Negli ultimi anni il terrorismo internazionale ha cambiato luoghi e motivazioni. Mira a colpire l’Occidente, ma gli attacchi dei fondamentalisti avvengono principalmente nei paesi in via di sviluppo con il risultato di peggiorare le condizioni economiche proprio di queste regioni. Una maggiore cooperazione internazionale è necessaria, ma non basta. Occorre adottare misure economiche che stimolino occupazione, formazione e inserimento economico-sociale degli individui suscettibili di essere arruolati nelle attività terroristiche, come i disoccupati e i giovani non qualificati, privi di prospettive economiche.
Non passa giorno che non si abbia notizia di qualche attentato o di minacce da parte dei terroristi contro gli occidentali (giornalisti, diplomatici o turisti), oppure contro i simboli e gli alleati dell’Occidente. Gli attentati di Bombay non costituiscono un’eccezione: si è trattato di attacchi concentrati contro i siti più occidentalizzati della città. Anche se, alla fin fine, la maggior parte delle vittime non è occidentale, gli attacchi erano principalmente indirizzati contro i cittadini dei paesi più ricchi. Uno dei principali moventi dei terroristi è quello di minare gli interessi dell’Occidente. Quali sono realmente le conseguenze economiche di tali attentati?
Il fenomeno non è nuovo. In base alle statistiche disponibili, si direbbe anzi che – da 40 anni a questa parte – è una costante: gli Occidentali sono il principale bersaglio dei terroristi transnazionali. Sono cambiati però i luoghi e le motivazioni. Da una quindicina danni avvengono principalmente nei paesi del Sud. Negli anni 70, infatti, gran parte degli atti terroristici proveniva da gruppi separatisti o estremisti europei. A partire dagli anni 80 invece è apparso il terrorismo religioso fondamentalista, con lo spostamento del centro di gravità del fenomeno verso i paesi del Sud.
PAESI PIÙ POVERI DOPPIAMENTE VITTIME
Gli attentati di New York (2001) Madrid (2003) e Londra (2005), anche se spettacolari, sono eccezioni. Non sono affatto rappresentativi dei circa 400 attentati transnazionali, perpetrati ogni anno nel mondo. Gli studi sull’argomento dimostrano che, a parte gli attentati compiuti nei periodi bellici come quelli che oggigiorno colpiscono l’Iraq, tre quarti degli attentati avviene nei paesi in via di sviluppo. Se le vittime di tali atti sono quasi sempre cittadini dei paesi più avanzati, le conseguenze economiche, però, si ripercuotono proprio sui paesi in via di sviluppo.
Gli Stati Uniti sono stati pesantemente colpiti dai fatti dell’11 settembre, ma la ripercussione sulla loro economia è stata solo transitoria. Solo se gli attentati colpissero ripetutamente uno stesso luogo, si registrerebbe un effetto duraturo. Secondo alcuni studi, il reddito globale dei paesi baschi sarebbe stato più elevato di almeno il 10 per cento se, durante gli anni 70 e 80, l’ETA non avesse compiuto numerosi attentati.
I continui atti terroristici che avvengono in alcuni paesi in via di sviluppo, come Colombia e Pakistan, colpiscono duramente il loro commercio estero, frenando le transazioni di beni e servizi, sia a livello nazionale che internazionale. L’Occidente è, infatti, il loro principale mercato desportazione e gli attentati hanno effetti non trascurabili. Ad esempio, in Colombia, l’aumento dell’1 per cento degli incidenti, che colpiscono spesso interessi americani, provoca la diminuzione dell’1 per cento delle esportazioni verso gli Stati Uniti. Senza contare che la maggior parte dei turisti proviene dall’Occidente e che gli attentati perpetrati contro bersagli occidentali diminuiscono considerevolmente le attrattive del paese in seno al quale essi avvengono, perché creano un forte senso di insicurezza.
Le misure di sicurezza messe in atto dai governi occidentali per far fronte al terrorismo non fanno che rinforzare questi effetti nefasti. Rendono, infatti, più difficile il movimento di beni e persone, soprattutto alle frontiere. Ad esempio, a causa degli attentati compiuti in Grecia contro bersagli americani, i fuoriusciti greci ancor oggi possono godere solo di un visto turistico per recarsi negli Stati Uniti.
