E’ un Documento di programmazione economica e finanziaria da fine legislatura quello appena varato dal Governo. Guarda alle esigenze politiche immediate e trascura il futuro. A chi governerà nel 2009 e 2010 viene passata la patata bollente di un aggiustamento per raggiungere il pareggio di bilancio nel 2011. Insomma, a meno di un cambiamento radicale nella capacità del Governo di contenere la spesa, alla fine avremo più spesa e più tasse. E ancora una volta non vi sono politiche prioritarie per l’ambiente, malgrado gli alti costi che comportebbe la mancata applicazione del Protocollo di Kyoto.

Un Dpef di fine legislatura *, di Tito Boeri e Pietro Garibaldi 29-06-2007

Il governo ha approvato un Dpef di breve respiro e di breve periodo, molto attento agli interessi politici immediati e poco attento agli interessi di finanza pubblica, e del paese, di medio periodo. Insomma un Dpef di fine legislatura. Per vari motivi. Primo, il Dpef 2008-2012 delinea un percorso di finanza pubblica “peggiore” di quello che il paese aveva di fronte lunedì scorso, prima della tre giorni di “fiera della spesa” che si è tenuta a Palazzo Chigi. Secondo, il Dpef rimanda l’aggiustamento di finanza pubblica necessario a raggiungere il pareggio di bilancio interamente al 2009 e al 2010. Una scomoda eredità per chiunque governerà fra tre anni. Terzo, invece di sfruttare il ciclo economico positivo, si decide di prendere tempo. Quarto, offre un pessimo segnale per la trattativa sulle pensioni sulla quale il governo si trova ora ad avere le armi spuntate. Mentre la vera lezione da trarre è che le riforme rinviate nel tempo, anche quando scolpite su una legge già approvata, poi non vengono attuate.

Un business plan. Per i posteri

Poche settimane fa, durante il tormentone primaverile sulla destinazione “tesoretto”, avevamo suggerito al ministero dell’Economia una semplice strategia di politica economica: per ogni euro speso oltre i 2,5 miliardi annunciati, il Dpef avrebbe dovuto aumentare di un euro l’intervento correttivo nel 2008. Il ministro ha fatto esattamente l’opposto. Ha deciso di spendere 6,5 miliardi di euro invece dei 2,5 miliardi più volte annunciati e ha simultaneamente deciso di eliminare completamente ogni aggiustamento per il 2008. Questo significa che l’aggiustamento previsto per la Finanziaria 2008 sarà pari a zero, mentre il deficit per il 2008 sarà rivisto al rialzo al 2,2 per cento. Per la prima volta dopo tanti anni, gli obiettivi sono peggiori del tendenziale (del quadro a legislazione vigente). La strada verso il raggiungimento del pareggio di bilancio è comodamente rimandata al 2009 e agli anni successivi.
L’idea del Dpef dovrebbe essere quella di presentare un business plan pluriennale. In quest’ottica, l’obiettivo fondamentale di lungo periodo del paese, più volte annunciato dal governo con grande enfasi, è il pareggio di bilancio nel 2011. Il messaggio che si evince dal Dpef è chiaro. Il pareggio di bilancio potrà essere raggiunto con un aggiustamento fatto interamente da chi governerà nel 2009 e nel 2010. Non sorprendono perciò le “forti preoccupazioni” espresse dal commissario UE Almunia, che giudica il piano “non in linea con gli orientamenti dell’Eurogruppo” pur senza avere ancora letto in dettaglio il documento. Quando lo farà, si accorgerà che l’aggiustamento al netto del ciclo e delle una tantum è pari solo allo 0.2 invece dello 0.5 previsto dal Patto di Stabilità (tabella III.12).
Dopo tre giorni di trattative estenuanti a Palazzo Chigi, il governo ha approvato un decreto di spese pari a 6,5 miliardi di euro. E a questi andranno aggiunti i costi relativi all’annunciato e non ancora approvato “ammorbidimento” dello scalone. Il Dpef assume, infatti, che la riforma Maroni non sia cancellata e che eventuali passaggi da “scaloni” a “scalini” siano interamente finanziati. Con nuove tasse? Il quesito è legittimo perché sin qui di tagli alla spesa non c’è traccia alcuna.

