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CREDITO ALLE IMPRESE: PERCHÉ IL PIATTO PIANGE

Il credito al settore produttivo è una risorsa assai scarsa in tutti i paesi, ma in Italia rischia di creare problemi ancora più gravi perché un tessuto di imprese medie e piccole non ha vere alternative ai canali tradizionali. Ma il credito alle imprese non tornerà ad affluire fino a quando le nuove regole non riusciranno a colmare l’attuale abisso di convenienza fra l’attività finanziaria sui titoli e la concessione di credito. Più si aspetta a vararle, più il problema diventa difficile da risolvere perché aumenta la forza contrattuale delle banche rispetto alla politica.

 

Il credito al settore produttivo è divenuto una risorsa terribilmente scarsa in tutti i paesi, ma in Italia rischia di creare problemi ancora più gravi perché un tessuto di imprese medie e piccole non ha altre vere alternative rispetto ai canali tradizionali. Invocare, come fa qualcuno, lo sviluppo di nuove forme di finanziamento (normalmente basate sul mercato di borsa) è una fuga in avanti, perché simili innovazioni strutturali richiedono tempi che non sono compatibili con l’urgenza dei problemi: non è molto diverso dal suggerimento di Maria Antonietta di dare brioches al popolo affamato. Ancora più pericolosa, è la deriva verso forme di controllo amministrativo che ci riporterebbero al concetto di “credito come pubblico servizio” che ha determinato danni incalcolabili in Italia, a cominciare dal dissesto dell’intero sistema bancario meridionale negli anni Novanta.

LA STRETTA CONTINUA

Il problema è comunque grave, si presenta in tutti i principali paesi ed è destinato a perdurare almeno fino al 2010. Ce lo dice in modo molto chiaro l’ultimo Global Financial Stability Report del Fondo monetario internazionale.
Il rapporto mette in evidenza che la contrazione del credito alle imprese a livello mondiale è violenta (assai meno in Italia, come vedremo) ma in paesi come il Regno Unito ha raggiunto addirittura il -7,9 per cento. L’"asfissia finanziaria" di cui aveva parlato Mario Draghi nelle sue Considerazioni finali di fine maggio, in alcuni paesi non solo è drammatica, ma non si sta affatto allentando. Il rapporto contiene anche un interessante esercizio econometrico, che stima la domanda futura di credito delle imprese e l’offerta relativa, in base alle condizioni attuali delle banche. Il risultato per il 2009 è un financing gap (cioè un eccesso di domanda rispetto all’offerta) di 460 miliardi di dollari per l’area dell’euro (grosso modo uguale a quello stimato per gli Stati Uniti) cui va aggiunto un impressionante 150 miliardi per il Regno Unito. Per il 2010 le stime non sono migliori: 240 miliardi per l’area dell’euro, ancora 150 per il Regno Unito e 90 miliardi per gli Stati Uniti. Rispetto al Pil, si tratta di cifre notevoli: per il biennio 2009-2010, 3 per cento per Eurolandia; 2,4 per gli Stati Uniti e addirittura 15 per cento per il Regno Unito. Naturalmente, si tratta di un dato ex ante, frutto di un puro esercizio econometrico, ma è più che sufficiente per indicare che il credit crunch è un problema ancora presente e che rischia di protrarsi nel tempo ben più del temuto.Secondo il Fondo, la causa fondamentale della carenza di offerta di credito va individuata nelle condizioni patrimoniali delle banche. In sintesi, si osserva che c’è stato un significativo rafforzamento del capitale (prima con aiuti pubblici, poi con operazioni di mercato), ma sui bilanci bancari incombono non una, bensì due spade di Damocle: le perdite non ancora registrate dei titoli “tossici” e le perdite sui crediti che diventeranno inesigibili per effetto della crisi. Le perdite totali sono stimate in circa 2.800 miliardi di dollari, su livelli analoghi alla stima di aprile, mentre quella complessiva si contrae da 4.000 miliardi a 3.400. Questa differenza dimostra che la componente relativa ai crediti normali sta crescendo in modo significativo e che il problema delle banche oggi non è più solo quello di smaltire gli eccessi della finanza speculativa, ma di fronteggiare il deterioramento del portafoglio crediti tradizionali dovuto alla grave caduta dell’attività produttiva e, in alcuni comparti come l’immobiliare commerciale, allo sgonfiamento della bolla del passato.
Il risultato netto è che a livello mondiale, i pur elevati profitti bancari previsti per i prossimi diciotto mesi risultano significativamente inferiori alle perdite che dovrebbero emergere: il capitale verrà quindi intaccato per 110 miliardi di dollari negli Stati Uniti (più o meno la cifra raccolta da quelle banche dopo il famoso stress test); per altrettanti in Eurolandia; per 30 nel Regno Unito e per 60 nei paesi scandinavi, di cui si parla meno ma che non navigano in buone acque.
Come afferma testualmente il rapporto, le banche di tutti i paesi hanno sì raggiunto un apprezzabile livello di stabilità (e, va aggiunto, ci mancherebbe altro, con tutti i sussidi a vario titolo che hanno ricevuto), ma “abbiamo di fronte ulteriori pressioni”, “dovrà proseguire il processo di ricostituzione del capitale” e “le banche con dotazione di capitale più forti e strutture di raccolta più stabili saranno in grado di offrire prestiti quando comincerà la ripresa dell’attività produttiva”.
La situazione in Italia è, si è detto, migliore rispetto ad altri paesi dell’area dell’euro, ma ciò non giustifica un ottimismo incondizionato. La caduta del credito è certo meno grave: a luglio si registrava ancora un +4,1 per cento rispetto a luglio 2008, ma allora il credito cresceva ancora a un tasso annuale del 17,3 per cento. La frenata è dunque molto forte rispetto allo scenario precedente e non c’è da stupirsi che in certi settori e per certe categorie di imprese, il credit crunch possa assumere contorni non migliori di quelli che si registrano in altri paesi europei.

