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QUANDO GLI ECONOMISTI SBAGLIANO*

La crisi impone alla disciplina economica una riflessione. In primo luogo, sugli errori intellettuali che hanno impedito agli economisti di individuarne per tempo le cause. Ma agli economisti si chiede anche di indicare i rischi delle politiche anticrisi di molti paesi. Come i riflessi che potrebbero avere su riallocazione e innovazione e dunque sulla crescita di lungo periodo. I piani di sostegno alle economie sono probabilmente il modo migliore per combattere il pericolo dell’affermarsi di reazioni populiste e anti-mercato. A patto però che siano ben congegnati.

La crisi globale rappresenta un’opportunità di riflessione critica per la disciplina economica, un’opportunità per allontanarci da convinzioni che non avremmo dovuto abbracciare così ingenuamente. Idee come il supporto indiscriminato alla deregolamentazione del mercato o il rigetto della volatilità aggregata ora si rivelano frivoli capricci, mentre le astrazioni dai fondamenti istituzionali del mercato ci appaiono ingenue. Questi limiti richiedono riflessione e auto-analisi e, si spera, nuove ricerche da parte dei giovani economisti. La crisi è anche un’opportunità per individuare le lezioni più importanti che restano immutate dopo i recenti eventi e per chiederci se queste lezioni possono guidarci nell’attuale dibattito di policy.
Su Cepr Policy Insight n. 28 ho esposto il mio pensiero su quali siano stati gli errori intellettuali commessi e quali lezioni se ne possano trarre in termini di nuovo lavoro teorico che si rende necessario. E suggerisco anche che nel dibattito sulle politiche per contrastare la crisi sono state sottovalutate lezioni importanti della teoria economica e della crescita.

COMPIACENZA INTELLETTUALE

Molte cause della crisi sono oggi evidenti, ma la maggior parte di noi non le ha riconosciute in anticipo. Tre idee accettate con troppa rapidità ci hanno indotto a ignorare i problemi incombenti.

–   Politiche “intelligenti” e nuove tecnologie hanno messo fine all’era della volatilità aggregata.

Benché i dati mostrino un marcato declino della volatilità aggregata dagli anni Cinquanta in avanti, è ora chiaro che la fine del ciclo economico era un’illusione. Anzi le politiche e le tecnologie che hanno reso l’economia più forte contro i piccoli shock, l’hanno anche resa più vulnerabile agli eventi con bassa probabilità. La diversificazione dei rischi idiosincratici ha creato una molteplicità di relazioni fra controparti. Questa nuova, densa trama di interconnessioni ha creato potenziali effetti domino tra istituzioni finanziarie, imprese e famiglie.
I crolli nel valore delle attività e le contemporanee insolvenze di molte imprese mettono in luce che la volatilità aggregata è parte integrante del sistema di mercato. Èanche parte integrante del processo di distruzione creativa. La comprensione che la volatilità non ci abbandonerà, dovrebbe riportare la nostra attenzione verso modelli che ci aiutino a interpretarne le varie fonti e a individuare quali componenti siano associate a un funzionamento efficiente dei mercati e quali invece sono la conseguenza di fallimenti del mercato evitabili.

–        L’economia capitalista vive in un vuoto istituzionale nel quale i mercati controllano miracolosamente il comportamento opportunistico.

I liberi mercati non sono mercati senza regole. Istituzioni e regole ben concepite sono necessarie per il funzionamento corretto dei mercati. Negli ultimi quindici anni, alle istituzioni è stata data molta attenzione, ma si concentrava sulla comprensione delle ragioni per cui le nazioni povere sono povere, non sulla comprensione di quali istituzioni sono necessarie quale base per il funzionamento dei mercati e per il mantenimento della prosperità nelle economie avanzate. 

–        Potevamo essere certi che le grandi aziende con una storia alle spalle si sarebbero auto-controllate perché avevano sufficiente “capitale reputazionale”.

