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MAL D’AFRICA

Quali sono le relazioni economiche tra I’talia e Africa? Le aziende italiane che operano nel continente sono prevalentemente piccole. Le grandi rappresentano meno del 5 per cento del totale, ma generano quasi la metà del valore delle esportazioni. Gli investimenti diretti esteri italiani, sebbene in crescita, appaiono ancora limitati. I problemi principali rimangono le risorse e la scarsa coordinazione degli attori del sistema. Ma l’area ha grandi potenzialità. La priorità è allora accrescere la capacità di internazionalizzazione delle nostre imprese.

L’Italia ha fortemente contribuito alla preparazione del summit tra Unione Africana e Unione Europea – basti pensare che a gennaio 2007, dopo molti anni d’assenza, un capo di governo italiano si è recato in Africa. Ma qual è lo stato delle relazioni economiche tra il nostro paese e l’Africa? Esiste una strategia del “sistema Italia” – imprese e governo – per il continente africano?

Un continente che cambia

L’Africa è un continente che cresce e cambia. Secondo l’African Economic Outlook dell’Ocse, la crescita economica per il 2007 e il 2008, prossima al 6 per cento, rimarrà per il quinto anno consecutivo sopra il 5 per cento. (1) Certo, le materie prime hanno un ruolo chiave, ma da sole non spiegano la crescita. Maggiore stabilità politica, un quadro macroeconomico migliore e una volontà politica di attirare capitali esteri, e non solo aiuti, contribuiscono a questa performance. È significativo che anche i paesi importatori netti di petrolio registrano una crescita di rilievo, attorno al 5 per cento, a testimonianza di una maggiore capacità di assorbire gli shock. (2)
Il boom dei prezzi delle materie prime, la rapida urbanizzazione, le prospettive di integrazione regionale e lo svolgersi dei prossimi campionati del mondo di calcio in Sud Africa nel 2010 creano interessanti opportunità di commercio e investimento. Insomma, benché ancora afflitta da numerosi, gravi problemi, l’Africa è un mercato potenzialmente importante.
Queste opportunità non sono sfuggite agli investitori internazionali, tanto che alcuni asset manager hanno indicato nell’Africa la prossima frontiera dell’investimento privato. (3) Secondo le stime del Fmi, i flussi di capitali privati si sono moltiplicati per sei tra il 2000 e il 2006, raggiungendo 45 miliardi di dollari, o 6 per cento del Pil continentale. 
Come si posiziona l’Italia rispetto a questa nuova realtà? In che misura imprese e autorità pubbliche reagiscono a questa dinamica e alla rapida occupazione degli spazi da parte di attori emergenti quali Cina e India?
Per l’Africa, l’Italia è un partner commerciale di peso, che rappresenta il 15 per cento delle esportazioni e il 10 per cento delle importazioni del Nord Africa e il 3 per cento dell’interscambio dell’Africa sub-sahariana. Per le imprese italiane il mercato africano resta invece relativamente marginale: nel 2006, l’Africa ha assorbito circa il 4 per cento delle esportazioni italiane nel mondo. In termini di prodotti, le esportazioni sono quelle di tradizionale specializzazione italiana: macchinari e materiali di trasporto (39 per cento) e beni manifatturieri (24 per cento, principalmente tessili). Verso l’Africa è diretto inoltre il 14 per cento delle nostre esportazioni di prodotti petroliferi raffinati. Dal continente proviene il 9 per cento delle importazioni italiane (7,2 per cento nel 1996). La principale voce è costituita dai prodotti energetici (75 per cento del totale). L’Africa fornisce all’Italia il 38 per cento del suo approvvigionamento dall’estero di prodotti energetici (42 per cento nel 1996).
Come la maggior parte delle imprese esportatrici italiane, anche quelle operanti con l’Africa sono prevalentemente di ridotta dimensione: per lo più di piccola e media, spesso microimprese. Le grandi imprese (almeno 250 addetti) rappresentano meno del 5 per cento del totale, ma generano quasi la metà del valore delle esportazioni.
L’incidenza dell’Africa sugli investimenti diretti esteri italiani, sebbene in crescita, appare ancora limitata: il 2 per cento del totale degli Ide italiani nel 1996, il 4 per cento nel 2006. La presenza di imprese italiane è concentrata nei settori dell’energia, estrazione, trasporto e costruzioni. In Africa troviamo il 5 per cento delle partecipazioni italiane all’estero, principalmente in Nord Africa e nel settore manifatturiero.
Infine, l’Africa è una delle maggiori destinazioni dell’intervento della cooperazione italiana, nel 2005 ha ricevuto il 41 per cento degli aiuti erogati. L’Italia è l’ottavo donatore bilaterale, con il 2,5 per cento degli aiuti ricevuti dall’Africa. Gli interventi sono concentrati nel Corno d’Africa, la Regione dei Grandi Laghi e l’Africa australe. Una quota consistente degli aiuti è rappresentata dal condono del debito, seguito a distanza dalle infrastrutture.L’Italia si è anche impegnata in sede G8 per sostenere la Nepad, uno dei cui obiettivi principali è migliorare la governance economica e politica nel continente.

