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Le peripezie italiane del signor Wang

Uomini d’affari e manager che intendono arrivare in Italia per motivi di lavoro devono percorrere un iter lento, tortuoso e soprattutto incerto. Molti perciò finiscono per scegliere altri paesi d’Europa. Le politiche di attrazione degli investimenti diretti esteri devono essere mirate oltre che ad attività di comunicazione e promozione, all’accoglienza dei cittadini stranieri. Un primo, urgente, passo consiste nel mettere prefetture, questure, uffici provinciali del lavoro e sedi diplomatiche nelle condizioni di garantire loro un accesso veloce e sereno.

Immaginiamo un signor Wang e un signor Higuchi che per lavoro debbano venire in Italia. Per entrare nel nostro paese devono fare richiesta all’ambasciata d’Italia nel loro paese di un visto di ingresso per motivi di affari, che ha durata massima di novanta giorni. Per ottenerlo, devono produrre una serie di documenti, dimostrando anche di disporre dei mezzi economici per affrontare il viaggio. Non vengono però fornite loro certezze sul rilascio, né sui tempi, che in pratica risultano molto variabili, a seconda della sede diplomatica e della stagione. Il risultato è che molti signori Wang e Higuchi scelgono di entrare in Europa da altre strade, in primis dalla Germania, e in Italia non ci arrivano mai. Con loro, il signor Rossi perde i loro investimenti e anche altre opportunità, diventando ogni giorno un po’ più povero.

Il permesso di soggiorno del manager

Un secondo caso riguarda il distacco in Italia di manager (e personale specializzato) che curano l’avviamento di un’attività nel nostro paese: in questo caso il signor Wang e il signor Higuchi, dipendenti dell’azienda presso sede estera, se hanno qualifiche particolari, possono evitare i vincoli legati ai flussi contingentati, ma devono comunque percorrere un iter lento e tortuoso. Le loro aziende presentano domanda allo Sportello unico per l’immigrazione, presso le prefetture, che poi trasmette il nulla osta all’ingresso al consolato italiano competente. Arrivati in Italia, il signor Wang e il signor Higuchi devono poi richiedere il permesso di soggiorno, da trasmettere alla questura locale, attraverso le Poste. Questo percorso, che può durare molti mesi, presenta tre tipi di problemi: il numero di interlocutori, i tempi e soprattutto l’incertezza in cui viene lasciato l’aspirante espatriato.
Per certi versi, la situazione sta lentamente migliorando, ad esempio, prima dell’istituzione dello Sportello unico, le pratiche erano due, una per la questura e una per la Direzione del lavoro, e il tramite delle Poste (che ha moltiplicato gli sportelli) evita le code disumane fuori dalle questure. Ma inizialmente, l’innovazione di una procedura causa spesso il blocco della macchina burocratica. Cosa che si è puntualmente verificata: fra l’istituzione dello Sportello unico per decreto e la sua operatività sono trascorsi mesi, cioè il tempo necessario (ampiamente variabile, a seconda delle province) agli uffici coinvolti per riorganizzarsi e adeguarsi alla nuova normativa.
Più recentemente, è stata la creazione del permesso di soggiorno elettronico (Pse), a bloccare di fatto la procedura per tre o quattro mesi, con il risultato che un’innovazione introdotta per agevolare il signor Wang e il signor Higuchi, ha invece bloccato i loro permessi, allungando ulteriormente il tempo loro necessario a ottenere il visto.

