L’Italia recepisce la direttiva sulle offerte pubbliche. Arriviamo con un anno di ritardo rispetto al termine posto da Bruxelles e dopo che tutti gli altri paesi europei hanno già provveduto a cambiare i loro ordinamenti. Ma anche dopo un dibattito vivace in cui si sono confrontate proposte di riforma e difesa delle norme del Testo unico della finanza che (una volta tanto) sono fra le più liberali d’Europa. Ecco gli interventi su lavoce.info di Filippo Cavazzuti, Salvatore Bragantini, Marco Onado, Alfredo Macchiati, Renzo Costi.

E sull’Opa Zapatero dà il buon esempio, di Filippo Cavazzuti 10-9-2007

Entro il 14 settembre prossimo, dopo alcuni rinvii e terminate le consultazioni, il ministro dell’Economa Tommaso Padoa Schioppa dovrà portare all’esame del Consiglio dei ministri il testo del decreto legislativo per il recepimento della direttiva 2004/25/Ce concernente le offerte pubbliche di acquisto.
In Spagna, invece, il 28 di luglio 2007, il re Juan Carlos ha già firmato la legge di recepimento nell’ordinamento spagnolo di analoga normativa in materia di Opa. Vale la pena considerarla, per trarre alcuni spunti per il caso italiano, non viziati da un’ottica che si concentri solo ed esclusivamente, su quanto avviene nei mercati anglosassoni.

Certezze dei mercati ed esercizio del controllo

Quando, prima dell’estate, questo sito ospitò alcuni interventi a favore o contro (come quello del sottoscritto) il mantenimento della soglia del 30 per cento quale limite oltre il quale far scattare l’Opa obbligatoria, dagli oppositori a tale abbandono venne opposto che il mercato degli assetti proprietari avrebbe perso una condizione di assoluta certezza. Si sostenne infatti che affidare alla Consob il compito di verificare quando fosse mutato il controllo societario (anche sotto la soglia del 30 per cento) per far scattare l’Opa obbligatoria, avrebbe sottoposto il mercato a una condizione di incertezza, anche per i temuti ricorsi ai tribunali amministrativi che seguirebbero tale discrezionalità della Consob. Molti preferiscono dunque che il mutare del controllo societario sotto la soglia del 30 per cento possa avvenire anche a scapito degli azionisti di minoranza.
Non così ha deciso il legislatore spagnolo. Questi, infatti, preoccupato della tutela degli azionisti di minoranza, ha ritenuto che la variazione del controllo che impone l’obbligo di Opa scatti sempre quando venga superata la soglia del 30 per cento, ma anche quando, un soggetto acquisti una percentuale inferiore a tale soglia, se nei due anni successivi all’acquisto il nuovo controllore nomina più della metà degli amministratori, tenendo conto anche degli eventuali amministratori già nominati precedentemente all’acquisto. (1)
È un esempio efficace che la fantasia del legislatore spagnolo ci offre, per contemperare le esigenze di certezza del mercato con quelle della tutela degli azionisti di minoranza, in quanto, in caso di acquisto di partecipazioni inferiori al 30 per cento, consentirebbe di legare la determinazione del controllo di fatto all’elemento più forte di esercizio del controllo, che è la nomina della maggioranza degli amministratori. Se si volesse essere “più realisti” del re di Spagna, si potrebbe ulteriormente limitare l’applicazione del criterio sostanziale alle partecipazioni comprese tra il 15 ed il 30 per cento per evitare situazioni limite
Il legislatore italiano vuole dunque essere meno fantasioso di quello spagnolo nell’individuare condizioni oggettive per la tutela degli azionisti di minoranza nel caso di variazioni del controllo sotto la soglia del 30 per cento? Si eviterebbe in tal modo ciò che molti paventano: la discrezionalità della Consob, supposta fonte di incertezza per i mercati.

