L’Islanda va verso il tracollo economico? In un paese caratterizzato a lungo da un’economia dirigista, le liberalizzazioni sono state incomplete. Ora i problemi sono molti: un forte indebitamento verso l’estero, un’inflazione che corre e una moneta sopravvalutata. Su tutto questo si innestano le turbolenze seguite alla crisi internazionale dei subprime. Ma nonostante la necessità di serie riforme, i fondamentali restano solidi. Gli islandesi, grandi lavoratori e con un buon livello di istruzione, avrebbero tutto da guadagnare dall’ingresso nell’Unione Europea.

Islanda è sull’orlo del collasso finanziario? Il Wall Street Journal ha osservato di recente che “l’Islanda somiglia a una ideale scommessa al ribasso”. Molti economisti non sono però d’accordo. Un piccolo riassunto di storia politica può far comprendere meglio i recenti sviluppi.

BREVE STORIA DELL’ISOLA

Fin dal 1927 quando il partito degli agricoltori conquistò la maggioranza in Parlamento con l’appoggio di solo un terzo dell’elettorato, l’economia islandese è stata, per decenni, pesantemente dirigista, senz’altro la più ingessata dell’Europa Occidentale, esclusa forse l’Irlanda. Ingerenza e programmazione erano la norma; impresa e mercato venivano guardati con scetticismo, se non con ostilità. Non è esagerato dire che lo Stato cercava di fermare qualsiasi cosa si muovesse. Lo Stato era proprietario delle maggiori banche e le usava per stanziare le scarse risorse a favore di alcune industrie e aziende privilegiate; anche il commercio estero era sottovalutato e regimentato. Con il risparmio interno ridotto all’osso, si era costretti a  a richiedere prestiti esteri su larga scala, anche perché, per ragioni nazionalistiche, gli investimenti stranieri erano controllati e del tutto vietati nel caso dell’industria della pesca, divieto che resiste tuttora.
Nel 1960 si verificò una radicale liberalizzazione del sistema politico, che contribuì a modernizzare il paese, riducendo i sussidi all’industria della pesca e svalutando la corona. La liberalizzazione si rivelò però incompleta, perché lasciava le banche in mano allo Stato. Inoltre la stretta soffocante di produttori e governo restava immutata, e ciò spiega perché, a tutt’oggi, la confederazione islandese dei datori di lavoro è contraria all’idea di far parte dell’Unione Europea, contrastando gli auspici del partito di maggioranza del governo, che resta così l’unico partito di centrodestra in Europa non allineato.

SEMBRA LA RUSSIA

La prima ondata di liberalizzazione degli anni Sessanta non fu dunque accompagnata dal necessario processo di depoliticizzazione della vita economica. Né lo fu la seconda, iniziata alla fine degli anni Ottanta. Quest’ultima riguardò la deregulation dei tassi d’interesse interni e del flusso dei capitali esteri, l’indicizzazione delle obbligazioni finanziarie, l’ingresso nel 1994 nell’Area della Comunità economica europea e – dal 1998 al 2003 – la privatizzazione delle banche e dei fondi di investimento. Le due principali banche furono vendute contemporaneamente, a un prezzo giudicato modesto dal National Audit Office. Per giunta, non furono vendute a banche straniere, come è accaduto nell’Europa dell’Est (per esempio in Estonia), ma a privati molto vicini ai partiti di governo.
Uno dei beneficiari della privatizzazione è stato un politico, la cui esperienza nel settore privato si limitava alla direzione, per pochi mesi, di due piccole fabbriche di maglieria negli anni Settanta: è diventato in breve tempo miliardario. Un altro ha chiamato Elton John per una sua festa di compleanno. Potrei fare altri esempi di questo genere, ma per dirla in breve: l’Islanda sembrava la Russia. Un ex-primo ministro del periodo 1991-2004, retrocesso nel 2004-2005 a ministro degli Esteri dopo aver perso le elezioni, ha annunciato il suo ritiro dalla politica contemporaneamente alla nomina, con effetto immediato, a governatore della banca centrale nel 2005. Il suo stipendio è aumentato velocemente, divenendo superiore a quello del Presidente della Repubblica. Le banche e il pubblico indebitato hanno capito il messaggio: solo il cielo è un limite.