LA LINEA DA NON SUPERARE

Il paradosso è che, da un punto di vista strettamente imprenditoriale (l’unico che conta nella logica di mercato con cui vogliamo continuare a ragionare) è razionale che le banche siano più prudenti di prima nel concedere credito o che lo facciano a tassi superiori: si badi che sul mercato internazionale lo spread dei titoli emessi dalle imprese sono doppi rispetto al periodo pre-crisi e qui le “perfide e avide” banche non c’entrano. Ed è razionale, ma assai fastidioso, che tutta la liquidità immessa nel sistema finisca per alimentare le operazioni finanziarie: il portafoglio titoli è cresciuto in Italia del 44 per cento, mentre le grandi banche mondiali hanno ripreso alla grande le operazioni sulla finanza speculativa.
È dunque comprensibile che ovunque si stiano cercando strumenti, anche eccezionali, per assicurare a famiglie e imprese le risorse necessarie: dagli impegni assunti dalle banche che hanno ricevuto sussidi statali a non far diminuire la consistenza del credito a famiglie e imprese, ai “protocolli di intenti” firmati dalle banche, alle iniziative di vario tipo previste dal governo italiano, come gli osservatori dei prefetti; la moratoria dei crediti; gli impegni collegati ai Tremonti bond.
C’è tuttavia una linea di principio che non deve essere varcata: quello dell’ingerenza amministrativa nell’allocazione del credito, che è e deve rimanere esclusiva competenza, e responsabilità, della libertà imprenditoriale della banca. È stata una grande conquista della riforma conclusasi nel 1993 con l’emanazione del Testo unico bancario e neppure la crisi finanziaria può offrire motivi sufficienti per tornare indietro.
Come ha affermato Mario Draghi fin dal marzo scorso in un’audizione parlamentare “è essenziale che l’analisi delle condizioni del credito a livello locale non sconfini in un ruolo di pressione sulle banche che spinga ad allentare il rispetto di criteri di sana e prudente gestione nella selezione della clientela. Ritengo che debbano essere evitate interferenze politico-amministrative nelle valutazioni del merito di credito di singoli casi. Il credito è e deve restare attività imprenditoriale, basata su un prudente apprezzamento professionale della validità dei progetti aziendali”.(1)
Draghi ha anche indicato la possibilità di usare le garanzie pubbliche come misura di policy utile a risolvere il problema del credit crunch. La proposta appare oltre che interessante sul piano tecnico, anche equa dal punto di vista politico. Come il sistema bancario mondiale è stato salvato dal disastro perché i governi sono prontamente intervenuti con ogni possibile forma di sostegno, compreso garanzie in bianco alle passività delle banche, così oggi è opportuno adottare misure a sostegno dell’attività produttiva.
È possibile, come suggerito dal governatore e dal presidente di Confindustria pensare a garanzie pubbliche che servano a far partire una securitisation “virtuosa” a favore delle piccole e medie imprese. Le banche dovrebbero ovviamente tenere nei loro portafogli una quota mantenendo così l’incentivo a selezionare prenditori meritevoli e fornendo una garanzia implicita al mercato. 
Sui titoli senior, cioè quelli con il rating più alto, potrebbe essere prevista una garanzia pubblica (per questa, nella proposta di Draghi la banca dovrebbe corrispondere una remunerazione commisurata alla qualità dei crediti sottostanti). Limitando la garanzia pubblica alla quota meno rischiosa del pool dei prestiti cartolarizzati si evita – ribadisce Draghi – di addossare allo Stato un ruolo inappropriato nella valutazione del merito di credito. Se le banche sono in grado di collocare parte dei propri crediti su un mercato secondario attivo e liquido, possono utilizzare la liquidità ottenuta per riattivare l’offerta di credito.
Insomma, il credito alle imprese non tornerà ad affluire fino a quando le nuove regole non riusciranno a colmare l’abisso di convenienza che adesso esiste fra l’attività finanziaria sui titoli e la concessione di credito alle imprese e fintanto che le ferite profonde del sistema bancario internazionale non saranno rimarginate. Più si aspetta a varare queste regole, più il problema diventa difficile da risolvere perché aumenta la forza contrattuale delle banche rispetto alla politica.
Tutti i politici hanno usato nei giorni scorsi parole di fuoco nei confronti dei banchieri, accusandoli di un’autentica degenerazione verso la speculazione. Ma questa degenerazione è un frutto di un quadro normativo che deve essere cambiato. Timothy Geithner ha affermato che le regole le scrivono i politici, non i banchieri. È ora di passare dalle parole ai fatti. Altrimenti i politici fanno la figura di Woody Allen in questo dialogo di “La dea dell’amore”: “Papà, chi comanda fra te e la mamma?” “Chi comanda? E me lo devi chiedere? Io comando. La mamma prende solo le decisioni. C’è una grande differenza: lei dice quello che dobbiamo fare, ma io ho il telecomando quando guardiamo la Tv”. (2)

