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COOPERAZIONE, PERCHÉ ROMA NON SI IMPEGNA

I dati della Finanziaria 2008 confermano lo scarso impegno del governo italiano nel campo della cooperazione allo sviluppo. Per capire le ragioni del mancato raggiungimento degli impegni presi a livello internazionale, è necessario andare oltre spiegazioni semplicistiche. Due studi usano analisi econometriche per analizzare i fattori che potrebbero influenzare lo scarso sforzo italiano. Fattori strutturali, istituzionali e macroeconomici non sembrano spiegare il gap che esiste tra Italia e altri paesi Ocse. Forse la risposta è legata alla debolezza relativa delle nostre istituzioni democratiche?

I dati della Legge finanziaria 2008 confermano lo scarso impegno del governo italiano nel campo della cooperazione allo sviluppo. Nonostante il graduale aumento delle risorse stanziate negli ultimi anni dal governo Prodi, peraltro dovuto soprattutto a operazioni di cancellazione del debito , molto probabilmente nel 2008 i fondi per la cooperazione non supereranno lo 0,28 per cento del Pil. Se confermato, questo dato rappresenta una notevole iniezione di nuove risorse. In sede europea, però, l’Italia si era impegnata a portare il suo contributo allo 0,33 per cento entro il 2006, e allo 0,51 per cento entro il 2010. 
Potrebbe sembrare facile spiegare l’incapacità del governo di rispettare gli impegni presi  con la delicata situazione politica e fiscale che ha caratterizzato l’Italia negli ultimi anni, o con il fatto che il nostro paese non ha una storia coloniale significativa. Ma vale la pena cercarne le cause  più a fondo. Due studi recenti cercano di fare proprio questo, attraverso l’analisi econometrica di dati sugli aiuti italiani e non, offrendo spunti interessanti di dibattito. (1)

FATTORI STRUTTURALI, ISTITUZIONALI E MACROECONOMICI

Un team dell’università di Firenze, composto da Andrea Cornia, Simone Bertoli e Francesco Manaresi, ha sviluppato un modello che cerca di identificare fattori che possano spiegare lo scarso impegno italiano sugli aiuti (‘aid effort’), includendo variabili strutturali (reddito, ineguaglianza, popolazione), storiche (passato coloniale), istituzionali (esistenza di un’agenzia indipendente, orientamento politico del governo), e macroeconomiche (deficit, debito, bilancia dei pagamenti). I risultati ottenuti confermano che la performance italiana nell’area degli aiuti “è problematica sotto vari aspetti”. Non solo rimane sotto ai vari possibili obiettivi identificati, ma è inferiore a quella di governi dell’Europa meridionale con caratteristiche simili. Inoltre, il gap italiano resta alto in confronto alla media Ocse indipendentemente dalle condizioni sfavorevoli presenti in Italia, e dall’orientamento politico dei vari governi che si sono succeduti al potere. In altre parole, anche tenendo conto delle condizioni macroeconomiche e istituzionali italiane, i fondi stanziati per la cooperazione non avrebbero dovuto essere inferiori allo 0,29 per cento del Pil. Lo studio riconosce che parlare di “aid effort” in qualche modo ignora l’importanza della qualità ed efficacia degli aiuti prestati, e che i risultati presentati non sono del tutto univoci, ma conclude comunque con un appello affinché il governo onori gli impegni presi a livello europeo e internazionale.

LA FORZA DELLA DEMOCRAZIA

Joerg Faust del German Development Institute parte da un presupposto diverso. Sostiene che a livello teorico ed empirico si può supporre che paesi con credenziali democratiche maggiori orientino le loro politiche verso interessi pubblici più vasti, essendo meno vulnerabili all’influenza di interessi speciali, e che quindi ci si può aspettare che investano maggiori risorse nella cooperazione allo sviluppo. Usando il Commitment to Development Index (Cdi) sviluppato dal Center for Global Development come misura dell’impegno dei vari paesi donatori nei confronti dei paesi in via di sviluppo (che include i livelli e la qualità degli aiuti), Faust trova una correlazione molto elevata tra il Cdi e una variabile che misura la qualità della democrazia (Voice & Accountability) prodotta dalla Banca Mondiale. Dalla figura riportata qui sotto si vede chiaramente come paesi con istituzioni democratiche più forti, come i paesi scandinavi, sono caratterizzati da alti livelli di impegno per la promozione dello sviluppo a livello internazionale. L’Italia invece figura insieme a Grecia e Giappone tra i paesi in cui più bassi livelli di democrazia sono associati a un minor impegno a livello internazionale. L’analisi è basata su un numero di osservazioni molto basso, che inevitabilmente rende l’interpretazione dei risultati piuttosto difficile, in particolare per quel che riguarda le raccomandazioni di policy.