Una strategia per il sistema Italia?

Favorire l’investimento e il commercio con il continente serve non solo per stimolare la crescita del settore privato e la diversificazione delle economie africane, ma anche per stabilire una nostra presenza in un’area dalle grandi potenzialità, che già attira importanti competitori delle imprese italiane.
La scarsa presenza di investimenti italiani in Africa non sorprende, visto il basso grado di internazionalizzazione dell’economia italiana in generale e le oggettive difficoltà che ancora si incontrano in numerosi paesi africani. Le Pmi, motore dell’internazionalizzazione italiana, incontrano specifici ostacoli per stabilirsi in mercati non ancora consolidati e dove il ritorno sull’investimento è particolarmente incerto e più di lungo periodo. Nel passato c’è stato qualche tentativo, di ridotte dimensioni, con la creazione attraverso Mediobanca di Intersomer e della Tradevco (in Liberia). L’Intersomer, con le sue partecipazioni in aziende locali (principalmente in Tanzania e Zambia) commercializzava in Africa prodotti italiani, in particolare veicoli. Queste esperienze, poco documentate, non hanno avuto un seguito di rilievo e il loro capitale di conoscenze è andato perduto. L’esperienza di paesi quali il Giappone (con le Shogo shoha) o l’India o la Cina (con le rispettive Ex-Im banks) suggerisce che aiutare l’internazionalizzazione, soprattutto in un ambiente difficile, richiede un approccio paese, che ad oggi in Italia sembra ancora mancare.
Ad onor del vero, quelli che non mancano sono gli strumenti istituzionali. Il governo ha cercato di intervenire, attraverso la legge 56/2005 (con la ventilata creazione di "sportelli unici" all’estero) e la dotazione alla Simest di un fondo unico per operazioni di venture capital. La Simest prevede di incentivare la presenza italiana in Africa come pure nei "Bric" principalmente attraverso un supporto alle grandi imprese. Ad oggi sono stati firmati anche trentatre Accordi di promozione e protezione degli investimenti con paesi africani, di cui diciannove sono in vigore; sono stati conclusi diciotto Accordi contro la doppia imposizione, di cui sette sono in vigore, mentre tre sono in bozza e due in negoziazione.
I problemi principali rimangono quello delle risorse e la debole coordinazione degli attori del sistema, che include Simest, Sace, Ice e settore privato. (4) La recente visita in Sudafrica dei ministri D’Alema e Bonino, accompagnati da una folta delegazione di Confindustria, Abi, Ice, Sace e Simest suggerisce un utile, sebbene forse tardivo, risveglio della politica e dell’imprenditoria. A quanto risulta, era la prima volta che una delegazione italiana così numerosa andava in Africa in missione economica.La Sace ha firmato un accordo con la sua omologa locale per sostenere operazioni di aziende italiane e sudafricane verso paesi terzi. Anche il sistema bancario italiano si sta muovendo. L’Abi ha messo a disposizione delle imprese un fondo di 800 milioni di euro per finanziare attività imprenditoriali italiane. Il Sudafrica, dopo l’India, sarà il paese focus dell’Italia per il 2008. Questo è sicuramente un buon inizio di un cammino in salita: nel paese non c’è più nessuna filiale o ufficio di rappresentanza di banche italiane e dal 2001 non esiste più un collegamento aereo diretto fra Italia e Sudafrica – sebbene Aeroporti di Roma avesse poco prima acquistato il controllo degli aeroporti sudafricani, tranne poi disfarsene proprio nel momento in cui il traffico aereo con il Sudafrica registrava tassi di crescita tra i più alti al mondo.
L’enfasi, sicuramente necessaria, sull’accompagnamento delle imprese, soprattutto in ambienti rischiosi, non deve però fare perdere di vista la reale sfida che attende il sistema produttivo italiano. Come rilevato da Ottaviano e Meyer (5), la performance internazionale di un paese è determinata da un ristretto gruppo di imprese “superperfomanti”. La priorità per il policy maker è quindi di accrescere il numero di imprese in grado di internazionalizzare, e questo richiede interventi “in casa” per stimolare produttività e innovazione.