La convinzione si è rivelata errata per due difficoltà fondamentali: il controllo deve essere fatto da individui e il controllo basato sulla reputazione esige che le sanzioni ex post siano credibili. Entrambe le cose si sono dimostrate false. Gli individui possono non curarsi del capitale reputazionale dell’azienda e la scarsità di capitale specifico e di know how significa che le sanzioni necessarie non erano credibili.

IL LATO POSITIVO

Possiamo solo dare la colpa a noi stessi per non aver compreso elementi importanti dell’economia e per non aver avuto una capacità di previsione maggiore di quella dei politici. Anzi, possiamo biasimare noi stessi per essere stati complici dell’atmosfera intellettuale che ha portato al disastro attuale. Ma la crisi rappresenta anche una opportunità: ha aumentato la vitalità dell’economia e ha messo a fuoco molte interessanti, stimolanti ed eccitanti domande. I brillanti giovani economisti non hanno di che preoccuparsi per trovare nuovi e importanti problemi su cui lavorare nei prossimi dieci anni.

QUELLO CHE DOVREMMO DIRE AI POLITICI

Le tre idee sbagliate non toccano i principi economici correlati alla crescita di lungo periodo e all’economia politica. Questi principi hanno avuto uno scarso ruolo nei recenti dibattiti accademici e sono stati del tutto ignorati in quelli politici. Come economisti, dovremmo ricordare ai politici le implicazioni che questi principi hanno nelle scelte attuali.
Il primo punto è che risolvere il problema di breve periodo con politiche che danneggiano la crescita di lungo periodo è una pessima scelta sotto il profilo della policy e del benessere. Innovazione e riallocazione sono la chiave della crescita di lungo periodo, ma gruppi potenzialmente potenti tendono a resistere a tali cambiamenti. Nei paesi in via di sviluppo, è facile che popolazioni impoverite, che soffrono shock negativi e crisi economiche si rivoltino contro il sistema di mercato e sostengano politiche populiste e anticrescita. Ma sono pericoli presenti anche nelle economie avanzate, specialmente nel mezzo di una crisi economica come quella attuale.
Piani di aiuto che salvano il settore finanziario o quello dell’auto avranno ripercussioni sull’innovazione e la riallocazione. Può soffrirne in particolare la riallocazione, se i piani di aiuto bloccano i fattori in settori e attività a bassa produttività. I segnali del mercato dicono ad esempio che lavoro e capitale dovrebbero essere riallocati lontano dalle “Big Three” di Detroit e i lavoratori altamente qualificati dovrebbero essere riallocati dall’industria finanziaria verso altri settori più innovativi. Uno stop alla riallocazone significa anche uno stop all’innovazione.

REAZIONE DA EVITARE

Queste preoccupazioni non sono una ragione sufficiente per opporsi ai piani di aiuto, ma sono piuttosto un appello a considerarne le implicazioni per la crescita di lungo periodo. Un’azione decisa contro la crisi è necessaria, non solo per attenuare i colpi della recessione, ma anche per evitare una reazione che potrebbe essere profondamente negativa per la crescita di lungo periodo. Una lunga e profonda recessione fa nascere il rischio che consumatori e politici inizino a ritenere i liberi mercati responsabili dei mali economici di oggi. Se accadesse, potremmo assistere a un allontanamento dall’economia di mercato. Il pendolo potrebbe oscillare troppo, oltrepassando i liberi mercati con regole adeguate, verso un forte coinvolgimento degli Stati nell’economia che potrebbe mettere a rischio le prospettive di crescita futura dell’economia globale.
Un buon piano di aiuti, pur con tutte le sue imperfezioni, è probabilmente il modo migliore di combattere questi pericoli. Tuttavia, i dettagli dovrebbero essere costruiti in modo tale da causare il minor danno possibile al processo di riallocazione e innovazione. Sacrificare la crescita per il timore del presente sarebbe un errore altrettanto grave dell’immobilismo: non si dovrebbe escludere il rischio che possa crollare la fiducia nel sistema capitalistico.