Tre cose da fare

Da queste analisi, benché sommarie, si possono trarre tre spunti per l’agenda dell’esecutivo. Occorre in primo luogo adeguare l’organizzazione della rete diplomatica, che a oggi è lo specchio di necessità del passato, con una presenza capillare in paesi che hanno attratto gli emigranti italiani nel secolo scorso (come il Sud America) e un presidio leggero delle nuove economie asiatiche. È sintomatico che il sito web del ministero dell’Estero enumeri sessanta sedi fra consolati, vice-consolati e agenzie onorarie, in Argentina e appena quattro in Cina.
Occorre poi dedicare attenzione all’intero processo di implementazione, quando si mettono in cantiere adeguamenti normativi: anche provvedimenti corretti, possono produrre effetti disastrosi se il legislatore trascura le difficoltà a cui deve fare fronte la macchina burocratica per adeguarsi. Fra i principi del buongoverno c’è quello di cambiare le regole il meno possibile. Ma quando ciò è inevitabile, sembra utile prevedere momenti di verifica o test sul campo (magari su una o due province), prima di estendere l’applicazione della nuova normativa a tutto il territorio.
Infine, è necessario andare incontro alle esigenze degli utenti, allargando l’impiego di due attrezzi ormai di uso comune nel mondo attuale, ma il cui rapporto con la burocrazia amministrativa è delicato: l’inglese e l’informatica. I moduli per il signor Wang e il signor Higuchi sono oggi solo in italiano e di carta. Realizzare materiale esplicativo, renderne disponibili al pubblico traduzioni in lingua, magari via web, contribuirebbe all’efficacia del processo. Qualche prefettura aveva fatto dei tentativi in questo senso; ora è online l’utile sito www.portaleimmigrazione.it, realizzato dalle Poste con il ministero dell’Interno. Un modello di riferimento può essere il sito inglese: www.workingintheuk.gov.uk. Oltre che nel front-end, l’informatizzazione deve essere introdotta anche nel back-office. Per realizzare il collegamento informatico fra gli uffici amministrativi coinvolti, che è l’unico modo per ridurre i tempi per il passaggio di documenti che oggi viaggiano sotto forma di faldoni cartacei, è necessario un investimento di risorse e una modifica dei regolamenti che limitano l’apertura di connessioni all’interno della stessa amministrazione.
In conclusione, le politiche di attrazione degli investimenti diretti esteri devono essere mirate, oltre che ad attività di comunicazione e promozione, all’accoglienza dei cittadini stranieri, attraverso la leva del servizio. Un primo, urgente, passo consiste nel mettere le strutture coinvolte – prefetture, questure, uffici provinciali del lavoro e sedi diplomatiche – nelle condizioni di garantire loro un accesso veloce e sereno.

* Dirigente di ITP- Invest in Turin and Piedmont. L’articolo e le opinioni in esso contenute sono presentate dall’autore a titolo personale e non sono pertanto necessariamente attribuibili all’ente dove lavora.

La replica di Enrico Granara*

Intervengo a nome dei diplomatici iscritti al SNDMAE, sindacato autonomo dei dipendenti del Ministero affari esteri.
L’analisi di Andrea Villa tocca molti punti critici, ma essendo sommaria, rischia di indurre in errore i lettori. Come si fa, ad esempio, a scrivere che il sig.Higuchi deve venire per “lavoro” e quindi chiede un visto per “affari” che è cosa completamente diversa? L’uno è “nazionale” e di lunga durata (fino a 365 gg) e l’altro è Schengen, di breve durata e fino a 90gg. L’uno esige un nulla osta dallo Sportello Unico presso la Prefettura e l’altro viene valutato solo dalla Sede diplomatica/consolare. La quale, tra l’altro, non ha nessun obbligo di motivare il divieto, perché la legge non lo prevede per i dinieghi per affari e turismo; diverso è il caso per altre tipologie per le quali occorre motivare; teniamo però presente che diversi Partners Schengen non motivano mai né offrono possibilità di appello, mentre da noi c’è pur sempre il TAR.
Villa afferma che, essendo noi troppo severi, il sig.Wang si rivolge allo sportello tedesco. Errore!  Il problema n.1 per i visti ‘affari’ è avere la certezza che il tizio presentatosi allo sportello sia veramente un operatore economico-commerciale, non un venditore di caldarroste, un aspirante clandestino o peggio. Ciò detto, va riconosciuto che i tedeschi hanno un sistema camerale molto efficiente e i visti ‘affari’ sono di fatto gestiti dalle loro Camere di Commercio a Pechino, a Teheran, ecc., tutte messe in grado di accertare la condizione di operatore economico. Ma si tratta di un sistema del tutto diverso da quello italiano. Nel caso dei visti, le Camere tedesche sgravano le loro sedi diplomatiche di tutto il lavoro ricognitivo. Un lavoro che, nel caso italiano, rimane invece a carico dei nostri sportelli consolari, coadiuvati da nostri uffici commerciali o dall’ICE, ma soltanto là dove sono presenti. In secondo luogo, i tedeschi richiedono un invito molto dettagliato (circa 4 pagine) da parte di chi riceve l’operatore economico in Germania. Perciò, nel caso in cui le cose vadano storte, la persona (o impresa) residente va incontro a serie conseguenze penali. Se ad esempio l’ospite si dilegua, Herr Muller si vede arrivare la polizia e passa i guai suoi; da noi invece non succede assolutamente nulla, perché la legge non fornisce questi strumenti alle forze dell’ordine (l’art.11 del Testo Unico è tutt’altra cosa).