(1)Pubblicazione annuale congiunta dell’Oecd Development Centre e della African Development Bank (www.oecd.org/dev/aeo).
(2)Se alcuni dei paesi importatori di petrolio (ad esempio Botswana, Mali o Mozambico) hanno potuto controbilanciare l’impatto negativo della più salata bolletta energetica grazie all’esportazione di minerali e metalli (diamanti, oro, allumino), altri, quali Uganda, Tanzania Ghana o Marocco, hanno fatto fronte al deterioramento della bilancia commerciale grazie alla loro struttura produttiva più diversificata e a caute politiche macroeconomiche.
(3) “Investors in push into Africa,” Financial Times, 19/11/07. L’Institute for International Finance stima i flussi netti di capitale privato verso Algeria, Egitto, Marocco, Sudafrica e Tunisia a 30 miliardi di dollari per il 2007 e a 33.6 miliardi per il 2008. http://www.iif.com/press/press+44.php.
(4)Si veda “Come promuovere l’Italia”, lettera dell’ambasciatore italiano a Riad – commento a “Come promuovere l’Italia. E il commercio” di Beniamino Quintieri, lavoce.info dell’8.6.2006 (www.lavoce.info/articoli/pagina2216.html ).
(5) The happy few: the internationalisation of European firms. New facts based on firm-level evidence (www.bruegel.org).

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  1. antonello cossiri

    Premetto che il gruppo da me rappresentato ha investito negli ultimi 3 anni circa 9,5 milioni di euro in Nord Africa, in iniziative imprenditoriali nel settore abbigliamento. Ritengo però che una seria riflessione debba essere fatta in merito alla assoluta SOLITUDINE in cui si trova ad operare una qualsiasi impresa italiana che decide di attuare un investimento diretto all’estero, in particolare in Africa, dove il contesto culturale, normativo e infrastrutturale rende molto difficili anche cose banali. La Simest interviene solo a condizione di avere le spalle ben "coperte" da parte di altri istituti bancari che, a loro volta, tendono a finanziare solo iniziative ad elevata probabilità di successo. Gli uffici locali dell’ICE o delle Camere di Commercio sono perfettamente INUTILI, si limitano, nel migliore dei casi, a fornire indirizzi e depliants, senza alcuna efficace azione di "accompagnamento" dell’impresa investitrice nei rapporti con le istituzioni, con la burocrazia, con i sindacati, con le banche locali. L’impresa, lasciata DA SOLA, spesso RINUNCIA ai suoi propositi di sviluppo. Mi pare del tutto comprensibile!!

  2. Amedeo Rosignoli

    Ci sono stati diversi esempi di attività italiane di “sistema”in Africa: – in Nigeria, dagli anni ’70 ai primi ’90, le grandi aziende: Agip, Fiat (Intersomer sua rappresentante), Montecatini, etc e tante medie imprese vendevano; Impregilo e altre medio/grandi costruivano. – in East Africa nei primi anni ’70, durante la crisi in Rodesia, circa 3.000 autocarri FIAT gestivano il traffico dal mare alla copper belt. Il sistema Italia faceva affari d’oro. In effetti la crisi delle attività economiche italiane in Africa è determinata dalla perdita dell’azione di “sistema” in cui la grande impresa trascina le imprese più piccole. Ma uno dei punti rilevanti del “sistema” è la disponibilità finanziaria: non il "supplyer’s credit", poco utile in periodi di bassi tassi di interesse, ma il più efficace "buyer’s credit", strumento potente di vendita e sicurezza di pagamento. Oppure il montaggio di "commodity aid", negoziati dalla cooperazione, destinati a progetti e/o all’ importazione di beni industriali, gestiti da organismi commerciali accreditati al Ministero degli Esteri e riservati agli imprenditori italiani. Amedeo Rosignoli Fomer Executive Vice-President Intersomer

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