La clausola di reciprocità

Ma a proposito di discrezionalità, e della sua supposta capacità di produrre incertezza per i mercati, ciò che invece mi sembra sì da evitare con ogni forza, è quanto prevede l’articolo 104 ter dello schema del provvedimento all’esame in Italia. Si tratta della nota clausola di reciprocità (invocata da molti sotto la bandiera della italianità per contenere la contendibilità delle imprese del nostro paese) per cui l’obbligo di Opa previsto dalle disposizioni di legge non si applica in caso di “offerta promossa da chi non sia soggetto a tali disposizioni, ovvero a disposizioni equivalenti, anche per quanto riguarda le regole per l’approvazione della delibera assembleare, ovvero da una società o ente controllata da quest’ultimo (…). La Consob determina (…) se le disposizioni applicabili all’offerente siano equivalenti a quelle cui è soggetta la società emittente”.
Come si legge nelle osservazioni che accompagnano il testo in consultazione “sul piano operativo la clausola di reciprocità presenta notevoli incertezze. A tal fine si propone nel testo di affidare alla Consob la valutazione della equivalenza fra gli statuti della società emittente e offerente (…).
In cosa consista la dimostrazione della equivalenza tra le disposizioni (letterale, sostanziale, totale, parzialmente prevalente e così via?) non pare immediatamente fonte di certezza per i mercati finanziari: anche per effetto della libertà statutaria che la legge riconosce alle società. Libertà non solo possibile fonte di pillole avvelenate, ma anche alla base di contenziosi senza fine, soprattutto se si tiene a mente che le norme che non si applicherebbero sono per l’appunto quelle che vietano agli amministratori di attuare misure difensive senza l’autorizzazione assembleare ottenuta in pendenza di offerta.
Anche la legge spagnola recepisce la clausola di reciprocità. (2) Ma, in base a una prima lettura delle norme stesse, non pare affidare alla Consob spagnola l’ingrato compito della dimostrazione dell’equivalenza tra le diverse disposizioni che, invece, il legislatore domestico intenderebbe affidare alla Consob italiana.
Infine, una ulteriore utile indicazione che viene dalla legge spagnola riguarda l’applicazione delle cosiddette regole di neutralizzazione che la direttiva europea ha lasciato alla discrezionalità dei singoli Stati nazionali. La disciplina spagnola (3) ha reso opzionale l’adozione di tali regole che prevedono l’inefficacia di alcune difese preventive – ad esempio poteri di voto differenziati (azioni privilegiate), limiti ai diritti di voto (società privatizzate) o al trasferimento di azioni (patti di blocco) – per le assemblee che si tengono nel corso dell’offerta e in quella successiva all’Opa. L’Italia, invece, impone le regole di neutralizzazione per legge. Tale scelta, che incide fortemente sull’autonomia statutaria delle imprese italiane contraddice l’evoluzione normativa a favore della libertà statutaria e sembra a prima vista presentare più costi che benefici. Il maggiore rischio è che ai patti parasociali che diventerebbero strumenti spuntati di fronte a un tentativo di scalata, si sostituirebbe un ritorno al fenomeno delle piramidi societarie, che resterebbero efficaci, di cui il sistema si stava faticosamente liberando.
Lascio agli esegeti del diritto spagnolo la verifica di ciò, ma se fosse vero, evviva Zapatero!


(1)
Articolo 4, Partecipazione di controllo, comma 1.
(2) Capitolo VI, Norme di difesa, articolo 28, comma 5.
(3) Articolo 29, Regime opzionale.

L’Opa e la direttiva da buttare, di Salvatore Bragantini 17-7-2007

Il mercato unico degli strumenti finanziari in Europa è in grave pericolo e solo un’iniziativa politica di alto livello lo può salvare. Questo è quanto risulta da un interessante rapporto della Commissione Unione Europea sullo stato di attuazione della direttiva europea sull’Opa. (1)
La direttiva, approvata sotto la presidenza italiana nel 2004, tanto per chiudere in qualche modo una storia infinita, costituisce un pericolo ben più grave, per la concorrenza “libera e non distorta” sul mercato azionario, del “colpo” battuto da Nicolas Sarkozy levando il famoso riferimento dalla bozza dei trattati europei. Non è allora un caso se il rapporto della Commissione si chiude domandandosi, retoricamente, se non sia il caso di anticipare la data della “manutenzione” della direttiva, rispetto al 2011, cioè a sette anni dall’approvazione, come di norma si fa nella Unione Europea. Giusto, solo che questa manutenzione deve essere, come vedremo, straordinaria. Sarebbe bene, inoltre, che l’iniziativa venisse dal nostro paese, che porta la responsabilità politica dell’accordo-beffa del 2004.