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21 commenti

  1. Massimo GIANNINI

    Il problema è perseverare negli errori che per molti economisti sono dovuti all’ideologia e anche al fatto che sono al servizio dei politici. Il ché non giova alla categoria. Si legga il dibattito negli Stati Uniti tra favorevoli o contrari ai vari provvedimenti di politica economica. Ce ne fosse uno che tira fuori numeri veri o supporting evidence. Ce ne sono anche alcuni, anche italiani, che hanno il coraggio di impressionare dicendo che nella letteratura economica disponibile si conferma che…poi vai a vedere non c’é un tubo di conferma e nemmeno di letteratura. Diciamocelo, come economisti, non abbiamo fatto una gran bella figura, solo pochi "indipendenti" si son salvati. Il problema è di metodo: continuare con lo stesso mindset e gli stessi libri di economia rischia di far ripetere gli errori, e sarebbe diabolico ma probabile.

  2. Dorigo G.

    Ciò che trovo davvero sorprendente circa le scienza economiche è il fatto che esistano scuole di pensiero così diverse, soprattutto in materia di macroeconomia. Ora capisco bene che non sia possibile con l’economia fare ciò che i fisici fanno in un laboratorio, ovvero ripetere decine e decine di volte il medesimo esperimento modificando prima una e poi un’altra variabile al fine di vedere quali sono davvero le variabili che contano al fine di una certa previsione e in che relazione sono tra loro. Eppure un modo ci sarà per arrivare ad un metodo condiviso per individuare tra due o più teorie antagoniste quale sia quella più vicino alla realtà e più capace di fare previsioni. In fondo anche l’astronomia ha un po’ il medesimo problema non potendo gli astronomi esplodere le stelle a loro piacimento. Eppure gli astronomi riescono ad utilizzare sia le conoscenze dei fisici, sia i dati che comunque l’osservazione della natura fornisce loro, e anche se ci sono molti punti oscuri nelle loro teorie non mi risulta che ci siano scuole di pensiero così radicalmente diverse con intere università schierate da una parte o dall’altra.

  3. Antonio Aghilar

    Tutti sapevamo che la Fed stava "drogando" il mercato con eccesso di liquidità. Tutti sapevano che i derivati, specie quelli sui mercati OTC, andavano regolamentati perchè ormai la massa era fuori controllo. Tutti sapevano che la Bilancia Commerciale degli USA andava riaggiustata e che sia la politica energetica che quella fiscale erano da rivedere profondamente. Per anni si sono letti commenti entusiasti da parte degli "economisti allineati" (quanti economisti veri e quanti semplici "opinion maker" è difficile stablirlo..) sulla "creazione di valore", ovvero dei mirabolanti "capitail gain" realizzati attraverso semplici "passaggi di mano" delle società quotate. Ed ora eccoci quà: con una crisi di "riallineamento" dei valori di borsa ai fondamentali dell’economia reale che è tanto più profonda quanto più gli operatori economici si rendono conto del fatto che "è ora di fare i conti con la realtà". E ora leggo che gli economisti hanno sbagliato tutto. Attenzione però: perchè se si vuole addossare all’economics limiti che sono solo di chi ha smesso di fare lo scienziato e si è messo a fare l’opinion maker se non la "velina" delle Grandi Banche d’Affarri allora ci si va male due volte.

  4. Giovanni

    Doveroso atto da parte degli economisti, che non sono semplici studiosi "astratti", ma influenzano le politiche dei governi. Anche una scusa da parte dei governi ci starebbe bene! Penso sia la fine dell’economia come "scienza". L’economia, trattando di azioni degli uomini non puo’ sperare di essere perfetta, come neanche la scienza è d’altronde. Molta cecità, molta propaganda hanno portato a questo punto. Un elemento che si è sottovalutato è l’avidità umana, il senso di onnipotenza delle grandi imprese, oltre che una stupidità connaturata dell’uomo. Vero riguardo ai pericoli demagogici contro l’attuale sistema economico: dire che questo oggi non funziona perché c’è questa crisi è come dire che il comunismo non ha funzionato perché non ha funzionato in Unione Sovietica. Tra i fatti e le teorie c’è sempre distanza cosi’ come da un fatto singolo non si puo’ trarre una legge generale.