Cosa c’è nel decreto

Ma vediamo come sono stati spesi questi 6,5 miliardi. Il governo ha indicato tre destinazioni: 2,3 miliardi per interventi “sociali”, 2,3 per infrastrutture e sgravi fiscali legati al lavoro e il resto nei più disparati interventi di spesa, tra cui spiccano 700 milioni per le spese dei ministeri.
Sia chiaro, alcuni di questi interventi sono opportuni, anche se quasi sempre estemporanei e non inseriti in un chiaro disegno riformatore. È il caso dei finanziamenti ai sussidi ordinari di disoccupazione. Il nostro paese ha bisogno di una maggiore copertura contro il rischio di disoccupazione per i lavoratori delle piccole imprese e che hanno brevi carriere lavorative, ma questo obiettivo si può ottenere a costo quasi zero attraverso un riordino della “selva” degli ammortizzatori, oggi troppo sbilanciati verso i lavoratori agricoli e gli occupati della grande industria. Il governo, invece, ha destinato 600 milioni agli ammortizzatori senza riformare alcuno degli istituti esistenti.
Siamo contrari agli interventi all’introduzione di nuovi oneri figurativi per i lavoratori precari. La riforma del mercato del lavoro, e il futuro previdenziale e lavorativo dei lavoratori “duali”, sono tra le questioni che più ci stanno a cuore, e abbiamo in passato proposto di introdurre un contratto unico verso la stabilità a costo zero per lo Stato convinti come siamo che il dualismo sia un problema del mercato del lavoro, non del nostro sistema pensionistico. Nell’interesse del paese, il sistema previdenziale deve mantenere una stretta logica contributiva, in cui il valore delle prestazione future è strettamente proporzionale ai contributi effettivamente versati. Questa logica viene meno nel decreto del Governo.
Desta molti dubbi anche l’idea di incentivare, con riduzioni dei contributi sociali, il lavoro straordinario. Non è un intervento prioritario in un paese il cui problema centrale è quello di avere poche persone che lavorano, piuttosto che persone che lavorano troppo poco in termini di orario. Gli incentivi alla contrattazione di secondo livello sono di difficile attuazione, si prestano ad abusi e rendono ancora meno trasparente la busta paga.

Un pessimo segnale

Preoccupa soprattutto il segnale dato dal banchetto di questi giorni.
Il ministro ci aveva promesso “riforme vere” e non selvaggi “tagli” di spesa. Tra Dpef e decreto fiscale non si vedono né le riforme, né i tagli, ma solo la vecchia logica della spesa pubblica “sospinta dalle tasse” (tax push): quando le entrate aumentano, la spesa pubblica finisce sempre per aumentare. Per le riforme c’è sempre tempo. Dopo, quindi mai. Perché la semplice lezione che viene dal mancato aggiornamento dei coefficienti di trasformazione (previsto da una legge del 1996) e dallo smantellamento dello scalone (previsto da una legge del 2004) è che anche quando le riforme sono scolpite su di una legge già approvata, poi non vengono fatte. Questione di incoerenza temporale. Se così stanno le cose, meglio smettere di inserire nelle leggi provvedimenti con attuazione differita. Sono pura ipocrisia. E un Dpef che rinvia l’aggiustamento ai posteri, potrebbe davvero essere di poche pagine. Molte meno di 172.

* Testo in inglese disponibile su www.voxeu.org.

La risposta audio di Tito Boeri ai commenti dei lettori

A volte ritornano: la reincarnazione della Legge Obiettivo, di Andrea Boitani e Marco Ponti 27-07-2007

Con il programma di Governo del 2006, il “Piano generale dei trasporti” (PGT), varato dal precedente Governo di centro-sinistra nel 2001, tornava ad essere il punto di riferimento in materia di politica delle infrastrutture e dei trasporti, per i partiti dell’Unione (1). A leggere il recente Dpef, sembra che il riferimento ai criteri fissati dal PGT sia divenuto sempre più vago, mentre tra le moltissime carte prodotte recentemente dal Ministero delle Infrastrutture si può addirittura leggere che “a quasi cinque anni dalla sua emanazione, la Legge Obiettivo si conferma come una novità fondamentale nel quadro dello sviluppo civile e produttivo del Paese”.