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Ciò detto, le nostre sedi diplomatiche più attrezzate effettuano frequenti controlli e dettagliati confronti con i requisiti e i tempi richiesti dai principali Partners. Il Centro visti della Farnesina ci assicura che siamo spesso in linea coi migliori. Se ad esempio sui passaporti dei richiedenti non c’è alcun visto tedesco o francese, ciò assume un rilievo significativo nella concessione del visto da parte italiana. Di conseguenza, la classica frase “allora vado a chiedere il visto dai tedeschi che me lo danno subito”  è spesso e volentieri una bufala e un bluff (anche perché poi si scopre che il tizio dai tedeschi proprio non c’è andato…).
A parte questo e a parte il fatto che la Germania e la Francia hanno tutt’altre risorse rispetto alle nostre, resta il fatto che 1) negli ultimi 4 anni siamo passati da 850mila visti a 1.200mila, con un aumento medio del 10% annuo; quest’anno il nostro sistema è destinato a sperare la soglia del milione e mezzo di visti con un aumento tra il 25 e il 30%. Il tutto a risorse costanti. Non so quale azienda possa vantare simili risultati  – e infatti i nostri addetti sono allo stremo! – ; 2) per quanto riguarda i visti per affari, per i primi 5 mesi del 2007 si registra un +13,02% rispetto allo stesso periodo del 2006 (da 67.180 a 75.928) e il lavoro subordinato sale a +191,98%  (da 26.148 a 76. 348) nel quadro di un aumento generale del 23,44%.  All’occorrenza, avrei altri dati da citare, ma forse ai nostri pazienti lettori possono bastare questi.
Quanto sopra non esclude che il servizio offerto sia in molti casi obiettivamente carente. Citando le cifre degli incrementi registrati non dobbiamo concludere che tutto-va-nel-modo-migliore-possibile. Se in talune sedi si è aumentato del 500% i visti per lavoro subordinato, ma si danno appuntamenti dopo settimane o mesi, vuol dire che le cose non vanno. (Di sicuro, non vanno bene dal punto di vista del pubblico).
Ma questi sono problemi risolvibili soltanto se ai nostri uffici all’estero si daranno dei reali strumenti di gestione. Il Sindacato dei diplomatici italiani li chiede da tempo, attraverso la sua proposta di “bilancio di sede”, elaborata con la consulenza di autorevoli esperti vicini alla Corte dei Conti. Per saperne di più faccio rinvio al nostro sito web. A che pro ?- direte voi. Ebbene, una nostra ambasciata in un paese extra-europeo ci segnala che, grazie all’aumento dell’800% dei visti, in questo primo semestre dispone di 70.000 euro di percezioni consolari, il doppio di quanto Roma le ha assegnato – per tutto il 2007 – per le spese di funzionamento, manutenzione e sicurezza. Se le nostre ambasciate fossero autorizzate a gestire in proprio anche solo una parte di quelle percezioni, sarebbe la vera svolta epocale.
Per il resto, dal 2002 vi sono corsie preferenziali e linee dedicate, da anni sono operanti istruzioni di collaborazione organica con l’Ufficio Commerciale  di ciascuna ambasciata e con l’ICE, circa 50-60 sedi operano con efficaci (e talvolta assai sofisticati) Call Centers. E’ stato inoltre dato un forte impulso ai visti pluriennali (alcune decine di migliaia): il che significa che appena il nostro sig.Wang non è un PincoPallino qualsiasi gli viene proposto un visto della durata da 1 a 5 anni.
Quanto ai Permessi di soggiorno, non essendo una competenza diretta del Ministero Esteri, meglio sorvolare. La descrizione di Villa, in questo, ci pare benevola. Che l’Italia faccia di tutto per scoraggiare gli stranieri (e non solo le povere badanti ucraine) è un dato evidente. Pensate che mentre al nostro Centro Visti si stanno scervellando per cercare corsie preferenziali, focal points e altri marchingegni, per facilitare le procedure ai tecnici della Boeing che verranno in Italia nel quadro di maxicommessa ottenuta da Alenia, ebbene, gli americani sono in grado di rilasciare dei visti per affari con validità decennale, nel giro di 2 giorni! Poco meno fanno tedeschi e olandesi, i quali consentono agli stranieri non soggetti a visto breve Schengen (coreani, giapponesi, americani ecc.) di arrivare in Germania senza visto, appunto perché ne sono esenti fino a 90gg, e poi, nel caso in cui si presentino opportunità di studio, di ricerca o di lavoro, di regolarizzare la loro situazione sul posto, ricevendo un Permesso di soggiorno valido per 3 anni.  Noi invece dobbiamo rimandare il malcapitato in Corea o in Giappone, farlo attendere mesi per avere il Nulla Osta e fargli prendere un visto per Lavoro subordinato, per poi dargli un Permesso di soggiorno dopo alcuni mesi!
Dato che gli sportelli visti sono quasi sempre collegati a quelli consolari, è allora il caso di ricordare quali sono i problemi della nostra rete consolare, afflitta dalla logica del fare tutto a costo zero, per cui per aprire da una parte si è costretti a chiudere dall’altra, in una situazione in cui gli uffici rimangono oberati da carichi di lavoro mostruosi, dovuti in buona parte alla più demagogica legge sulla cittadinanza che ci si potesse inventare. Con quel che ne consegue sul piano della gestione pratica dell’anagrafe elettorale e del voto all’estero.