La direttiva che non dirige nulla

La direttiva, infatti, non dirige un bel nulla su alcuni temi-chiave: in particolare sull’applicazione della regola di passività durante l’Opa (passivity rule) e sulla caduta, a certe condizioni, delle difese preventive anti-Opa (breakthrough rule). Per la precisione, la direttiva-burla dichiara baldanzosa all’articolo 9 che il management non può compiere atti contrari agli scopi dell’offerta senza l’assenso preventivo degli azionisti; all’articolo 11, poi, dichiara la decadenza di alcune difese anti-Opa, in particolare la caduta di ogni tetto ai voti quando un socio abbia raggiunto il 75 per cento dei diritti di voto. Basta arrivare all’articolo 12, però, per scoprire che gli Stati membri possono sfuggire a questi obblighi. Inoltre, cosa ancor più grave, anche chi abbia deciso di assoggettare le “proprie” imprese a tali obblighi può esentarle se, con una scelta di natura generale, consente loro di invocare la reciprocità (reciprocity rule). In sostanza, alle prime due regole potrebbe sfuggire chi potesse sostenere che esse non devono vincolare l’impresa sotto Opa perché ad esse non è soggetta, invece, l’impresa che formula l’Opa.
Ora l’Italia deve recepire, con i consueti ritardi (ma stavolta i ritardatari sono tanti), la direttiva; è venuto il tempo delle scelte. Vogliamo anche noi la passivity rule e la breakthrough rule? E se le vogliamo, daremo alle nostre imprese la possibilità di sfuggire a esse e invocare la reciprocity rule se appena ne avranno la possibilità? Il ministro Padoa-Schioppa ha detto che il governo vuol lasciare immutata la nostra ottima legge su due punti importanti, e cioè sulla regola di passività e sullo scioglimento dei patti sotto Opa. Gli altri Stati sembra convergano accettabilmente sulla prima scelta, mentre la caduta delle difese anti-Opa sarebbe avversata, secondo il rapporto della Commissione , dalla quasi totalità. (2)
La scelta italiana è contestata da alcuni come astratta e ideologica; in realtà si basa sul presupposto che un efficace mercato dei capitali e la contendibilità nel controllo delle grandi imprese giovino al paese. Certo, è importante che la testa delle poche nostre residue grandi imprese resti qui, ma l’obiettivo va perseguito aumentando l’efficienza e quindi la capitalizzazione delle imprese, non con sbarramenti destinati a cadere come altrettante linee Maginot al primo serio urto. L’abolizione della regola di passività e la blindatura dei patti anche sotto Opa ci regalerebbero un mondo di manager inefficienti, protetti dagli eventi a spese degli azionisti e della collettività. Ma c’è anche la scelta da fare sulla reciprocity rule, e qui le cose si complicano. Dovremmo o no consentire alle nostre imprese che saranno soggette alla passivity rule e alla breakthrough rule, di invocare la reciprocity rule, sottraendosi a esse se l’offerente, a sua volta, non le applica?
Tommaso Padoa-Schioppa ha annunciato che l’Italia intende cogliere questa possibilità, e osservando le cose dal livello degli Stati membri non gli si può dare torto, tenuto conto che la maggioranza fa la stessa scelta. Così hanno fatto, sempre secondo il rapporto, Stati che rappresentano il 62 per cento della capitalizzazione combinata delle borse dell’Unione Europea. Solo Austria, Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia, Irlanda, Malta, Lettonia, Lituania, Regno Unito, Slovacchia e Svezia hanno escluso di avvalersi della clausola di reciprocità.
Quali sarebbero, però, le conseguenze al livello dell’Unione Europea? Le liti derivanti dalla ricca casistica prevedibile non finirebbero mai, e nemmeno si sa chi dovrebbe dirimerle. Abbiamo ventisette Stati membri, ognuno con le proprie leggi e le proprie autorità di regolazione. Si pensi alle mille possibili combinazioni, e conseguenti complicazioni, derivanti dai regimi giuridici degli offerenti, delle società sotto Opa, delle autorità di regolazione e delle società di gestione dei mercati.
Un’impresa che compete sul mercato è un organismo vivo, che non può restare per lunghi anni nell’incertezza: l’Europa vuole davvero divenire il paradiso degli avvocati e l’inferno degli investitori? Consentire a tutti di invocare la reciprocità decreterebbe la condanna a morte di uno dei pochi obiettivi ancora perseguibili nell’Unione Europea, il mercato finanziario unico: lo testimonia la vicenda della holding energetica spagnola Endesa, durata oltre un anno e finita solo per una pax energetica siglata dagli eserciti contrapposti, e accettata da tutti, per sfinimento.

Serve un’iniziativa politica

Bisogna tornare al tavolo da disegno e, come suggerisce la Commissione, rivedere subito la direttiva, senza attendere il 2011. Solo così si uscirà dall’impasse, portando la cosa dal livello degli Stati, dove ognuno non può che invocare la reciprocità, a quello dell’Unione, ove dovrebbe essere chiaro che essa non funziona. Per questo vanno distinti i due piani: il governo invochi pure, nell’attuale fase di recepimento, la reciprocità, ma al contempo promuova, insieme ad almeno un altro grande Stato (forse il Regno Unito, forse la Germania), l’iniziativa politica di un’immediata revisione della direttiva. Questa deve basarsi su un compromesso realistico e ragionevole, i cui termini emergono evidenti dalla lettura del rapporto delle Commissione.
Si levino gli “obblighi opzionali“, un ossimoro che non fa bene al mercato, lasciando in vigore quelli generalmente condivisi e buttando a mare, ahimé, quelli che a evidenza nessuno vuole. Per questa ragione si porti a casa il buono, consistente nel generale favore per la regola di passività, rendendola davvero obbligatoria, senza se e senza ma. Al tempo stesso si deve purtroppo accettare il cattivo, abbandonando la pretesa di imporre a tutti una breakthrough rule che nessuno vuole. Particolarmente accanita è la contrarietà scandinava allo smantellamento delle difese una volta che l’offerente abbia sfondato il muro del 75 per cento. Ciò non impedirà all’Italia – se, come è auspicabile, lo vorrà ancora – di mantenere in vigore la sua norma, che fa decadere sotto Opa i patti di sindacato; l’occasione sarà anzi opportuna per chiarire che i patti cadono, ovviamente, anche (soprattutto) davanti a Opa preventive volontarie, e non solo a Opa obbligatorie successive, come alcuni qualificati esperti invece sostengono. Se altri vogliono continuare a proteggere il management dagli azionisti, facciano pure, non è necessario accodarsi ai lemming che si buttano dalle scogliere dei mari del nord.
Si chiuda invece, e subito, la grande e pericolosa falla della clausola di reciprocità. Se non lo si facesse, e in fretta, sarebbe come decretare la morte ufficiale del mercato unico europeo, cioè di quasi tutto quanto resta delle speranze di unità europea di una generazione che, avendo vissuto sotto i bombardamenti e fra le macerie di una guerra insensata, è ormai al capolinea. Per chi si sia nutrito di quelle speranze, restare inerti sarebbe una colpa grave, imperdonabile.