Scelte di lunga percorrenza e poca lungimiranza

In effetti, dal voluminoso “Allegato infrastrutture” al Dpef si evince che la scelta dei progetti prioritari per il paese rimane quella della famosa lavagna di Berlusconi alla trasmissione “Porta a porta” del 2001 e poi riflessa nella Legge Obiettivo: un elenco di “grandi opere”, selezionate con criteri strettamente politici, e tutte orientate al traffico di lunga percorrenza. Non ha importanza che – come riconosceva il citato programma elettorale dell’Unione – il 70% degli spostamenti di tutto il territorio nazionale si sviluppi nelle aree urbane e metropolitane e che soprattutto questi spostamenti incidano assai più di quelli di lunga percorrenza su congestione, inquinamento, e costi per le imprese. Ma su questo punto (e non solo) va segnalata una stridente contraddizione tra l’Allegato infrastrutture e il capitolo V.11 (“Infrastrutture”) del Dpef, da un lato, e il capitolo V.12 (“Mobilità”) dall’altro. A conferma che la scissione del vecchio Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti in due ministeri separati (che hanno con ogni evidenza curato i due capitoli) non è stata una buona idea.
Dall’elenco di Berlusconi-Lunardi il Ministro Di Pietro si è limitato a rimuovere (sembra più posporre) il Ponte sullo Stretto di Messina, su cui, del resto, il programma elettorale era stato esplicito, ma che non è neanche tra le opere inutili più costose. E’ stato reintrodotta la linea AV Milano-Genova, che anche i vertici di F.S. hanno dichiarato più volte opera di scarsa utilità e costosissima. Coerentemente, è stato fatto invece un accurato censimento dei “desiderata” delle regioni, secondo una consolidata tradizione americana nota come “pork-barrel policy”, che determina scelte molto inefficienti se riferita a finanziamenti da parte dello Stato centrale.
In buona sostanza, è stato fatto tutto ciò che esclude un serio confronto sulla priorità reale dei progetti, priorità che deve e può basarsi su analisi socioeconomiche e finanziarie omogenee, che includano anche i costi ambientali, e analizzino alternative tecniche adeguate, secondo la miglior prassi internazionale. A rigore, nel Dpef (soprattutto nel capitolo “Mobilità”) c’è un richiamo alla necessità di analisi costi-benefici, ma sembra un’evidente foglia di fico, di cui si perde ogni traccia negli elenchi dell’Allegato infrastrutture (elenco che costituisce un modello noto come “shopping list”).
Nel dibattito di questi ultimi mesi sono anche ritornati fantasmi, che sembravano già esorcizzati, come la “golden rule”, invocata recentemente in più sedi dal Presidente della Commissione trasporti del parlamento europeo Paolo Costa. C’è da chiedersi, se la razionalità economica delle scelte è quella appena descritta, vigente l’attuale vincolo alla spesa, cosa potrebbe accadere in assenza di tale vincolo? Non è difficile immaginare che la spinta locale e settoriale a costruire le cose più fantasiose diverrebbe inarrestabile. Da notare è anche il fatto che il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, con delega al Cipe, Fabio Gobbo sia tornato a evocare la “finanza creativa” cara a Giulio Tremonti, nella forma di coinvolgimento di capitali privati, coinvolgimento che risulta in genere solo formale, nella misura in cui nella prassi dominante tali capitali risultano perfettamente garantiti dallo Stato per qualsiasi rischio.
In questo contesto appare particolarmente preoccupante la richiesta di finanziamenti europei fatta dall’Italia per moltissimi progetti della legge obiettivo: vi sono infatti 8 miliardi per ventisette paesi, e l’Italia ne chiede 700 milioni solo per l’AV Torino-Lione. Anche se arrivassero tutti, coprirebbero meno del 10% dei costi totali per la parte italiana del progetto. Ma purtroppo, anche se arrivassero cifre simboliche dall’Europa, ciò significherebbe l’impegno nazionale a coprire l’intero costo di ciascuna opera, ipotecando ingentissime risorse per gli anni a venire su opere molto onerose, di cui mai è stata verificata la priorità. Tale verifica non è stata fatta in modo comparato neppure per quanto riguarda la semplice redditività finanziaria dei progetti: e si noti che in presenza di risorse scarse, la redditività finanziaria è parametro essenziale anche per la redditività socioeconomica complessiva: a parità di quest’ultima infatti se si selezionano progetti a maggior ritorno finanziario se ne possono realizzare in maggior numero (2).

Tre aspetti da valutare

Quali sono le logiche “bipartisan” che sembrano emergere in questo delicato settore e che sono alla base della sostituibilità quasi perfetta tra l’Allegato infrastrutture di Di Pietro e quello che avrebbe potuto produrre Lunari? Si possono qui fare alcune ipotesi.

· La prima questione sembra essere l’informazione: i grandi progetti infrastrutturali sono stati da 5 anni oggetto di una sistematica campagna di supporto da parte degli interessi costituiti, che sono riusciti a rappresentare ogni forma di critica come manifestazione di contrarietà al progresso e alla modernizzazione del paese, tipica della sinistra estrema e dell’egoismo localistico. In realtà, sarebbe interessante effettuare qualche indagine sul livello di conoscenza tecnica dei problemi di trasporto dei supporters politici e industriali delle grandi opere. E ci stiamo lavorando…
· Un altro aspetto, più strutturale, riguarda il ruolo delle grandi opere civili: in questo settore moltissimi input devono necessariamente essere locali (in gergo: non è “foot loose”) e perciò la concorrenza internazionale è storicamente poco presente. Questo fa sì che la spesa in opere civili sia praticamente l’unico modo attraverso il quale si possono erogare fondi rilevanti alle imprese nazionali senza incorrere nel divieto per aiuti di Stato.
· Un terzo punto, correlato con i due precedenti, è lo scandalo, subito dimenticato, dell’enorme crescita nel tempo dei costi della tipologia di opere più rilevanti, quelle dall’AV ferroviaria: così i costi per chilometro di linee ad alta velocità in Italia è stato (ed è previsto essere in futuro) oltre il triplo che in Francia o Spagna. Costi anomali, anche a parità di saggio di profitto, significa un flusso anomalo di risorse ai settori interessati, tramite F.S., che – a causa di tali extracosti – recentemente ha beneficiato di trasferimenti “cash” per 12 miliardi di euro. Queste risorse generano ovviamente una eccezionale capacità di pressione, politica e mediatica, perché tale flusso non si arresti.

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(1) Per il bene dell’Italia. Programma di Governo 2006-2011, pp. 136-140.