LA SPIRALE DEI DEBITI

Finalmente libere dal controllo statale, le banche si sono date alla pazza gioia, concedendo e riscuotendo prestiti in grande quantità, come mai avvenuto in passato, il che ovviamente ha fatto aumentare il credito interno del sistema bancario dal 100 per cento del Pil nel 2000 al 450 per cento del 2007. Il modello dell’attività bancaria, in sostanza, è stato importato dall’estero: i funzionari addetti ai mutui sono stati remunerati sulla base del volume di prestiti concessi o di altre transazioni. Le banche si sono comportate, insomma, come se avessero ancora alle spalle l’avallo e l’appoggio dello Stato e il governo sembrava confermare quest’impressione. Le banche hanno chiesto, sui mercati esteri, prestiti a breve termine con interessi bassi, per finanziare mutui a lungo termine, ivi compresi gli ipotecari a 25-40 anni, creando in tal modo uno sfasamento di scadenze nei bilanci. Molti clienti, che hanno ottenuto mutui ipotecari a tasso variabile, vale a dire tasso reale al quattro per cento, rinegoziabile dopo un periodo di tolleranza di cinque anni, non sapevano che i loro mutui fossero finanziati da prestiti a lungo termine. Il debito dei nuclei familiari ha raggiunto nel 2007 il 240 per cento del reddito disponibile, mentre nel 1983 era solo il 40 per cento e nel 1990 l’80 percento. Il boom del mercato immobiliare ora ha subito un brusco arresto.
Il debito pubblico si è però dimezzato, passando dal 55 per cento del Pil nel 1994 al 28 per cento del 2007: il governo ha rimborsato i debiti precedenti, grazie agli introiti delle privatizzazioni e di altre fonti, comprese le consistenti imposte pagate dalle banche. Per giunta, il gettito fiscale sui redditi dei cittadini è salito dal 10 per cento del Pil del 1995 al 14 per cento del 2006 perché è salito il carico fiscale sui percettori di redditi medio-bassi. Le entrate del governo, derivanti da imposte e da altre fonti, incluse le privatizzazioni, sono sensibilmente aumentate, passando dal 38 per cento del Pil nel 1990 al 49 per cento del 2005, vale a dire da cinque punti sotto la media dei paesi del Oecd nel 1990 a quattro punti sopra la media nel 2005. Nonostante il fisco abbia pesantemente bastonato tutti eccetto i ricchi, nel 2006 il governo ha ottenuto prestiti dall’estero per una somma equivalente a quasi il 10 per cento del Pil, per raddoppiare le riserve della banca centrale in valuta straniera e riportarle a una copertura delle importazioni sui tre-quattro mesi. Il prestito è stato registrato separatamente e non è, pertanto, incluso nell’indebitamento pubblico ufficiale. Tra il 2004 e il 2007 il deficit delle partite correnti ammontava in media al 18 per cento del Pil, per l’incremento di importazioni e di pagamento di interessi; eppure le esportazioni hanno continuato ad aumentare vertiginosamente fino a un terzo del Pil, così come hanno sempre fatto dal 1870 (e non si tratta di un errore di stampa), un chiaro segnale di sopravvalutazione sistemica della corona. Il debito estero è salito nel 2007 al 550 per cento del Pil, incluse le obbligazioni a breve termine, equivalenti al 200 per cento del Pil. Il debito estero netto ammonta nel 2007 a quasi il 250 per cento del Pil, mentre nel 1997 era il 50 per cento. Inoltre la situazione degli investimenti, inclusi gli investimenti esteri diretti e il portafoglio azionario, si è deteriorata, passando dal – 47 per cento del Pil nel 1997 al -125 per cento del 2007.
Queste cifre mettono in luce altri due problemi. Il primo: è difficile definire il valore di alcuni beni acquistati con fondi in prestito. Il secondo: la qualità degli investimenti finanziati con tali fondi è un fattore determinante e cruciale della sostenibilità dei debiti a lungo termine accumulati dall’Islanda. La redditività del nuovo e gigantesco – per l’Islanda – progetto idroelettrico, destinato a rifornire un impianto per la fusione dell’alluminio, attualmente in costruzione, è controversa, perché il governo non vuole render noto il prezzo di vendita dell’energia alla fonderia. Inoltre parte del denaro ottenuto in prestito, è stato usato per finanziare i consumi.

UNA CORONA SOPRAVVALUTATA

Tre ulteriori elementi fanno comprendere che esiste una sopravvalutazione sistemica della corona. In primo luogo, l’Islanda resta un paese dall’inflazione elevata: in  questo momento è del 9 per cento l’anno ed è in aumento. I paesi con forte inflazione tendono ad avere una moneta sopravvalutata. Secondo, l’incrollabile supporto fornito dal governo all’agricoltura, attraverso forti restrizioni alle importazioni, e alla pesca, mediante assegnazioni gratuite di preziose quote di pescato, nonostante per legge il pesce delle acque islandesi sia risorsa di proprietà comune, esercita un’ulteriore pressione al rialzo sul tasso di cambio.
Il meccanismo è elementare: riducendo le importazioni alimentari, il governo riduce la domanda di valuta estera e, di conseguenza, anche il suo prezzo. E con il sussidio indiretto alla pesca, il governo riduce il prezzo della valuta estera a vantaggio della redditività dell’industria della pesca e a detrimento di altre industrie con vocazione all’esportazione. Terzo, come si vede dal grafico 1, il Pil pro capite dell’Islanda, misurato in dollari, supera il livello degli Usa nel 2002 e, nel 2007, spicca il volo, oltrepassandolo della metà. Stando così le cose, il deprezzamento della corona del 2008 va considerato come una buona notizia. La caduta continuerà? Per quanto? E a che ritmo? Come sempre è difficile prevederlo, ma si profila una reazione eccessiva: invece di cercare di fermare la recente svalutazione, le autorità dovrebbero preoccuparsi delle cause che sono alla base della cronica sopravvalutazione della corona negli anni passati.