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Va detto, in questo contesto, che i 60 uffici di seconda categoria (cioè onorari) operanti in Argentina non hanno nulla a che vedere con i visti, ma svolgono compiti sussidiari per sbrigare pratiche anagrafiche o di stato civile dei numerosi connazionali non sempre in grado di raggiungere l’Ufficio di prima categoria (cioè quello direttamente rispondente a Roma). La normativa vigente vieta a consoli, vice consoli e agenti onorari di gestire una materia delicata come quella Schengen. I decreti che nominano tali operatori attribuiscono loro funzioni del tutto limitate e pertanto l’eventuale apertura di uffici consolari onorari in Asia non gioverebbe affatto in termini di smaltimento dei visti in Estremo Oriente.
Certo, balza evidente la sproporzione tra i 12 consolati in Svizzera e le 3 sedi (Ambasciata compresa) in India e le 4 in Cina (compresa l’Ambasciata e Hong Kong). Lo squilibrio c’è e va rivista la consistenza e distribuzione della nostra presenza consolare nel mondo. Come SNDMAE noi sosteniamo che il riequilibrio non si deve fare peggiorando il livello dei servizi dovuti ai connazionali residenti in Svizzera e in altri paesi d’Europa. Secondo noi la vera soluzione passa attraverso un investimento capillare nell’informatizzazione degli archivi consolari, nella messa in rete dei dati, nella trasformazione, ove necessario, di alcuni consolati in agenzie consolari, finanche onorarie, con la conseguente riassegnazione di personale di ruolo e a contratto là dove veramente serve, secondo una politica delle risorse umane che dia la priorità alla formazione sul piano informatico del personale tecnico-amministrativo e alla verifica periodica del suo rendimento, con un sistema credibile di incentivi e disincentivi.
In tutto questo, la rete dei nostri 512 consoli onorari ha subito pesanti e ripetuti tagli delle ultime Finanziarie. La Farnesina non è in grado di ripartire più di un milione e mezzo di euro l’anno tra 512 uffici. E il messaggio indirizzato a questi servitori volontari dello Stato italiano è sempre, sconsolatamente, lo stesso: ” L’amministrazione è ben consapevole delle difficolta’..”,”nell’attuale situazione di bilancio non è stato possibile agire diversamente..”,”si assicura il massimo impegno a perseguire l’obiettivo di un’adeguata integrazione di fondi.. “.  
E’ del tutto evidente che il ricorso sempre più ampio alla rete consolare onoraria rappresenta una forma efficace di ‘outsourcing’ (insieme all’apertura di sportelli informatici presso i comuni svizzeri, ecc.) tale da permettere, contestualmente alla rimodulazione informatizzata di decine di Uffici consolari ordinari, di assicurare servizi a costi molto più ridotti, come fanno gli altri paesi. La decisione è quindi politica e deve passare per un accordo con i sindacati interessati alla tutela dei posti dei dipendenti amministrativi di ruolo all’estero. Ma il dilemma del nostro sistema, da anni, è tutto qui: per arrivare a liberare risorse da destinare ai servizi in crescita (visti e connessi sportelli economici) occorrono investimenti pluriennali per modernizzare i servizi consolari tradizionali (anagrafe, stato civile, passaporti, notarile, e -da poco – anche elettorale). Ma di investimenti non si vede traccia. Né in finanziaria, né in altri strumenti normativi più propriamente organici. Qui al Ministero Esteri per ora vediamo solo tagli disfunzionali e operazioni cosmetiche fuori da ogni serio piano di razionalizzazione.
Un ultimo cenno, sui moduli e l’informatica: ci è venuto il sospetto che Villa non si sia neppure preso il disturbo di aprire il sito Mae www.esteri.it/visti dove appare il database sui visti, che tra l’altro ha pure una versione in inglese, con tutti i moduli scaricabili (anche in inglese), e al quale i siti di tutte le sedi sono collegati. Altro che moduli solo cartacei!