(2) Bonnafous, A., Jensen, P. (2004), Ranking Transport Projects by their Socio-economic Value or Financial Interest Rate of Return? Paper presented at 10th WCTR, Istambul, July.2004, 11p. , e Ponti M. (2003), Welfare basis of evaluation, in Mackie P.J., Nellthorp J., Pearman A. D. (edited by, 2003), Transport projects, programmes, and policies: evaluation needs and capabilities, Ashgate Publishing Ltd, Aldershot (UK).

Un Dpef poco energetico, di Marzio Galeotti 10-07-2007

Dal 1° gennaio 2008 scatta il quinquennio durante il quale il nostro paese dovrà ridurre le proprie emissioni di gas clima-alteranti secondo l’impegno contratto nel 1997 a Kyoto sulla base del Protocollo che il nostro Parlamento ha ratificato con la legge n. 120 del 1° giugno 2002. Abbiamo a disposizione il periodo che si conclude a fine 2012 per ridurre le nostre emissioni del 6,5 per cento rispetto ai livelli del 1990. Le quali sono nel frattempo aumentate – siamo a un +13 per cento nel 2006 – e ancora stanno aumentando, cosicché lo sforzo sarà assai più consistente, probabilmente dell’ordine del 20 per cento in più. Un recente studio di Point Carbon mostra la situazione al giugno 2006 (figura 1).

Nessun intervento preciso

Il Documento di programmazione economica e finanziaria per gli anni 2008-2011, fresco di stampa, ci informa che i costi della mancata applicazione del Protocollo in Italia rischiano di aumentare fino a 2,56 miliardi di euro all’anno per il periodo 2008-2012.
Visto l’incipit, ci saremmo perciò aspettati ben altro dal Dpef ai capitoli ambiente ed energia. Il periodo di competenza del documento si sovrappone quasi integralmente con il primo Commitment Period del Protocollo, dunque gli estensori del documento avrebbero dovuto rivelarci con un certo dettaglio che cosa il governo intende fare per adempiere ai propri obblighi. Obblighi che non solo sono nel nostro interesse, considerato come sta andando il clima, ma che potrebbero costarci assai cari.
Se non sbagliamo, la funzione del Dpef è quella di definire, nella maniera più precisa possibile, di regola quantitativamente, due scenari: uno tendenziale, che descrive come sta andando il sistema economico proiettando in avanti l’attuale situazione (il “business as usual“), e uno di policy, che descrive come e dove si vuole che il sistema vada. Di norma i due scenari non coincidono, e il Dpef dovrebbe indicare gli interventi per allinearli. Questi però non dovrebbero limitarsi a generiche enunciazioni: più precisi e più stringenti saranno e meno arbitrari saranno i contenuti della successiva Legge finanziaria, la quale ha il compito di enunciare in dettaglio le varie “politiche e misure” atte a raggiungere, anche quantitativamente, gli obiettivi.
Da questo punto di vista, secondo noi, il Dpef fallisce, almeno per quanto riguarda i capitoli V.6 “Clima e ambiente” e V.7 “Energia”. L’impressione che emerge dalla lettura del documento è che si tratti di un’appendice del programma elettorale della maggioranza, rivisto e corretto alla luce di un anno di governo. Molti, anzi troppi, gli enunciati di obiettivi e le dichiarazioni di intenti. Sappiamo che è pericoloso estrapolare frasi dai contesti, e quindi ci asteniamo dalla tentazione di citare qualche passaggio. Il lettore si può sincerare leggendo direttamente il documento.
Nell’ambito più propriamente ambientale si toccano i temi delle azioni di tutela, dell’adattamento (1), della biodiversità, dei rifiuti e dei siti contaminati. Sul fronte energetico vengono toccati temi rilevanti, dalla sicurezza dell’approvvigionamento a quelli del risparmio e dell’efficienza energetica. Ma ancora una volta senza menzione di precise linee di intervento, senza cenni agli strumenti che si intendono impiegare. Anzi, nelle sei pagine del documento dedicate al tema abbiamo contato almeno cinque volte frasi come “nei limiti delle compatibilità finanziarie”, “nei limiti delle disponibilità finanziarie”, “compatibilmente con le risorse di bilancio”, quasi che si vogliano mettere le mani avanti. E qui il pensiero va inevitabilmente al dibattito su pensioni e “tesoretto”, che a chi si occupa di cambiamenti climatici non riesce a non apparire spesso surreale.