  5. Bruno Stucchi

    Il mio famoso e rimpianto collega Ernest Rutherford diceva: "All science is either physics or stamp collecting". L’economia, e peggio l’econometria", non è neppure stamp collecting.

  6. Enrico Motta

    Riallacciandomi al commento che confronta i metodi della fisica e dell’astronomia quelli dell’economia, anch’io posso dire di essere colpito dalle differenze tra scienza (?) economica e scienze biologiche. Faccio il medico, non il ricercatore, ma ho letto molti libri e articoli di medicina. Le affermazioni in campo economico, sbalorditive da un punto di vista metodologico, sono ad esempio: " nel 2010 il PIL in italia diminuirà dello 0,1%". Ma come si fa a conoscere tutte le variabili che influenzeranno il PIL tra 2 anni? Queste sono sparate a vanvera, che la realtà dimostra sempre errate. In medicina, dove le si spara grosse anche qui, si esprimono però i dati come probabilità che un determinato esito avvenga. "Se prende questa pastiglia, c’è la probabilità del 90% che la pressione si abbassi di un valore compreso tra 10 e 20 mm di Hg". I discorsi metodologici sono complessi. E non sono nemmeno uno specialista del ramo. Ma gli economisti sbagliano metodo o sbagliano a divulgare i risultati?

  7. Giacomo Monaco

    Il lasciar fare alle istituzioni finanziare di prendere qualsiasi strada che a loro era più congeniale come lei scrive, si è rivelato un errore, ma un errore maggiore sarebbe quello di controllare o addiritturra sostituendolo con la mano pubblica. I mercati devono rimanere liberi, ma mai fuori dalle regole, le quali devono essere regolate dalla politica che invece ha delegato osannandolo, al liberismo assoluto. Oggi ne paghiamo le conseguenze.

  8. luigi zoppoli

    Intanto è eticamente positiva un’assunzione di responsabilità. Il riconoscimento di errori è la metodoligia per progredire. Ho però la sensazione che il pubblico non si renda conto che l’economia si concretizza sulla base di scelte umane, aziendali, istituzionali, nazionali, mondiali tutte tra di loro fittamente intersecate ed interdipendenti. Attendersi quindi interpretazioni precise ed univoche della realtà economica o previsioni sempre e comunque esatte è illusorio. Né comprendo la tendenza alla sfiducia verso gli economisti. Quando un esperto metereologo formula una previsione inesatta, non si va certo dal salumiere a chiedergli una previsione del tempo.

  9. Miriam

    Sono convinta che alla base di tutto c’è stata una profonda crisi mondiale della politica. E’ un concetto molto semplice "il pesce puzza dalla testa". Quando i più influenti leader politici imboccano certe direzioni tutti i settori della vita sociale, l’economia in primis, ma anche la giustizia, la cultura, lo spettacolo, lo sport seguono a ruota quell’andamento. La globalizzazione con il suo effetto di cassa di risonanza amplifica gli effetti delle scelte politiche spalmandoli sui vari paesi con più o meno forza, a seconda della resistenza opposta dai valori e dalle tradizioni nazionali. Il risultato è spiazzante, perchè ci si uniforma immediatamente, grazie soprattutto all”azione di diffusione dell’informazione "poco critica" svolta dai media rivolti ad un pubblico di massa. Questi indirizzi dominanti diventano facilmente un "imperativo" e quindi a poco vale il giudizio critico di qualche economista, non più attento, ma sicuramente meno uniformato, che talvolta accende un campanello di allarme sull’andamento dell’economia. La speranza è che Obama, essendo a capo dello stato che comunque continua a tenere le redini dell’economia mondiale, possa innescare un’inversione di tendenza.