* presidente SNDMAE

La controreplica dell’autore

Se la mia analisi sommaria ha indotto in errore qualche lettore, spero che il lungo commento di Enrico Granara abbia contribuito a fare chiarezza. Nonostante il tono un po’ contrariato, mi sembra che l’intervento confermi la sostanza della mia analisi: l’accesso al nostro Paese per un cittadino straniero non è agevole. Questo, più che per il cittadino straniero, che dispone di altri canali di accesso all’Europa, rappresenta un problema per noi, che lo perdiamo, magari a vantaggio di altri Paesi, che lo accolgono meglio. Nella mia attività non devo occuparmi di migliaia di casi l’anno, ma solo di poche decine, abbastanza però per avere esperienza diretta del dedalo di burocrazia arrogante ed insensibile che inghiotte i malcapitati Wang e Higuchi. Con il mio intervento, desideravo segnalare che una politica di attrazione di investimenti dall’estero non è conciliabile con le logiche che oggi governano l’accesso all’Italia delle persone.
Non è un problema che riguarda solo il Ministero degli Esteri, perché sono diversi i ministeri coinvolti e, ad onore del vero, molte volte i singoli impiegati sopperiscono con buon senso e fantasia alle deficienze del sistema. Ma questo permette di risolvere singoli casi, mentre il problema è strutturale e grave. Dove investiranno le loro risorse, Wang e Higuchi, se da noi sono trattati da questuanti indesiderati, mentre altrove sono accolti in modo civile e decoroso? Purtroppo, non è la prospettiva di vedersi riconosciute le loro ragioni dal TAR, che li convincerà a dirigersi in Italia.
Granara lamenta (nel suo intervento e attraverso il sito del sindacato, ricco anch’esso di informazioni) l’assenza di investimenti, operazioni cosmetiche e la logica dominante del “fare tutto a costo zero”; questo non può che generare ulteriore preoccupazione, visto che il grido d’allarme viene da chi lavora dentro la macchina amministrativa. Ho indicato tre “cose da fare” che ritengo siano degne di ricevere attenzioni e investimenti di risorse; sono sempre dell’idea che un utilizzo maggiore degli strumenti informatici e della lingua inglese gioverebbe. Per riprendere l’esempio suggerito da Granara, dal sito del Ministero degli Esteri, anche dalle sezioni in inglese, gli allegati scaricabili sono esclusivamente in lingua italiana (http://www.esteri.it/eng/5_32_183.asp). Purtroppo non è un’eccezione.