Cosa fanno gli altri

Vi sono anche cose a nostro giudizio apprezzabili nel documento. Ne vogliamo menzionare due: l’impegno del governo a introdurre un sistema di contabilità e bilancio ambientale nello Stato, nelle Regioni e negli enti locali e l’intenzione di avviare in tempi brevi la revisione della Strategia d’azione ambientale per lo sviluppo sostenibile in Italia del 2002.
Ma è sul piano dei cambiamenti climatici e sul controllo delle emissioni che il Dpef doveva dare un segnale forte di discontinuità con il passato. Doveva cioè spiegare cosa il governo intende fare già dal 1° gennaio prossimo per evitare di sborsare le somme molto ingenti che cita in apertura. Il ripetuto riferimento alle disponibilità di bilancio suscita invece l’impressione che ancora una volta la lotta ai cambiamenti del clima sia una priorità subalterna, da mettere sempre in coda. In realtà, dovrebbe venire prima di tutto, o almeno di tanto altro. Così appare essere per il governo britannico che a marzo 2007 ha varato un piano di riduzione del 60 per cento delle proprie emissioni al 2050 (e del 26-32 per cento al 2020) prevedendo un sistema di target vincolanti e di carbon budgets.
Similmente, la Germania ha assunto un obiettivo di riduzione unilaterale delle proprie emissioni del 40 per cento entro il 2020 e – come ci informa l’ottima Relazione della VIII Commissione (Ambiente, territorio e lavori pubblici) della Camera dei deputati sulle “Tematiche relative ai cambiamenti climatici”, approvata il 28 giugno 2007 – a tal fine ha varato un pacchetto strategico di provvedimenti che mirano alla tutela del clima.
L’Italia avrebbe potuto prendere esempio da questi due paesi che peraltro, come vediamo dalla figura qui sotto, stanno assai meglio di noi quanto a obblighi di riduzione dei gas-serra. Il Dpef avrebbe potuto affermare per esempio che per i settori esclusi dallo schema europeo dei permessi di emissione si farà ricorso alla tassazione sotto forma di una estesa riforma fiscale ambientale che ripensi l’attuale sistema di tassazione dell’energia e finalizzi il gettito all’alleggerimento delle tasse sul lavoro e all’incentivazione della ricerca tecnologia. Questo “secondo dividendo” avrebbe ripercussioni positive sull’economia e contribuirebbe (insieme all’allarme sui guasti dei cambiamenti climatici, sotto gli occhi di tutti) a rendere politicamente accettabile l’operazione. Il tutto in linea con i contenuti del “Libro verde sugli strumenti di mercato utilizzati a fini di politica ambientale ed energetica” preparato dalla Commissione europea e diffuso a marzo 2007.

Figura 1: Distanza relative dal target del Protocollo di Kyoto


(fonte: “Kyoto Progress Update: Improvements on the Horizon”,
Carbon Market Analyst, 19 giugno 2006)

(1) Lo fa alla luce della Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici che si svolgerà a settembre, ma i cui wokshop di preparazione sono già in corso.

Il Dpef 2008-2011: un aiuto alla lettura, di Silvia Giannini e Maria Cecilia Guerra 10-07-2007

Il compito principale del Dpef è individuare quale sarebbe l’andamento dei conti pubblici in assenza di ogni intervento (andamento tendenziale) ed esplicitare poi gli obiettivi programmatici e la manovra di finanza pubblica, per il quadriennio successivo.
La Legge finanziaria, che concretamente definisce la manovra, ha la funzione di modificare gli andamenti inerziali (tendenziali) delle spese e delle entrate per renderli conformi agli obiettivi stabiliti nel Dpef, con riferimento all’anno successivo.
Come assolve a questi compiti il Dpef 2008-2011?

Il quadro tendenziale: legislazione vigente e politiche invariate

È opportuno innanzi tutto ricordare che prima del 1999 il quadro tendenziale dei conti pubblici era costruito a politiche invariate: le previsioni includevano anche gli effetti di quegli impegni politici assunti che, nonostante non si fossero ancora tradotti in provvedimenti normativi, si consideravano vincolanti per l’azione futura di governo e Parlamento. Dal 1999 il tendenziale è invece costruito a legislazione vigente, tiene cioè conto unicamente degli effetti delle politiche che si sono già tradotte in leggi.
Come ricorda il Dpef 2008-2011, che affronta espressamente la questione, ciascun metodo ha vantaggi e svantaggi. Il principale inconveniente di un bilancio tendenziale a legislazione vigente è di non considerare maggiori spese o minori entrate con elevata probabilità di realizzazione (per esempio, perché derivanti da accordi già sottoscritti), rischiando così di fornire un quadro più ottimistico del reale. Nella misura in cui verranno realizzate, queste spese (o minori entrate) dovranno trovare copertura all’interno dell’obiettivo programmatico fissato dal Dpef per l’indebitamento delle amministrazioni pubbliche.

Le previsioni-obiettivo per il 2007

Il quadro tendenziale a legislazione vigente è costruito tenendo conto del Ddl di assestamento di bilancio e del decreto legge 81/2007 emanato contestualmente al Dpef. Tale decreto ha disciplinato l’utilizzo delle maggiori entrate tributarie emerse per il 2007 in sede di assestamento del bilancio dello Stato e pari a 7,4 miliardi di euro. L’extra-gettito, rispetto alle previsioni originarie, è destinato in parte alla realizzazione degli obiettivi di indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche e in misura più consistente, per un importo complessivo pari a 5,6 miliardi, al finanziamento di spese che rispondono a impegni già sottoscritti o a nuove iniziative di “sviluppo ed equità sociale“.
La previsione-obiettivo per l’indebitamento 2007 viene così fissata al 2,5 per cento, una soglia inferiore a quanto originariamente previsto nel Programma di Stabilità presentato, nel rispetto degli impegni assunti in sede comunitaria, nel dicembre 2006 (2,8 per cento) e ben inferiore alla soglia massima del 3 per cento. Tuttavia, il saldo è superiore a quanto sarebbe emerso se, seguendo anche le indicazioni della Commissione europea, tutte le maggiori entrate fossero state destinate interamente a migliorare l’indebitamento netto (e cioè la differenza fra le entrate totali e le uscite totali delle amministrazioni pubbliche nel loro complesso). In questo caso, infatti, il disavanzo sarebbe sceso, già nel 2007, al 2,1 per cento del Pil.