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(1)
Commission Staff Working Document “Report on the implementation of the directive on takeover bids”. Sec (2007) 268;
(2) Il rapporto fotografa la situazione a febbraio 2007; contiene quindi alcuni elementi superati da fatti successivi. La posizione italiana là illustrata su passivity rule e breakthrough rule è infatti diversa da quella esposta dal ministro Padoa-Schioppa e riferita in questo articolo.

L’Opa e i sette vizi capitali, di Filippo Cavazzuti 19-6-2007

Il dibattito sulla revisione o l’abbandono della soglia fissa del 30 per cento oltre la quale far scattare l’Opa obbligatoria ha principalmente sottolineato l’opportunità o il rischio di assegnare alla Consob un potere discrezionale: ovvero poteri istruttori e decisori tesi alla dimostrazione del cambio del controllo societario. (1)
Al riguardo si eccepisce che ciò toglierebbe certezza ai mercati finanziari. Lo stesso dibattito ha trascurato, invece, la mia proposta di assegnare tale potere a una nuova autorità esterna alla Consob (del tipo del Take over panel inglese) o costituita per gemmazione della Consob stessa – del tipo della UK listing authoryty gemmata dalla Fsa. (2) Ma su ciò si tornerà eventualmente un’altra volta.

I poteri di oggi

Sulle preoccupazioni sollevate riguardo alla prima proposta osservo che il Testo unico della finanza oggi in vigore è assai generoso nei confronti dei poteri istruttori della Consob, con annessi rischi di impugnativa in sede civile e amministrativa: valgano per tutti i poteri istruttori per le ipotesi di abusi di mercato, quelli per la definizione del prezzo dell’Opa residuale, quelli tesi a dimostrare l’esistenza di un “fondato sospetto” di violazione di norme sufficiente per sospendere una offerta pubblica, quelli tesi a dare contenuto certo all’espressione “influenza dominante” per accertare il sussistere del controllo societario e così via. Osservo, inoltre, che ogni espressione formale della Consob è ormai considerata “atto amministrativo” e pertanto impugnabile innanzi al Tar.

L’elusione della normativa

Ma come ben sanno gli studiosi dei sistemi tributari oltre che dalla più volgare evasione dal pagamento del tributo, la tenuta dei sistemi stessi è gravemente minata dai più raffinati comportamenti tesi alla elusione della normativa.
Ci si può allora domandare se, nei mercati finanziari, può l’effetto soglia determinare astuti comportamenti tesi a eludere l’obbligo di Opa e dunque sottrarre ai mercati finanziari quella sperata e invocata certezza ?
Di tali comportamenti elusivi dell’obbligo dell’Opa se ne possono enumerare almeno sette: veri e propri vizi capitali degli operatori sui mercati finanziari, di norma, varianti di patti parasociali, che oggi impongono alla Consob complesse, forzatamente lunghe, ma meritorie quanto impugnabili, attività istruttorie (discrezionali?) tese alla ricerca di fatti univoci e concludenti per la dimostrazione del cambio del controllo societario. Ad esempio.

a) patti parasociali scritti, ma non comunicati alla Consob e ai mercati finanziari;
b) patti di sindacato non scritti e, ovviamente, non comunicati al mercato
c) patti di sindacato “stellari” che occultano le relazioni tra “le stelle”;
d) occultamento negli “Stati canaglia” di rilevanti pacchetti azionari non comunicati alla Consob;
e) operazioni di fusione con motivazioni di vantate sinergie industriali, ma attuate per finalità esclusivamente finanziarie ed elusive dell’obbligo di Opa;
f) contratti che rinviano a un tempo futuro la vendita o il riacquisto delle azioni;
g) modifica della composizione di patti di sindacato esistenti.

Alla base di questi comportamenti elusivi sta la più che condivisibile decisione del legislatore di impostare il Tuf per principi (maglie larghe) e non al pari di un regolamento di polizia (maglie strette) come ogni tanto si chiede, per poi lamentare la complessità delle norme. Ma come insegna il diritto tributario la tipizzazione dei casi e dei comportamenti (di necessità in numero definito) costituisce incentivo a ricercare il caso non tipizzato nella norma.
Dalla scelta fatta ai tempi del Tuf, consegue pertanto il non eliminabile ed encomiabile potere discrezionale esercitato dalla Consob teso a verificare i comportamenti elusivi con il rispetto formale e sostanziale della norma, nella perenne ricerca dei quali è impegnata la incessante fantasia degli operatori e che rende tutto ciò una vera e propria “never ending story”.
Nulla di nuovo sotto il sole, dunque, nell’ipotesi che si diano poteri istruttori alla Consob (o a chi per essa) per verificare l’avvenuto cambio del controllo societario. Forse verrebbero meno i comportamenti elusivi degli operatori a vantaggio della tutela degli azionisti di minoranza e del meno scorretto e sconfortante funzionamento dei mercati finanziari, supposto certo.