Grafico 1. Confronto Islanda-Stati Uniti: Pil pro capite, 1975-2006

Il grafico 2 mostra che i debiti a breve termine verso l’estero del sistema bancario sono attualmente quindici volte superiori alle riserve in valuta estera della banca centrale. Pensando alla lezione della crisi asiatica del 1997-1998, ciò non sarebbe dovuto accadere. E non si tratta del “senno di poi”: la banca centrale e il governo sono stati ufficialmente messi in guardia, con accenti netti e chiari, man mano che procedevano lungo questa strada. Ma la loro risposta è stata che la Finlandia non è la Thailandia. Ora, come nel 2006, cercano il modo per sostenere le riserve della banca centrale, ricorrendo nuovamente a prestiti esteri.

Grafico 2. Rapporto tra debiti a breve termine verso l’estero delle banche e  riserve in valuta straniera della banca centrale

PIU’ CONCORRENZA PER LE BANCHE

L’improvvisa svalutazione della corona nel 2008 e la crisi di liquidità delle banche, evidenziata dall’astronomico rating di credit default swap (1) devono essere considerati come due problemi diversi, anche se l’incauto accumulo di debiti a breve termine da parte delle banche sembra aver innescato il crollo della corona. La necessità di svalutare non è una novità, pur se recentemente è divenuta più acuta. Era solo questione di tempo. A erodere il valore della corona è improbabile che siano stati rumors infondati. In compenso, i problemi delle banche sono inediti. La turbolenza dei mercati mondiali, seguita alla crisi dei subprime ha innescato il susseguirsi degli eventi islandesi, ma si sarebbero comunque verificati. Non esiste altro modo per leggere il grafico 2.
Sono numerosi i fattori che hanno contribuito a creare l’attuale situazione: la debole supervisione finanziaria, presa apparentemente in contropiede dall’improvvisa crisi di fiducia dei mercati esteri nei riguardi delle banche; gli errori politici compiuti dalla gestione politica di una banca centrale priva di sufficiente credibilità e potere di persuasione; le responsabilità delle agenzie di rating internazionali; una politica fiscale lassista inadatta all’andamento inflazionistico; e infine l’incapacità delle autorità di reagire per tempo all’escalation dei debiti: hanno deciso di non prestare orecchio agli avvertimenti.
Impossibile prevedere come se la caveranno le banche e i loro creditori, ma quel che è certo è che le conseguenze saranno serie per debitori e clienti, mentre cresce il divario tra tassi sui prestiti e sui depositi, in un mercato interno totalmente isolato dalla concorrenza straniera. È stato proprio così che, nei primi anni Novanta, al tempo della crisi della banche del Nord, è stata occultata una crisi bancaria, senza che le autorità facessero alcuna ammissione ufficiale. All’epoca, le banche statali islandesi hanno annullato cattivi prestiti in una misura paragonabile, in termini di Pil, a quella dei vicini del Nord colpiti dalla stessa crisi. Ed è questa una delle molte ragioni per cui è importante che l’Islanda entri nell’Unione Europea e abbia la protezione della politica sulla concorrenza europea. Le banche islandesi necessitano di concorrenza sia all’interno del loro paese, sia all’estero, dove offrono ai loro clienti condizioni ben migliori di quanto facciano in Islanda.

MA NON AFFONDERÀ

Non fraintendetemi: i fondamentali dell’Islanda sono solidi. Dal 1904, anno in cui ha conquistato l’indipendenza, il Pil pro capite islandese è aumentato di quindici volte. Oggi il Pil pro capite islandese è più o meno pari a quello della Danimarca, cui anticamente apparteneva, mentre nel 1900 il divario era di oltre il 50 per cento in favore di quest’ultima. È vero, la trasformazione dell’Islanda è stata ottenuta a costo di una forte e lunga inflazione, del forte incremento di debito estero e del quasi-esaurimento dei banchi di pesce nelle sue acque. Però, il livello di istruzione e di cultura del popolo islandese è costantemente aumentato nel corso degli anni. Anche il duro lavoro della popolazione contribuisce a spiegare la crescita economica del paese. Gli islandesi, come gli americani, devono tuttora lavorare molte più ore della maggior parte dei paesi Oecd per mantenere – nonostante le svariate inefficienze del loro paese, sia a livello organizzativo che economico – un elevato standard di vita. Far parte dell’Unione Europea li aiuterà a ridurre tali inefficienze.

(1) Il credit default swap (Cds) ha la funzione di trasferire l’esposizione creditizia di prodotti a reddito fisso tra le parti. È il derivato creditizio più usato.

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