Il quadro programmatico per il 2008

Le scelte programmatiche sono di analogo tenore. L’indebitamento tendenziale, inclusivo degli effetti del decreto di luglio, è stimato per il 2008 pari al 2,2 per cento del Pil. Quello previsto dal piano di rientro prospettato a maggio dalla Commissione europea era dell’1,5 per cento (e avrebbe richiesto una manovra, finalizzata al risanamento, di circa 10 miliardi di euro). Il Dpef assume invece che 2,2 per cento sia un obiettivo sufficiente e non prevede nessuna ulteriore manovra finalizzata al risanamento. Il rispetto dell’impegno al pareggio di bilancio per il 2011 viene quindi affidato alle manovre degli anni successivi.
La storia però non finisce qui. Ci sono altre misure che dovranno/potranno essere prese, sia in ragione di impegni già sottoscritti, sia per scelte di politica economica del governo e che costituiranno l’oggetto della Legge finanziaria per il 2008.
Il Dpef compie a questo proposito una scelta importante. Non solo chiarisce che queste misure dovranno essere finanziate, nel rispetto del saldo programmatico, che è, come si è detto, il 2,2 per cento del Pil. Ma, soprattutto, afferma che esse dovranno trovare il loro finanziamento nella rimodulazione delle spese tendenziali, ed esclude che si possa invece ricorrere a inasprimenti fiscali. Diversamente dal passato, oltre all’impegno sul saldo obiettivo, vi è una indicazione dei principali interventi, elencati in una apposita tabella seguendo un preciso ordine di priorità, e un impegno a finanziarli con riduzioni della spesa primaria.

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La tabella con le priorità di intervento

L’elenco degli interventi previsti per la prossima Finanziaria è contenuto nella tabella III.13 a pagina 35 e riguarda tre gruppi di cosiddette “spese eventuali”.
Il primo gruppo comprende un insieme di impegni considerati ineludibili, che dovranno quindi essere finanziati per primi. Si tratta di impegni già sottoscritti con le parti interessate: l’accordo siglato per il contratto del pubblico impiego, e quello per la modernizzazione della Pa, la riforma degli ammortizzatori sociali e per le carriere discontinue, e gli impegni internazionali già sottoscritti dal nostro paese (Aids, Ida, eccetera). La quantificazione di questi impegni per il 2008 è di 4,1 miliardi ed è accurata.
Il secondo gruppo, che va sotto il nome di “prassi consolidate” riguarda un insieme eterogeneo di impegni che come i primi, sono considerati ineludibili, ma che, a differenza di questi non sono ancora precisamente quantificabili. Si tratta del rinnovo di contratti di servizio, di opere pubbliche già previste dalla Legge obiettivo, di un insieme di agevolazioni fiscali che da più di dieci anni vengono inesorabilmente riproposte dalla Legge finanziaria (per esempio, le agevolazioni per l’agricoltura), ma anche dei futuri contratti del pubblico impiego, che arrivano a scadenza. La quantificazione degli impegni è in questo caso più incerta e viene stimata, come ordine di grandezza, nel Dpef, in 7,1 miliardi, per il 2008.
Il terzo gruppo riguarda un insieme di ipotesi che sono state discusse negli ultimi mesi in sede al governo e alla sua maggioranza, primo fra tutti l’intervento sull’Ici. Ma anche alcuni provvedimenti contenuti nel decreto di luglio, il cui finanziamento va integrato se si intende riconfermarli per gli anni futuri. In questo caso, non è solo il costo degli interventi, stimato indicativamente in 10 miliardi nel 2008, a essere incerto, ma è l’elenco stesso a non essere oggettivamente determinato.

Conclusioni

Il Dpef 2008-2011 presenta alcuni elementi di novità.
In primo luogo, la costruzione dell’elenco di “spese eventuali” rappresenta un passo avanti nella trasparenza e leggibilità del Dpef. In particolare, gli impegni elencati nei primi due gruppi danno una idea della dimensione del tendenziale a “politiche invariate” invece che a “legislazione vigente”.
In secondo luogo, da questo elenco emerge come la Finanziaria 2008 non sarà a costo zero, in quanto dovrà reperire risorse per almeno 11 miliardi, solo per fare fronte a impegni già sottoscritti o a cosiddette “prassi consolidate”. Ogni nuovo intervento, destinato all’equità e allo sviluppo, comporterà una manovra lorda più elevata e dunque la necessità di trovarne di ulteriori.
Infine, ci si impegna a reperire queste risorse sul versante della riduzione della spesa primaria, dato l’obiettivo prioritario di contenere e gradualmente ridurre la pressione fiscale. E’ questo l’impegno più difficile, come è testimoniato dai fallimenti fino ad ora accumulati da tutti i governi che hanno provato a finanziare nuove spese senza aumentare le entrate o il disavanzo. I 2,2 miliardi di ridefinizione di spese contenuti nel decreto di luglio e finanziati con l’extra-gettito sono l’ultimo esempio in proposito.