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  1. Arturo

    Sono pienamente d’accordo con quanto espresso dal Dott. Villa nel suo articolo. Purtroppo l’organizzazione ed il funzionamento del nostro Ministero degli Esteri risentono non solo delle lungaggini burocratiche a cui ogni serio tentativo di riorganizzazione della rete diplomatico-consolare è soggetto, ma anche delle demagogiche iniziative sostenute da alcuni esponenti del nostro Governo.
    E’ di questi giorni la notizia che le rappresentanze diplomatiche e consolari dovanno rilasciare ai connazionali residenti all’estero, oltre ai passaporti, anche carte d’identità. Ciò dovrà essere effettuato, mediante una procedura cartacea e farragginosa, di concerto con i comuni di ultima residenza dei connazionali stessi, alcuni dei quali non brillano certo per efficienza (si pensi ad esempio al cronico marasma organizzativo che affligge l’ufficio anagrafe del Comune di Roma).
    A queste nuove attribuzioni delle Ambasciate e dei Consolati non fa riscontro alcuno stanziamento di risorse economiche o umane per far fronte all’ulteriore carico di lavoro che si prospetta, e questo non è certo il modo di utilizzare al meglio le nostre strutture.
    Un governo che intenda incentivare gli investimenti stranieri da parte delle economie emergenti dell’Asia dovrebbe prestare maggiore attenzione e destinare le necessarie risorse di bilancio per il miglior funzionamento delle strutture operanti in quei Paesi. Un dato solo basta a sottolineare questa colpevole disattenzione: l’Ufficio ICE di Osaka è senza direttore dal 2003!

  2. Claudio Parma

    Assolutamente d’accordo con quanto scritto nell’articolo.
    Nel corso della primavera scorsa il consolato italiano a Canton/Cina ha rifiutato il visto ad un uomo d’affari cinese, che peraltro ci aveva già visitati lo scorso anno.
    Motivzione?
    Nessuna motivazione!
    Le autorità consolari si riservano il diritto di rifiutare l’emissione del visto senza dover fornire alcuna motivazione.
    Povera Italia!
    E noi che ci diamo da fare, a nostre spese, per cercare di concludere qualche contratto!

  3. Enrico Cesarini

    Dal 2 giugno 2007, è entrata in vigore L.28 maggio 2007, n. 68 “Disciplina dei soggiorni di breve durata degli stranieri per visite, affari, turismo e studio”. Pertanto, quanto al primo degli esempi fatti, il sig. Wang entrato in Italia per motivi di affari, non dovrà più richiedere un permesso di soggiorno, ma potrà prestare semplicemente una dichiarazione di presenza presso la Questura. Questa norma, del tutto apprezzabile, però non scioglie le contraddizioni e le carenze perfettamente evidenziate nell’articolo. Oltre alle carenze normative (che chiamano il legislatore ad intervenire urgentemente), in Italia la criticità maggiore resta sempre quella dell’enforcement: applicazione e pubbliche amministrazioni. ecesarini@italialavoro.it

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