  10. mirco

    Credo che quando si verificano crisi così profonde, occorre anche fare ricorso a teorie e concetti marxiani, dico marxiani e non marxisti perchè non è mia intenzione con queste mie parole sostenere soluzioni di tipo anticapitalistico, ma semplicemente analizzare il meccanismo capitalista e questo è stato fatto molto bene da Marx. Credo che oggi per tentare di sisolvere la crisi nel breve periodo è opportuno tornare ad attuare soluzioni keynesiane ove è possibile, per il lungo periodo occorre cominciare a studiare la funzione di produzione con un altro occhio, in cui il lavoro e il capitale siano visti e correlati con l’ambiente e le sostenibilità ambientale e sociale per cui l’obiettivo non deve essere sempre la massimizzazione del profitto. Il profitto come condizione necessaria, ma non sufficiente, soprattutto se massimizzato a scapito degli altri fattori, in quanto, se massimizzato, diventa distruttore del sistema stesso. Riallocare risorse fin da subito è importantissimo. Il commercio dell’acqua minerale, ad esempio, è assurdo e non si capisce perché si debba vendere acqua minerale delle isole fiji in un ristorante di Parigi.

  11. Gaetano Lo Mastro

    Non credo si potrà mai arrivare ad una teoria condivisa per quanto concerne l’economia. L’economia non è una scienza fisica. La realtà delle scienze fisiche si suppone data e costante, non varia rispetto al tempo né rispetto allo spazio. L’economia (come ogni sicenza sociale) ha a che fare con dati mutevoli che possono variare nel tempo e nello spazio. Una teoria economica può esser valida ed efficace in un dato contesto storico-geografico ed allo stesso tempo completamente inutile in un altro. Per questa ragione è possibile recuperare teorie che sembravano inutili, cosa che ovviamente non si può fare con la teoria tolemaica.

  12. Francesco

    Parzialità di vedute. Ecco perchè gli economisti hanno fallito sulla crisi. Certo, l’autocritica che si fa nell’articolo è già un primo passo per permettere alla categoria di salvare la faccia. Dubito però che alla fine di questa crisi chi avrà perso tutto (lavoro, casa, salute, soldi etc) vorrà ancora sentir parlare di "economisti". Economisti troppo spesso rinchiusi nelle università o seduti nei consigli di amministrazione che contano, oppure travestiti da portavoce dei più disparati gruppi d’interesse, per guardare con obiettività la realtà che li circonda. Ecco allora che, nel leggere la crisi, "i nostri" sembrano ignorare che, diciamo dagli anni ’70 assistiamo, su scala globale, ad una colossale concentrazione di capitali=ricchezza, in mano a pochi individui o entità (dicesi multinazionali) dal sapore vagamente oligopolistico che, se non sbaglio, contrasta con il modello tanto sbandierato, ma purtroppo inesistente, di concorrenza, democrazia, e crescita economica sana. Il tutto, naturalmente, si svolge con la benedizione della legge (e quindi della politica) studiata apposta per legittimare lo squilibrio. In questo contesto gli aiuti di stato servono solo a perpetrare il furto.

  13. Armando Pasquali

    Primo, non è vero che gli economisti non hanno previsto la crisi. Economisti progressisti (come il Cepr di Washington) o un liberale, ma attento alla realtà, come Maurice Allais, lo hanno fatto con anni di anticipo. Secondo, fra le cause della crisi Acemoglu non menziona l’enorme incremento delle disuguaglianze che si è prodotto negli Stati Uniti (e non solo) nell’ultimo quarto di secolo. I dati ci dicono che il salario del lavoratore mediano americano in questo periodo è rimasto costante in termini reali. Questo significa che metà dei lavoratori americani non solo non ha partecipato ai benefici della crescita economica, ma ha visto peggiorare la propria condizione. Astrarre da questa realtà, considerarla del tutto irrilevante e priva di effettualità non sorprende chi è avezzo agli schemi di pensiero dell’economia neoclassica. Alla luce di queste considerazioni, il discorso di Acemoglu rientra nei tanti, stanchi tentativi di giustificare il nuovo assetto neo-liberale, prospettando la pentola d’oro al termine dell’arcobaleno, la famosa crescita economica che sanerà tutti i problemi. Il miraggio della crescita, quindi, come ennesimo tentativo di rilanciare un sistema che ha fallito.