Il decreto legge n. 81 del luglio 2007, di Silvia Giannini e Maria Cecilia Guerra 10-07-2007

Il decreto legge 81/2007, si articola in 18 articoli di non facile lettura. Interviene infatti su un numero molto ampio di temi, ciascuno dei quali comporta maggiori spese per importi spesso molto contenuti. Nel complesso, stando alla valutazione della Relazione tecnica, esso avrà conseguenze per l’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche pari a 5.621 milioni di euro nel 2007, e a 1.624 milioni di euro nel 2008.
L’indebitamento netto tendenziale delle amministrazioni pubbliche del 2007 passa, dopo l’emanazione del decreto in questione, dal 2,1 a 2,5 per cento del Pil e quello del 2008 dal 2,1 al 2,2 per cento del Pil.

Le principali tipologie di intervento

1) La prima tipologia di intervento, che conta per più del 40 per cento del totale, segnala le difficoltà che si sono incontrate, nel 2007, a tenere sotto controllo la dinamica della spesa pubblica, laddove si era cercato di intervenire con vincoli all’utilizzo o tagli percentuali.
La voce quantitativamente più rilevante del decreto (1.500 milioni) riguarda infatti il disaccantonamento di una quota consistente di fondi che erano stati bloccati con il comma 507 della Legge finanziaria per il 2007. Vanno nella medesima direzione i 300 milioni per l’eliminazione di vincoli alle riassegnazioni di entrate fissate da precedenti Leggi finanziarie, l’eliminazione (150 milioni) della riduzione del 20 per cento delle spese per consumi intermedi disposta dal decreto Bersani del luglio 2006, le integrazioni rispettivamente per 160 e 130 milioni dei fondi di cui alle tabelle A e C della Finanziaria.

2) Gli interventi che rispondono invece a scelte di politica economica, in questo caso “per l’equità”, compiute dal governo sono quelli in materia pensionistica, a cui sono destinati 900 milioni. Questi milioni serviranno, già a partire dall’anno in corso, a incrementare i trattamenti delle pensioni basse. L’individuazione effettiva dei beneficiari e in particolare del limite al disotto del quale gli importi pensionistici, al netto dei trattamenti di famiglia, devono essere considerati “bassi”, è affidata a un decreto interministeriale che dovrebbe essere emanato in tempi rapidi, sentite le parti sociali. Attraverso la creazione di un apposito Fondo, si vincolano, inoltre, risorse per il 2008 (1,5 miliardi) con tre diverse funzioni: garantire la continuità nel finanziamento del sostegno alle pensioni basse; ridefinire, in termini migliorativi, la disciplina della perequazione dei trattamenti di importo fino a cinque volte il trattamento minimo mensile vigente nell’assicurazione generale obbligatoria; finanziare misure volte a facilitare il riscatto degli anni di laurea a fini pensionistici e a ampliare le possibilità di totalizzazione dei diversi periodi contributivi maturati nei vari regimi pensionistici. Queste ultime misure dovrebbero interessare in particolare i giovani, interessati dal nuovo regime contributivo e più coinvolti in rapporti di lavoro atipico.

3) Vi sono poi contributi stanziati a vario titolo, a favore di imprese pubbliche: un contributo di 700 milioni per la realizzazione di investimenti relativi alla rete tradizionale dell’infrastruttura ferroviaria nazionale; un contributo di 500 milioni all’Anas a titolo di apporto al capitale sociale, che ha la finalità di ripianare la perdita di esercizio relativa all’anno 2006; l’incremento di 250 milioni del Fondo per i trasferimenti correnti alle imprese pubbliche.

4) 250 milioni si sono resi necessari per finanziare il previsto contributo italiano al Fondo globale per la lotta contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria.

5) 250 milioni sono stati destinati a consentire agli enti locali soggetti al patto di stabilità interno di non computare nel saldo finanziario, per il solo anno 2007, una quota parte delle spese di investimento finanziate attraverso l’utilizzo di una quota dell’avanzo di amministrazione (intervento che è stato considerato dall’Anci assolutamente inadeguato)

6) Segue una miscellanea di interventi nei settori più diversi, spesso di importo relativamente contenuto che, nel complesso, assorbono risorse per circa 500 milioni. Il più corposo è rappresentato dai 180 milioni di euro per le supplenze brevi del personale docente, amministrativo, tecnico e ausiliario della scuola. Si possono poi ricordare, a titolo esemplificativo, il rifinanziamento delle missioni internazionali, per circa 27 milioni, il rifinanziamento del bonus bebè, per 40 milioni e gli 80 milioni per l’emergenza rifiuti in Campania.