(1) Su lavoce.info oltre a chi scrive ne hanno discusso Renzo Costi, Salvatore Bragantini, Marco Onado e Alfredo Macchiati , ma si veda anche un recente disegno di legge d’iniziativa del senatore Zanda e altri.
(2) The Fsa, acting as the competent authority for listing, is referred to as the UK Listing Authority (UKLA), and maintains the Official List. (La Fsa, quando agisce come autorità competente per la borsa, è indicata come UK Listing Authority (Ukla) e conserva il listino ufficiale).

Se il mercato di controllo proprietario assomiglia a Chinatown, di Alfredo Macchiati e Marco Onado 7-6-2007

Dopo le note vicende Telecom, che hanno messo a nudo ancora una volta le debolezze del sistema di controllo delle imprese italiane, si sono levate forti critiche all’attuale legislazione in materia di Opa e sono state avanzate numerose proposte. Le prime ci sembrano non del tutto meritate, mentre le seconde possono creare più problemi di quanti ne possano risolvere. Ci riferiamo in particolare alla proposta di consentire all’organo di vigilanza di imporre discrezionalmente l’Opa obbligatoria ogni volta che si accerti il passaggio del controllo.

La questione dell’effetto soglia

In primo luogo, l’evidenza portata a favore della tesi dell’effetto soglia, cioè di una elusione diffusa degli obblighi di Opa successiva in virtù della possibilità di controllare una società pur restando sotto la soglia del 30 per cento, non ci pare decisiva. L’aumento, pure rilevante fra il 1997 e il 2006 del peso delle società con una quota di controllo compresa fra il 25 e il 35 per cento (come rilevato da Filippo Cavazzuti) non è decisiva. Anche perché considera un estremo (il 35 per cento) che è oltre il valore della soglia e quindi riguarda una situazione di controllo che non è frutto di acquisizioni.
Anche l’evidenza empirica (largamente assente dal dibattito in corso) sembra escludere un “effetto soglia” particolarmente rilevante. Come mostra il grafico che segue, le offerte successive dal 1992 a oggi hanno seguito un andamento abbastanza irregolare, soprattutto nel numero, ma l’andamento non pare significativamente diverso dopo il 1998 e comunque la nuova legge non ha impedito che gli azionisti di minoranza ricevessero complessivamente 12,5 miliardi di euro contro 2,7 del periodo precedente.





Peraltro, va riconosciuto che anche questi dati non sono sufficienti né a escludere un effetto soglia, né, all’opposto, a dimostrare una maggiore fluidità dei trasferimenti proprietari resa possibile dalla soglia fissa.

Certezze al mercato

Se non sono certi gli svantaggi dell’attuale disciplina, sono certissimi, perché già sperimentati, quelli di un regime in cui è lasciato alla Consob di fissare di volta in volta la soglia del controllo.
La precedente normativa, varata nel 1992, affidava infatti alla Consob il potere di determinare per ciascuna società quotata la quota di controllo. Un compito non solo defatigante, ma che doveva forzatamente basarsi su elementi formali e non oppugnabili, fondamentalmente facendo riferimento alle modalità con cui si svolgevano le assemblee e al processo di nomina dei consiglieri. Bastava che un soggetto controllante attento gestisse con prudenza questi momenti della vita societaria per mettersi al sicuro. E quando la Consob cercava interpretazioni meno formali, esponeva sé stessa (e il mercato) al rischio di un contenzioso incerto e lungo. La definizione del limite del controllo rischiava così di essere sballottata fra l’autorità e i tribunali amministrativi e civili.
Il Testo unico del 1998 (e la direttiva europea) hanno quindi optato per una soglia fissa proprio per dare certezza al mercato: agli investitori, a coloro che intendono mantenersi al di sotto del limite (rischiando di essere sostituiti nel controllo pro tempore), agli stessi potenziali scalatori, che devono sapere ex ante oltre quale limite sono costretti a procedere a un’offerta totalitaria.
Il problema è quindi al massimo qual è il livello ottimale della soglia e se è opportuno introdurre soglie differenziate in funzione della capitalizzazione delle imprese. Per quanto riguarda il primo punto, un abbassamento rispetto al 30 per cento appare opportuno in mercati in cui la proprietà è diffusa, assai meno in un mercato in cui il controllo di diritto riguarda 124 società quotate al MTA su 220, corrispondenti al 22 per cento della capitalizzazione. Per le imprese quotate al Mtax (ex Nuovo Mercato) si tratta di 10 imprese su 36 ed è il 18 per cento della capitalizzazione.
Per quanto riguarda la seconda domanda, si potrebbe ricorrere a soglie variabili in funzione della capitalizzazione dell’impresa: non è un mistero che le probabilità di una scalata diminuiscono all’aumentare della dimensione della preda e quindi il controllo di una società con un’elevata capitalizzazione a parità di peso del pacchetto azionario detenuto, ha più probabilità di resistere che non nel caso di un’impresa con bassa capitalizzazione.