E infine, a coronamento di tutto ciò, esistono anche gli effetti indiretti sui paesi confinanti con quelli da cui provengono i terroristi. Negli ultimi due decenni, infatti, molte organizzazioni terroriste hanno ampliato la loro rete di contatti. Per esempio Al Qaeda si è recentemente radicata nell’Africa del Nord. Di conseguenza i paesi occidentali devono estendere e in un certo senso globalizzare le loro misure di sicurezza, se vogliono impedire la diffusione di tali organizzazioni. In un lavoro recentemente pubblicato mettiamo in evidenza questo processo di contagio: gli attentati avvenuti in un determinato paese possono ripercuotersi sugli scambi dell’Occidente con quei paesi, che simpatizzano culturalmente, geograficamente o religiosamente con le organizzazioni terroristiche.
I paesi del Sud sembrano essere entrati in un circolo vizioso.Demoltiplicando l’impatto negativo del terrorismo, le politiche di sicurezza generano il calo delle attività economiche nei paesi del Sud che, a sua volta, genera un terreno fertile perché attecchisca il terrorismo. E così la protezione della vita al Nord peggiora sensibilmente le condizioni di vita al Sud.
POSSIBILI SOLUZIONI
Che fare per rompere questo circolo vizioso? Le misure di sicurezza unilateralmente decise dai paesi del Nord sembrano solo spostare il problema, non risolverlo. E invece urgente instaurare una cooperazione internazionale mirata a ridurre il verificarsi di attentati nei paesi del Sud e del Nord. A breve termine, sarebbe auspicabile trasmettere ai paesi del Sud le tecnologie di prevenzione più progredite, onde ridurre il verificarsi di tali eventi. A lungo termine, bisognerebbe elaborare una politica più volontaristica, al fine di estirpare le radici del terrorismo. Parimenti occorrerebbe aiutare i paesi in via di sviluppo ad adottare misure economiche che stimolino occupazione, formazione e inserimento economico-sociale di quegli individui suscettibili di essere arruolati nelle attività terroristiche, come ad esempio i disoccupati e i giovani non qualificati, privi di qualsivoglia prospettiva economica. Per conseguire tutto ciò è indispensabile che i contribuenti del Nord capiscano che la loro sicurezza dipende anche dal miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni del Sud.
(traduzione dal francese di Daniela Crocco)
Foto: Taj Hotel di Mumbai, da internet
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Marco
L’economia globalizzata è il problema, non la soluzione, perché basata su concetto discutibile come il prestito ad interesse, voluto e sponsorizzato dai detentori del capitale: i banchieri. Il terrorismo (o la resistenza, perchè ad esempio l’Egitto è un paese dittatoriale) vuole principalmente la fine di questo sistema economico basato sul debito, a qualunque costo. Una volta si legava alle forze comuniste per la vicinanza ideologica, ora si ispira alla religione islamica perché l’unica a vietare chiaramente il sistema del prestito ad usura, domani avrà qualche altro punto di riferimento. Proporre l’economia globalizzata come soluzione sa molto di ignoranza delle radici del problema, che è soprattutto nel sistema bancario. Cosimo de’ Medici era un banchiere che letteralmente si comprò il governo della città. Oggi accade la stessa cosa al mondo, perchè l’ambizione umana non ha limiti. Buon lavoro P.S. L’usura è un concetto relativo, varia infatti a seconda del luogo in cui ci si trovi. Zero interessi è invece un concetto assoluto, ed è l’unica soglia in cui per definizione non ci possa essere usura.
Franco Conzato
Al costo economico del terrorismo aggiungerei i costi dell inazione. Non è da oggi, che le istanze piu progressiste dei "policy makers" e dei "practitioners" che si occupano di cooperazione allo sviluppo (governi e organizzazioni dei paesi "like-minded", ONG internazionali, organismi multilaterali, movimenti di base dei paesi in via di sviluppo) ci ricordano la necessità di aumentare l’aiuto in volume (piu soldi) e in efficacia (usarli meglio). Il vero blocco si situa a livello dei "decision makers" e nell’ incapacità di superare una visione, purtroppo comune alla maggioranza dei nostri leaders politici, che considera l’ aiuto una pratica assistenzialista/caritatevole (si da quando c’é né). Gli esempi a cui ispirarsi esistono: gli Employment Guarantee Schemes, sviluppati dallo Stato Indiano del Maharsatra negli anni 1972-74 o i piu recenti Employment Generation Schemes sviluppati dal Governo Etiopico o i programmi "cash -for work" intrapresi dall ILO e dal WPF . Queste programmi hanno bisogno pero di vedersi garantire risorse nel medio/lungo periodo sia dallo stato o da paesi donatori (Gli EGS indiani sono durati 30 anni) . E qui sta la vera sfida.