Di conseguenza, non è semplice trarre lezioni concrete dai risultati presentati nei due studi. Se non altro, evidenziano come sia difficile arrivare a un’interpretazione chiara della situazione italiana e del mancato rispetto degli impegni presi a livello internazionale per l’aumento del livello degli aiuti. Mentre l’analisi di Cornia e colleghi non arriva a una spiegazione univoca, i dati presentati da Faust sembrano suggerire che uno dei possibili modi per aumentare l’impegno italiano verso i paesi in via di sviluppo sia quello di un rafforzamento delle istituzioni democratiche nel nostro paese, processo che chiaramente richiede tempi lunghi.

(1)Bertoli, S., Cornia, G.A. e Manaresi, F. (2007) ‘Aid Performance and Its Determinants: A Comparison of Italy with the Oecd Norm’, in Bnl Quarterly Review, Vol. LX, n.242, Settembre 2007; Faust, J. (2008) ‘Are More Democratic Donor Countries More Development Oriented? Domestic Institutions and External Development Promotion in Oecd Countries’. Di prossima pubblicazione nella rivista World Development.

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  1. albertolibertad

    Il secondo contributo mi sembra decisamente più significativo del primo; nonostante questo, soffre almeno in parte di un cnotributo "dal basso" che potrebbe fornire informazioni certamente meno accademiche ma più concrete. Chiunque abbia avuto a che fare con l’apparato italiano per la cooperazione allo sviluppo a livello paese (PVS), si rende conto di come la struttura sia vecchia, lenta, disorganizzata, gestita da risorse umane poco qualificate per la cooperazione e soprattutto senza una chiara vision e mission comune (per chi ha avuto a che fare su più Paesi). La cooperazione italiana è tuttora convinta che per lavorare nei PVS valga ancora il detto "italiani brava gente": ci comportiamo in maniera destrutturata, approssimativa; non capiamo le potenzialità che la cooperazione avrebbe nella Politica Estera e non ne sappiamo cogliere le esternalità positive. Come anche nella macchina dello Stato in Italia, abbondano gli sprechi e la logica delle funzione pubblica. A mio parere è necessario innanzitutto prediporre una agenzia per la cooperazione più inquadrata, più formata, più elastica che si occupi di coordinare, implementare e soprattutto monitorare; ma ahimè, tempi duri,

  2. Claudio Dordi

    Caro Paolo, il numero limitato dei commenti è significativo sull’interesse degli italiani nella cooperazione allo sviluppo. E’ costante anche nei commenti degli articoli della voce:le questioni internazionali sono meno interessanti per i lettori rispetto a quelle interne! Idem nella campagna elettorale e nei programmi dei partiti. Per esperienza diretta, i problemi della cooperazione si estendono alla carenza di risorse umane e infrastrutturali, per cui, come al solito, gran parte delle attività si basano sulle lodevoli iniziative individuali dei funzionari della cooperazione (che quanto a capacità e competenze non hanno nulla da invidiare ai colleghi stranieri) che, alla fine, sono costretti a gestire carichi di lavoro impossibili. Il tutto nel quadro di una mancanza di un "sistema Italia" anche nella cooperazione e di obiettivi che mutano col variare del colore dei Governi. In più, anche in sede di cooperazione europea (e nelle organizzazioni internazionali, che attraverso il multi-bilateralismo gestiscono molte risorse, anche italiane), l’Italia è sottorappresentata nei posti chiave per incapacità/mancanza di volontà/carenza di risorse/clientelismo etc.

  3. gaspara

    La debolezza delle nostre istituzioni che dovrebbero essere democratiche ma aihmè sono clientelari e poco trasparenti, riguarda purtroppo anche la cooperazione italiana. Le risorse sono poche ma anche mal spese. Le ipotesi di riforma dovrebbero partire dai successi (o insuccessi) della cooperazione, che lo studio in itinere potrebbe utilmente quantificare. Questo servirebbe per ripartire con il piede giusto con una riforma di tutto il settore che ci allinei ai partners europei e che effettivamente arrivi dove deve arrivare e risponda alle promesse che abbiamo fatto a tutto guadagno dei flussi di immigrazione.

  4. bellavita

    Forse la spiegazione del minore impegno dell’Italia è più semplice, e sta nella nostra invasiva legislazione, attuata da una minuziosa burocrazia. Che serve a ritardare e scoraggiare le iniziative ma non a impedire il malcostume.

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