Perché è un mercato ingessato

Ma se il problema deriva dal fatto che si può controllare una società con meno del 20 per cento, la soluzione non sta nell’abbassamento della soglia. Piuttosto, come ha suggerito Salvatore Bragantini, si potrebbe pensare a consentire l’Opa preventiva per percentuali inferiori all’attuale. Si badi però che in questo modo si aumenta l’efficienza in termini di maggior contendibilità delle imprese, ma si diminuisce l’equità perché una parte maggiore degli azionisti rischia di essere esclusa dall’offerta.
Neppure appare una soluzione praticabile quella di desumere dal prezzo di trasferimento delle azioni ( in particolare dallo scarto rispetto al prezzo di mercato) il riconoscimento di un premio di controllo da distribuire tramite Opa agli altri azionisti.
Infatti, se si verifica un passaggio di un pacchetto a un prezzo diverso da quello di borsa, è certo possibile che stiano passando non solo diritti patrimoniali, ma anche diritti di controllo, con i conseguenti, eventuali, benefici privati. Ma è anche possibile che chi acquista stia cercando soltanto di proteggersi dal rischio di oscillazione dei prezzi di mercato nonché di minimizzare i costi di transazione. Anche in questo caso, dunque, l’abbandono della regola del superamento di una soglia di diritti di voto per stabilire il passaggio del controllo porta fatalmente nel terreno scivoloso delle valutazioni discrezionali e del rischio regolatorio.
Si badi che il problema rimane sempre quello di capire i motivi per cui soglie relativamente basse garantiscono comunque il controllo di un’impresa. In linea di principio infatti, una società in cui l’azionista di riferimento controlla meno del 30 per cento (o addirittura meno del 20) è contendibile. Se guardiamo più direttamente al caso Telecom (da cui sono nate le proposte ricordate) è evidente che chi voleva succedere nel controllo non aveva che da accordarsi per subentrare in Olimpia. Ma, attenzione: quel controllo dovrebbe essere fragile, perché chiunque avrebbe potuto (e potrebbe) acquistare il 29,9 per cento oppure lanciare un’Opa preventiva. Perché nessuno ci ha provato? Certo, perché bisogna mettere sul piatto una cifra cospicua (35 miliardi circa per l’Opa) e perché la società non può reggere un terzo leveraged buy-out. Ma anche perché nessun industriale o finanziere di buon senso ha voglia di imbarcarsi in un’operazione in cui i rischi superano i benefici attesi. Se è italiano, rischia di far scattare la rete di alleanze e relazioni personali costruita intorno al controllo; se è straniero, sappiamo tutti quali reazioni si scatenano.
Vogliamo dire che è il clima economico e politico generale, più che i dettagli tecnici della legge sull’Opa, a ingessare il mercato del controllo proprietario italiano, tanto da limitare fortemente le velleità di entranti potenziali. Se non riusciamo a cambiare rapidamente l’uno e l’altro, rischiamo che ogni possibile scalatore si senta dire, come Jack Nicholson nel film di Roman Polanski, “lascia perdere, è Chinatown”.

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Effetto soglia sull’Opa, di Filippo Cavazzuti 14-5-2007

Nell’articolo del 2 maggio 2007 Renzo Costi ha scritto che “in realtà, sembra non solo necessaria una riscrittura di molte norme, ma anche qualche modificazione delle scelte a suo tempo effettuate: così è forse opportuno abbandonare la soglia del 30 per cento come presupposto per l’Opa totalitaria, prevedendo il relativo obbligo ogni qualvolta muti il controllo. Il governo dovrebbe assumere un’iniziativa di coordinamento delle norme esistenti e di un loro “aggiornamento” per evitare che i vizi dell’ordinamento incidano sull’efficienza della industria finanziaria italiana”.

Due esigenze contrapposte

La scelta di allora (il Tuf è del 1998) rappresentò la soluzione empirica che meglio realizzava l’equilibrio tra due esigenze contrapposte: la tutela degli azionisti di minoranza senza troppo scoraggiare la contendibilità delle imprese. In questo contesto, fu anche apprezzata la certezza della disposizione data dall’indicazione quantitativa della soglia del 30 per cento. Si potrebbe eccepire che l’abbandono della soglia del 30 per cento introdurrebbe un elemento di incertezza nel mercato degli assetti proprietari, che però oggi si accompagna alla certezza di potere mutare (al riparo della soglia del 30 percento) il controllo della società senza il coinvolgimento degli azionisti di minoranza.
Possiamo allora verificare se vi è stato un qualche effetto soglia sulla propensione delle imprese a concentrarsi nell’intorno del 30 per cento al fine di mettersi al riparo della minaccia della contendibilità nella libertà di poter mutare il controllo della società.
Ho provato a confrontare la situazione del 2006 con quella del 1997, l’anno precedente l’introduzione della soglia del 30 per cento.
Dal listino delle società quotate a Milano si evince che nel 1997 c’erano 11 società per le quali la quota di controllo (solitaria o di un patto di sindacato) era compresa tra il 25 e il 35 per cento. Rappresentavano circa il 5 per cento del numero totale delle società quotate, per circa il 10 per cento della capitalizzazione totale.
Nel 2006 le società per le quali la quota di controllo (solitaria o di un patto di sindacato) era compresa tra il 25 e il 35 per cento sono diventate 34, per circa il 12 per cento del numero totale delle società quotate e circa il 34 per cento della capitalizzazione.
Pare dunque che l’effetto soglia sia stato anche quello di spingere gli azionisti verso la zona di sicurezza che li rende liberi di mutare il controllo senza per questo rendere le società più contendibili. È anche questo un vizio dell’industria finanziaria italiana?