Decreto legge 81/2007

Disposizioni

Effetti sull’indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche

2007

%

2008

1) Interventi di ridefinizione di spese

2.259

40,2

Disaccantonamenti art.1 C.507 LF 2007

1.519

80

Eliminazione vincolo alle rassegnazioni

300

Eliminazione riduzione 20% spese consumi intermedi decreto Bersani)

150

20

Reintegro fondi Tab. A

160

30

Reintegro fondi Tab. C

130

2) Interventi in materia pensionistica

900

16,0

1.500

3) Interventi a favore di imprese pubbliche

1.450

25,8

RFI – Rete tradizionale

700

ANAS – Investimenti

500

Contratti di servizio imprese pubbliche

250

4) Cooperazione allo sviluppo – Fondo AIDS

260

4,6

5) Attenuazione del patto di stabilità interno per comuni medio-piccoli in avanzo

250

4,4

-6

6) Altri interventi

502

8,9

TOTALE

5.621

100

1.624

L’equità sociale nel Dpef, di Marco di Marco 25-08-2007

Sul tema dell’equità sociale il DPEF contiene una chiara ridefinizione concettuale del problema, partendo da una importante premessa:
“Lo stato sociale italiano […] è rimasto indietro su temi come disoccupazione, povertà ed emarginazione” (p. 41).
L’arretratezza denunciata dal DPEF riguarda aspetti essenziali del Welfare e anche le conseguenze redistributive del ritardo sono indicate con precisione:
“Sulla capacità redistributiva del nostro sistema di protezione sociale pesa l’assenza di una misura nazionale di contrasto della povertà” (p. 115).
Questa consapevolezza riflette le preoccupazioni della maggior parte degli studiosi (alcune delle quali avanzate su lavoce.info) e le statistiche disponibili sulla distribuzione dei redditi e sulle condizioni di vita. Il paradosso del Welfare italiano consiste appunto nella sua efficacia redistributiva insufficiente: l’Italia è notoriamente un paese ad alto grado di disuguaglianza, soprattutto se si considera che la pressione fiscale supera il 40 per cento del PIL.
Segnalando la scarsa capacità redistributiva del Welfare, il DPEF ne mette in luce la poca efficacia e, nel contempo, solleva implicitamente seri dubbi circa l’equità stessa del sistema. Più in particolare, il documento riconosce la scarsa equità fra generazioni affermando che i giovani sono svantaggiati perchè:
“devono destinare al sostegno degli attuali pensionati una quota troppo alta del proprio reddito” (p. 41)

Il DPEF stabilisce linee-guida per la programmazione a breve e medio termine e non programmi operativi. In materia di Welfare, viene prospettato un ‘programma di legislatura’ di medio termine con i seguenti obiettivi:

– rimozione degli ostacoli (precarietà del lavoro, difficoltà di trovare una casa) che frenano l’autonomia dei giovani e la formazione di una famiglia;
– sostegno delle famiglie con figli e maggiore presenza delle donne sul mercato del lavoro;
– adeguamento della rete dei servizi all’infanzia e alla famiglia, anche a favore degli anziani non-autosufficienti;
– sostegno dei redditi dei nuclei meno abbienti;
– agevolazione all’accesso dei servizi per le famiglie più numerose anche attraverso la revisione dell’ISEE
– conciliazione delle responsabilità familiari con il lavoro, tramite nuovi asili nido;
– riduzione dell’onere fiscale sulla prima casa;
– integrazione degli immigrati

Per iniziare a muoversi in questa direzione, si prevede l’adozione di misure specifiche di:
“sostegno al reddito e di lotta alla povertà, consistenti in particolare nell’incremento e nella diffusione universalistica degli assegni per l’infanzia, in interventi fiscali capaci di favorire anche gli ‘incapienti’, nella ripresa del progetto del Reddito Minimo di Inserimento” (p. 77)
In questo quadro, si ritiene utile sperimentare forme di imposta negativa sui redditi. Per quanto riguarda gli aspetti tecnici, occorre segnalare il rischio di un inserimento dell’imposta negativa “nell’ambito di un sistema di tassazione su base individuale” (come si dice nel DPEF a pagina 79). Il riferimento al reddito imponibile individuale potrebbe impedire un disegno razionale dello strumento e provocare effetti redistributivi indesiderati. Il reddito di riferimento di un’imposta negativa dovrebbe essere preferibilmente quello familiare, almeno nei casi in cui la si utilizza come strumento di contrasto della povertà. L’esempio concreto, contenuto nel DPEF 2008-2011, consiste nell’unificazione delle attuali detrazioni IRPEF per i figli a carico e degli altri benefici per la famiglia in un solo assegno universale per i figli, da erogarsi anche agli ‘incapienti’ sotto forma di imposta negativa. E’ piuttosto difficile immaginare un disegno razionale di questo nuovo strumento nel contesto di una tassazione su base individuale.

(*) L’articolo riflette opinioni personali e non coinvolge la responsabilità dell’Istat.

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