  14. emanuele

    La maggioranza degli economisti si è formata studiando la Matemematica Finanziaria, Smith e Marx e tutte le scuole di pensiero economico da loro derivate. Le due scuole di pensiero sono tarate nella loro genesi. Le due scuole di pensiero non tengono conto di due fondamentali pilastri scientifici: la Termodinamica e la Psicoanalisi. Questi economisti non hanno mai fatto propri questi pilastri (tranne qualche economista indipendente). Non hanno studiato in modo approfondito l’analisi d’impatto e quindi l’influenza di questi pensieri scientifici sui processi economici. La Termodinamica è la madre di tutte le leggi diceva Einstein e quindi viene prima del mercato e/o del modello economico di pianificazione socialista. La psicoanalisi ci spiega invece come evolvono le dinamiche delle relazioni interpersonali e del proprio Io. Quindi se non si riparte da questi pilastri fondamentali e si rimodella dalle fondamenta la Scienza Economica in funzione “di” e non escludendo a priori, si incorre sempre nell’errore di presunzione, ovvero la scienza economica come atto di “fede”. Gli atti di fede hanno sempre in grembo il “fondamentalismo”. Il senso del possesso, il senso del dominio.

  15. Lunobi

    Bisognerebbe cominciare a ragionare su una crescita stazionaria, invece di partire ottusamente col difendere l’accumulazione capitalistica. Disincentivare la crescita della popolazione, della produzione e dei consumi, per aumentare soltanto la qualità della vita. Che senso ha plagiare intere popolazioni di obesi per incentivare il consumo di merci totalmente inutili, di cui poi non si sa nemmeno comme smaltire i rifiuti? E’ un crimine contro l’umanità. Lasciateli dimagrire. Lasciateli andare a piedi invece di imporgli il mito dell’automobile che poi fa diventare asmatici i loro figli. Insomma è tutta la filosofia del consumo che è una bufala. Serve solo a moltiplicare il capitale investito. Ma lo fa a scapito dell’intera popolazione, dell’ambiente terrestre e infine dello stessi investitori, che certo non vivono da soli su Marte. Costoro sono solo accecati dall’avidità. Il capitale andrebbe tolto loro ed impiegato per migliorare la vita di tutti. Soprattutto per istruire ognuno sui principi etici ed estetici che permettono di vivere una vita felice, ignorando i consigli per gli acquisti.

  16. enrico lanzavecchia

    Nel leggere il titolo dell’articolo di acemoglu mi ero un po’ preoccupato: ho studiato economia, continuo ad interessarmene, non avevo avuto questa percezione di responsabilità per la mancata anticipazione della crisi. poi ho letto l’articolo e mi sono rasserenato, ci sono spunti critici condivisibili e una riflessione seria. infine ho letto i commenti: le teorie marxiane, la superiorità delle scienze fisiche (eh sì, basta parlare con due metereologi o chiedere una valutazione di impatto ambientale per un inceneritore per capire quanto siano "esatte"), la crisi ineluttabile del sistema, l’accumulazione di ricchezza nelle multinazionali e chi più ne ha più ne metta. lì mi sono tranquillizzato del tutto: l’economia serve ancora e molto, studiarla non assicura di prevedere tutte le crisi (per quanto quest’ultima fosse stata prevista da molti, anche se forse sottostimata negli impatti) ma evita quantomeno di sparare sciocchezze.

  17. adriano

    Prendiamo il recente manualone di Krugman, un Nobel non un pirlone qualsiasi (L’essenziale in economia, Zanichelli, 2008), che descrive come funziona un sistema economico: 1)Gli scambi generano benefici; 2)I mercati tendono all’equilibrio; 3)Le risorse dovrebbero essere utilizzate con la massima efficienza possibile, per realizzare gli obiettivi della società; 4)I mercati, di solito, sono efficienti; 5)Quando i mercati non sono efficienti, l’intervento pubblico può migliorare il benessere della società. Il punto 3) dice che l’efficienza è un obiettivo, il punto 4) che il mercato non è sinonimo di efficienza. Perché? Perché non è vero il punto 1): gli scambi generano benefici a pochi, non a tutti: solo a chi è privilegiato, chi ha più potere. La soluzione è la scelta democratica delle strategie
    e l’uso limitato del mercato, funzionale a quelle e non viceversa. Si chiama anche politica di piano. Piaccia o non piaccia.