Jacopo Roveratto
L’articolo fa a quanto pare uso di argomenti diversi dalla ragione. Il terrorismo è una tecnica di guerriglia, non un’epidemia, e non c’è propaganda ridondante che possa mutare il significato del termine. Semmai ci si dovrebbe interrogare sulle cause che volta per volta inducono un singolo, un gruppo o un’intera popolazione a praticarlo. Viviamo in un mondo in cui gli Iraqeni che si ribellano ad un esercito occupante vengono classificati come terroristi, come se l’Iraq fosse libero da ingerenze straniere. Sostenere poi che sia l’inserimento economico sociale degli individui potenziali terroristi a risolvere il problema fa accapponare la pelle, perchè significa non solo che non si vuol realmente risolvere il problema, ma che è in atto una vera campagna mistificatoria! Un kamikaze si fa esplodere perchè senza lavoro?! A quali tecnologie moderne di cui dovrebbero dotarsi i paesi del sud del mondo vi riferite? Giacchè temo di sapere quali. Il calcolo del costo economico del terrorismo che esponete è eufemisticamente impreciso. Fonti citate ne vedo poche, forse non ci tenete ad essere creduti. Comprensibile.
Gabriele Andreella
Mi sembra che non ci siamo proprio. Si dice: "è urgente instaurare una cooperazione internazionale mirata a ridurre il verificarsi di attentati nei paesi del Sud e del Nord". E fin qua niente di strano: è un’ovvietà. Il problema è il ‘come’. E qui casca l’asino. "Sarebbe auspicabile trasmettere ai paesi del Sud le tecnologie di prevenzione più progredite (…) e bisognerebbe elaborare una politica più volontaristica, al fine di estirpare le radici del terrorismo". Ma questo non risolverà mai il terrorismo, bensì lo alimenterà. I "resistenti", cioè coloro che, soprattutto nel mondo Arabo, si oppongono alla protervia para-democratica occidentale (solo alcuni dei quali sono davvero "terroristi"), finiranno solo per esasperarsi, se questa intrusione occidentale e questa deriva neo-coloniale/idealista non finirà. Per quanto riguarda la "cooperazione internazionale", è necessario, prima, che gli stati occidentali smettano di apparire non-credibili agli occhi mediorientali, a causa dei loro pelosi interventi interessati (e spesso illegittimi, vedi Iraq e Serbia) spacciati per "umanitari".
fabio di virgilio
Giusto il concetto per cui dalla povertà, quindi dal mancato sviluppo e in ultima analisi dalla disoccupazione, nasce disperazione quindi estremismo e terrorismo che producono ulteriore impoverimento di risorse interne ed esterne. Credo però che sia necessario un minor intervento straniero di tipo diretto (sussidi,prestiti di scopo) e che si debba invece puntare di più su strategie di collaborazione più silenziose, meno vistose e di più lungo periodo. Ciò per non creare una sensazione diffusa di dipendenza dai paesi occidentali che può incrementare l’attività terroristica (che va ben distinta dalla "resistenza", vedi interventi sopra). Il fenomeno terroristico essendo un problema sociale può essere sradicato solo nel lungo periodo, qualunque strategia che porti ad azione di breve termine è destinata a fallire Agli economisti (magari più esperti di me) l’impegno a trovare gli stumenti tecnici più adatti allo scopo…
Jacopo Roveratto
Certo che terrorismo e resistenza non sono la stessa cosa! Sono due termini che appartengono a due domini semantici distinti. Il terrorismo è e sarà sempre una delle possibili pratiche con cui si esprime la resistenza, di solito di natura politica e il sud del mondo non fa eccezione. Cosa c’entrino lo stimolo occupazionale e l’inserimento economico sociale non è dato di capirlo, del resto l’articolo non si dà pena di spiegarlo. I terroristi per quanto criminali non sono dei disadattati. L’articolo è assai generico nel trattare i costi economici del terrorismo, poi però è estremamente preciso nel tracciarne la casistica, che si riduce a quella del terrorismo fondamentalista (alludendo a quale si è ben capito). Occorrerebbe una visuale di più ampio respiro che consideri anche il terrorismo di stato, come quello Usa. Anche lì disoccupati e giovani non qualificati?