto, non vedere in un esito del genere una profonda iniquità generazionale.

  10. Giuseppe Caffo

    Si parla molto di pensioni, giustamente. Ma sono molto meravigliato dal fatto che il Sindacato non si impegni energicamente sul ripristino della legalità in Italia. Se si riducesse molto l’evasione contributiva (che è la logica conseguenza dell’economia sommersa e del lavoro nero) e se si combattesse con fermezza il fenomeno diffusissimo delle false pensioni di invalidità si potrebbero reperire ingenti risorse utili anche per semplificare il dialogo Governo-Sindacati. Perché il Sindacato non chiede con forza al Governo un’azione energica volta al ripristino della legalità?

  11. MARIO FOIS

    CONCORDO PIENAMENTE COL SIG. CAFFO,E AGGIUNGEREI ANCHE , PERCHE’ ESISTONO ANCORA PRIVILEGGI SULLE PENSIONI,DEI POLITICI, DI CERTI DIPENDENTI DI ENTI PUBLICI, E DEI SINDACALISTI CHE ALL’ATTO DEL PENSIONAMENTO PERCEPISCONO DUE PENSIONI , E VERSANO SOLO PER UNA.PERCHE’ NOI CHE STIAMO ANCORA LAVORANDO DOBBIAMO PAGARE LE PENSIONI A CHI NON LAVORA PIU’, E I SOLDI VERSATI DI QUELLI GIA’ IN PENSIONE, DOVE SONO ANDATI A FINIRE, VISTO CHE OGNUNO VERSA NEL PROPRIO CONTO, DOVE SONO ANDATI A FINIRE I SOLDI VERSATI DA QUANDO E’ ENTRATO IN VIGORE L’OBBLIGO DELLE ASSICURAZIONI ( PARLO DAGLI ANNI 30 FINO AGLI ANNI 70), E COMME MAI DA POCO IN UN’INTERVISTA , UN GROSSO DIRIGENTE DELL’INPS HA AMMESSO CHE I CONTI GODONO DI OTTIMA SALUTE, ALLORA E’ SOLO UNA SCUSA PER FARE CASSA .SI PARLA DI SCALONI/SCALINI,MA NESSUNO CHE PARLA DI LAVORI USURANTI, DI LAVORI A CICLO CONTINUO, I POLITICI SEMBRA NON VOGLIANO CAPIRE CHE AL MONDO C’E’ ANCHE CHI LAVORA E PRODUCCE , E IL SINDACATO DA QUESTO PUNTO ,SEMBRA NON FACCIA ABBASTANZA.

  12. walter

    Non capisco perchè in questo dibattito nessuno più parla dell’andata a regime del sistema contribuitvo.
    Qualcuno ci può spiegare qual’è il problema dell’età per persone che percepiranno la persione in funzione dei contributi effettivamente versati?
    Allora perchè si dice che la riforma si vuole fare per favorire i giovani? Secondo me si vuole fare per continuare a mantenere i privilegi di chi sta continuando ad andare in pensione con il RETRIBUTIVO. Con il sistema contributivo, che ritengo giusto ed equo, si percepirà la pensione in funzione dai contributi effettivamente versati. Si parla del 40-50% dell’ultima retribuzione; giocoforze, chi vorrà e se la sentirà di continuare a lavorare, potrà farlo per aumentare il proprio montante. Onestà intellettuale vorrebbe (ma ne vedo poca in giro), che si parlasse più di questa importante riforma varata nel 1995, si parlasse più di dividere assistenza da previdenza, si parlasse più di eliminare i privilegi. Invece si riduce tutto ad un fatto di età. Riflettano politici e parti sociali.

  13. Giancarlo Di Stefano

    La riforma Dini ha diviso la popolazione in due categorie: quelli sopra i diciotto anni di contribuzione (che hanno mantenuto pressoché intatti tutti i benefici del vecchio sistema) e quelli sotto (ovvero i cosiddetti “giovani”, che in maniera pro rata o totale riceveranno una pensione proporzionale a quanto pagato).
    La giustificazione fu che le nuove generazioni avevano la possibilità di farsi una pensione integrativa, mentre gli altri no. Era il 1995. Bene la reale possibilità di una pensione integrativa prende vita solo dal giugno del 2007, ovvero 12 anni dopo. Solo da pochi giorni è possibile far confluire il TFR in un fondo pensione. Ma attenzione! Questo vale solo per il settore privato. Il settore pubblico, con più del 50% degli occupati, non ha ancora una normativa specifica.
    Quindi la pensione integrativa è una chimera per la maggior parte dei “giovani”, mentre l’iniqua divisione resta e, cosa più grave, le iniquità tendono ad aumentare anziché diminuire.
    Quando si parla di “scalone” si vorrebbe far contribuire, con l’aumento dell’età pensionabile, la prima categoria al mantenimento del sostenibilità del sistema pensionistico.
    Quando si parla di revisione di coefficienti di trasformazione delle pensioni è la seconda categoria che per così dire dà il suo contributo.
    Eliminare lo scalone e prevedere la revisione dei coefficienti di trasformazione “per tener conto dell’allungamento della vita “ (sic!) vuol dire solo questo: tu giovane pagherai sempre di più (e lavorerai sempre di più) per contribuire al pagamento della pensione di chi ha versato un ammontare di contributi scarso od insufficiente a permettergli di godere della c.d “pensione di giovinezza”.
    Si parla si sostenibilità contabile del sistema pensionistico, io credo che ci si stia avvicinando a grandi passi verso l’insostenibilità politica del sistema pensionistico. Sarebbe più giusto che come in Svezia venisse introdotto il pro-rata per tutti, ma davvero per tutti.

  14. Giorgio Calabresi

    condivido pienamente le sue tesi che vedono, oggi, nel sistema a capitalizzazione virtuale il modo migliore di creare equilibrio finanziario e giustizia sociale. Non starò ad elencarle, pertanto, i punti di forza ma se permette, le vorrei segnalare un punto di debolezza: l’aliquota di finanziamento. Si è prevista la revisione decennale dei coefficienti di trasformazione ma non si è prevista la revisione dell’aliquota di finanziamento, eppure l’equilibrio finanziario in un sistema a ripartizione si basa soprattutto sul rapporto, attivi/pensionati, peraltro in continuo deterioramento; è da questo rapporto che dovrebbe scaturire l’entità dell’aliquota di finanziamento. Certo, quale legislatore oserebbe portare più in alto l’asticella? Come pensa di mantenere l’equilibrio nel sistema? E’ urgente una svolta. Per prima cosa occorre fare chiarezza e distinguere tra sistema di reperimento delle risorse, (ripartizione e capitalizzazione reale) e sistema di calcolo della pensione, (retributivo e capitalizzazione virtuale o contributivo). Noi abbiamo scelto di reperire le risorse con il sistema a ripartizione che si fonda sulla solidarietà intergenerazionale; io lavoratore attivo trasferisco con la mia contribuzione una quota parte della mia ricchezza a te genitore cui devo riconoscenza per avermi permesso di esistere e di produrre reddito e a mia volta genero te figlio affinché nel dare continuità alla nostra specie provvederai per dare a me una serena vecchiaia. Pertanto, tutti siamo contribuenti del sistema a ripartizione per quel debito di riconoscenza che abbiamo nei confronti dei nostri genitori ma solo i lavoratori con figli avranno diritto di percepirne la pensione. I lavoratori senza figli dovranno costruire la loro pensione in un sistema a capitalizzazione reale, peraltro non avendo il carico famigliare potranno farlo agevolmente. Distinti saluti

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