Parametri per la valutazione

Certo è che individuare con ragionevole certezza il controllo di fatto di una società e il suo mutare nel tempo al fine di fare scattare l’Opa obbligatoria è impresa non semplice soprattutto per la molteplicità di nozioni di controllo che la fervida fantasia del legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento (una babele, per dirla con Renzo Costi).
La costituzione di un apposito panel, trasversale alle autorità di vigilanza oggi esistenti del tipo The Panel on Takeovers (1), formato da esperti nelle diverse discipline, non solo giuridiche, in grado di identificare quando sussiste e quando muta il controllo societario, potrebbe costruire quella serie di parametri capace di offrire maggiore certezza per la valutazione.
Nell’immediato, il nuovo ufficio creato all’interno della Consob, demandato a valutare gli effetti economici della regolamentazione, potrebbe avviare – con apposite consultazione delle parti – il suo prezioso lavoro per identificare i parametri rilevanti da considerare quando vi sia e quando muti il controllo societario, al fine di dare una solida base conoscitiva al lavoro del panel all’uopo costituito.
Infine, se proprio si volesse mantenere un elemento di certezza per il mercato degli assetti proprietari si potrebbe prevedere una “presunzione” di cambiamento del controllo al superamento di una determinata soglia massima (ad esempio il 40 per cento, per la quale scatterebbe automaticamente l’obbligo di Opa magari lasciando l’onere della prova contraria all’offerente) e, in contropartita, una soglia minima (ad esempio il 15 per cento) sotto la quale si presume che non vi sia cambio di controllo. Il panel procederebbe alla verifica effettiva del passaggio del controllo per i trasferimenti di quote compresi tra le due soglie.

Combinando questi due elementi si avrebbe:

– una certezza (salvo eventuale prova contraria) dell’Opa per i trasferimenti di controllo presuntivamente sicuri (sopra al 40 per cento).
– una selettività dell’applicazione dell’obbligo di Opa per tutti i passaggi di pacchetti inferiori al 40 per cento ma superiori al 15 per cento, salvo prova contraria a carico del panel o da attivare su richiesta di una minoranza qualificata degli azionisti di minoranza.

(1) The Panel on Takeovers and Mergers (the “Panel”) is an independent body, established in 1968, whose main functions are to issue and administer the City Code on Takeovers and Mergers and to supervise and regulate takeovers and other matters to which the Code applies. Its central objective is to ensure fair treatment for all shareholders in takeover bids.
(Il Panel on Takeovers and Mergers è un organismo indipendente, istituito nel 1968, le cui funzioni principali sono l’emanazione e l’amministrazione del City Code on on Takeovers and Mergers, e la supervisione e regolamentazioni delle acquisizioni e di tutte le materie cui il Codice si applica. Il suo obiettivo principale è assicurare un equo trattamento a tutti gli azionisti nelle offerte pubbliche di acquisto).

Queste norme sono una Babele, di Renzo Costi 2-5-2007

Alla fine degli anni Novanta, l’ordinamento italiano dei mercati finanziari sembrava aver raggiunto un assetto abbastanza stabile, fondato sui due testi unici: quello bancario del 1993 e quello sul mercato mobiliare del 1998.
I primi anni Duemila hanno profondamente inciso su quell’assetto, sia per la progressiva e necessaria attuazione di direttive comunitarie, sia per fronteggiare meglio fenomeni che avevano fatto dubitare della bontà di alcune delle scelte normative effettuate nel decennio precedente.

Come è cambiato l’ordinamento

Queste, in un rapido e lacunoso elenco, le “nuove norme“: le riforme del diritto societario e del processo societario del 2003, l’attuazione della direttiva sugli abusi di mercato del 2005, la legge sulla tutela del risparmio del 2005, il codice delle assicurazioni ancora del 2005, l’attuazione della direttive sui conglomerati finanziari, nel 2004, sulla vigilanza prudenziale, nel 2006, sui prospetti di quotazione, nel 2007, il decreto legislativo sulle forme pensionistiche complementari, nel 2005, l’attuazione delle direttive sulla commercializzazione a distanza dei prodotti finanziari, nel 2005, e sui contratti di garanzia finanziaria, sempre del 2005, l’imminente attuazione della direttiva Mifid e di quella sull’Opa.
Il governo ha poi elaborato un disegno di legge di riforma delle Autorità di vigilanza sui mercati finanziari che prospetta modificazioni molto profonde dell’ordinamento vigente, anche dal punto di vista delle norme che regolano l’attività delle banche, delle assicurazioni, delle forme pensionistiche complementari e dei servizi di investimento.
Sono numerosissimi i problemi di coordinamento che queste discipline, dettate in contesti e per scopi molto specifici, sollevano sia reciprocamente sia con i testi unici bancario e dell’intermediazione finanziaria.