  18. Antonio Aghilar

    Lo devo ammettere: affermazioni come quelle di Emanuele: "l’Economia non conosce la Termodinamica", sono forse il fulcro del discorso, che poi è il seguente: ma l’economics, in Italia, è davvero assurta al rango di scienza? E se è così, come mai c’è chi (pur interessandosene) non sa per esempio che le equazioni di diffusione del calore sono proprio la base della Teoria delle Opzioni o che la "Teoria dei Giochi" non solo permette di inglobare in un certo senso la "psicologia" degli agenti economici ma riesce addirittura ad indirizzarla nella misura in cui suggerisce a tutti i "giocatori" quale sarà la mossa dell’avvversario, ammesso che questo sia "razionale"…(e può essere usata per dirimere le controversie sindacali: da questo punto di vista la sua scarsissima diffusione ha dell’incredibile..). E si che la professione di "economista" in Italia non è assolutamente contemplata né dalla politica (che ne fa volentieri a meno, specie quando ne avrebbe più bisogno) nè dalla società civile. Ma che neanche la comunità scientifica abbia chiare quali grosse responsabilità ci siano nel "non far nulla" per cambiare questo grottesco stato di cose, mi pare il vero "sbaglio" degli economisti.

  19. Luciano

    Parafrasando, da questa crisi bisogna capire che l’economia è una cosa troppo seria per lasciarla in mano agli economisti. E questo vale soprattutto allorché gli economisti (non tutti, per fortuna) abbiano un così basso livello culturale complessivo e quando vi sia un’informazione finanziaria scadente, collusa e piena di conflitti d’interesse (soprattutto quella italiana).

  20. emanuele

    Ringrazio Antonio Aghilar per le puntuali osservazioni. La domanda secondo me che dobbiamo porre alla Scienza Economica e dunque agli studiosi "seri", di questa scienza e’ la seguente: quando saranno in grado, di stabilire il punto di rottura tra il paradigma Meccanicistico con quello Entropico? Frederick Soddy Nobel per la chimica nel 1921 affermava che il punto di rottura avviene nel momento in cui non si riesce a riconvertire il debito composto e quindi si entra violentemente in quello entropico (aumento della violenza, economia di guerra, aumento criminalità, inflazione a 3 cifre, fame e disoccupazione e annichililento delle risorse naturali) ovvero il caos. Soddy era un chimico e conosceva molto bene la Termodinamica.

  21. Antonio Aghilar

    Emanuele, vedi, la domanda che tu poni a proposito del "punto di rottura" tra la teoria "maccanicicstica" e quella entropica è, nel caso dell’economics, fuori bersaglio, in quanto la stragrande parte dell’armamentario teorico con cui su affrontano (almeno a livello di dibattito pubblico) le questioni economiche (specie in Italia) fa parte di un certo "neoclassicismo" che in Economia, è vero, ha dominato per anni ma solo nel dibattito pubblico, in quanto negli ambienti accademici il "neoclacissismo" è largamente minoritario… Del resto, oltre che le equazioni differenziali stocasitche (e quindi il c.d. "caos deterministico") l’economics avrebbe a disposizione anche la Teoria dei Giochi, che è strumento di formidabile potenza per la comprensione di gran parte dei meccanismi economici, al punto che viene utilizzata per la creazione di "mercati virtuali" in cui simulare il comportamento delle Borse valori…Insomma in Italia, per ciò che attiene alla considerazione dell’economia come scienza (e quindi come "piattaforma di lavoro") per le decisioni di poltica economica, siamo all’anno zero: ecco perchè stiamo messi così male…

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