Regole e coerenza

A sottolineare la mancanza di coerenza interna dell’ordinamento oggi vigente basti uno sguardo alle norme che fissano gli scopi che la vigilanza può perseguire e le materie sulle quali la stessa si esercita.Questi scopi e queste materie sono individuati in modo diverso a) dall’articolo 5 del Tub (“le autorità creditizie esercitano i poteri di vigilanza a esse attribuiti dal presente decreto legislativo, avendo riguardo alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, alla stabilità complessiva, all’efficienza e alla competitività del sistema finanziario”); b) dall’articolo 5 del Tuf oggi vigente (“la vigilanza sulle attività disciplinate dalla presente parte ha per scopo la trasparenza e la correttezza dei comportamenti e la sana e prudente gestione dei soggetti abilitati, avendo riguardo alla tutela degli investitori e alla stabilità, alla competitività e al buon funzionamento del sistema finanziario”); c) dall’articolo 5 dello stesso Tuf così come si progetta di riscriverlo dando attuazione alla direttiva Mifid (“la vigilanza sulle attività disciplinate dalla presente parte ha per obiettivi: a) la salvaguardia della fiducia nel sistema finanziario; b) la tutela degli investitori; c) la stabilità e il buon funzionamento del sistema finanziario; d) la competitività del sistema finanziario; e) l’osservanza delle disposizione in materia finanziaria”); d) dall’articolo 3 del codice delle assicurazioni (“la vigilanza ha per scopo la sana e prudente gestione delle imprese di assicurazione e di riassicurazione e la trasparenza e la correttezza dei comportamenti delle imprese, degli intermediari e degli altri operatori del settore assicurativo, avendo riguardo alla stabilità, all’efficienza, alla competitività e al buon funzionamento del sistema assicurativo, alla tutela degli assicurati e degli altri aventi diritto a prestazioni assicurative, all’informazione ed alla protezione dei consumatori”); e) dall’articolo 18 del decreto legislativo sulle forme pensionistiche (“il ministero del Lavoro e delle politiche sociali vigila sulla Covip ed esercita l’attività di alta vigilanza sul settore della previdenza complementare, mediante l’adozione, di concerto con il ministero dell’Economia e delle finanze, di direttive generali alla Covip, volte a determinare le linee di indirizzo in materia di previdenza complementare); f) dagli articoli 1, 3° comma (“restano ferme le funzioni di indirizzo generale e di alta vigilanza del governo e dei ministri nelle materie di cui alla presente legge e le competenze di regioni ed enti locali previste dalla normativa vigente”) e 9 (il Comitato per la stabilità finanziaria “anche al fine di consentire l’esercizio dei compiti di cui all’articolo 1, comma 3, promuove, attraverso la collaborazione e lo scambio di informazioni, la stabilità finanziaria e la soluzione delle crisi delle società e dei gruppi bancari e finanziari che possono influire sull’intero sistema finanziario”) del progetto governativo di riforma delle Autorità.
Alcune di queste norme danno indicazioni molto impegnative all’Autorità di vigilanza, ma solo per determinati settori (così per il mercato mobiliare l’Autorità deve adottare, come criterio per la propria attività, quello della “salvaguardia della posizione competitiva dell’industria italiana”).
E per quanto riguarda i mercati alcune norme si preoccupano di garantirne “l’integrità”, ma altre tendono ad assicurarne “il buon funzionamento” e altre ancora vogliono promuoverne “la sana e prudente gestione”.
A me pare che sia necessaria una rilettura coordinatrice di questa massa straripante di norme, dal punto di vista sia dei contenuti sia delle tecniche legislative (1), sia dei limiti entro i quali è opportuna la delegificazione. Oggi è già un’impresa rintracciare le norme in vigore.

Non solo coordinamento: la nuova Opa

Ma, in realtà, sembra non solo necessaria una riscrittura di molte norme, ma anche qualche modificazione delle scelte a suo tempo effettuate: così è forse opportuno abbandonare la soglia del 30 per cento come presupposto per l’Opa totalitaria, prevedendo il relativo obbligo ogni qualvolta muti il controllo.
Il governo dovrebbe assumere un’iniziativa di coordinamento delle norme esistenti e di un loro “aggiornamento” per evitare che i vizi dell’ordinamento incidano sull’efficienza della industria finanziaria italiana.


(1)
Sono state riprodotte nel nostro ordinamento espressioni contenute nelle direttive senza misurarne la compatibilità con il lessico giuridico italiano.

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