(1) Mario Draghi. Audizione alla VI Commissione della Camera dei Deputati (Indagine conoscitiva sulle tematiche relative al sistema bancario e finanziario), Roma 17 marzo 2009.
(2) Mia traduzione del dialogo originale di “Mighty Aphrodite”, 1988.

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DUE GRADI D’ILLUSIONE

  1. Franco Benoffi Gambarova

    Caro Professore. i Suoi articoli (come il Suo ultimo libro) lasciano pochi spazi ai commenti, salvo quello molto banale che si può sintetizzare in sono d’accordo. Purtroppo sparare sulle banche italiane (e non su quelle amerciane che hanno creato la finanza tossica) è uno sport nazionale, fomentato anche da alcuni politici, più o meno illustri, più o mano "colbert domestici" (il pagarone infelice è di Riotta, non mio). Posso fare un sogno? VederLa un giorno Ministro dell’Economia in un governo di tecnici veri. Grazie per la Sua opera di divulgazione. Franco Benoffi Gambarova

  2. Carmine Meoli

    Non ho elementi per contraddire analisi che hanno il pregio di essere basate su dati. Ho però sentito che le Banche riporteranno flessioni di notevole enitità nei margini dell’anno 2009 per la eliminazione della commisione di massimo scoperto ma anche per la difficoltà a mantenere un decente livello degli impieghi ! Non dubito che vi siano clienti a corto di liquidità , ma se a corto di ricavi avrebbero bisogno di capitale e non di incrementare gli scoperti a breve.

  3. favaro gianfranco

    Ritengo maturo il tempo per un intervento strutturale che porti il nostro sistema imprenditoriale al pari delle altre imprese europee, intervenendo giuridicamente e con strumenti adeguati sui tempi di pagamento delle imprese ai sub fornitori. Pochi ma significativi interventi: a) rendere prescittiva e non derogabile la norma sulla sub fornitura che prevede il pagamento entro 60 giorni. delle forniture; diritto al riconoscimento degli interessi attivi sui ritardati pagmaneti e allungamento della prescrizione del riconsoscimento del dirittto a 15 anni; b) Modifica della legge fallimentare introducendo una responsabilità partimoniale dei clienti che non hanno pagato i propri sub fornitori nei termini stabiliti dalla norma e diritto al riconoscimento degli interessi non corrisposti sul ritardati pagamenti; c) obblogo sanzionato in nota integrativa di indicare l’ammontare dei debiti vs. sub f0ornitori scaduti e valutazione del rischi connesso ai danni paprtimoniali in caso di fallimento del fornitore; d) diritto a cartolarizzare il debito scaduto da parte del sub fornitore al mcc; e) medesimi didritti per i crediti verso la pubblica amministrazione.

  4. luigi zoppoli

    Non c’è dubbio che le cose stiano come l’articolo racconta. In Italia sembra di assistere al gioco delle parti con gli attacchi alle banche il cui più incisivo risultato è stato la Robin tax lasciando immutato un mercato che assomiglia tanto all’isola che non c’è di Peter Pan. Senza dimenticare la trovata del monitoraggio affidato ai predetti. Credo che l’introduzione di element di concorrenza e di libero mercato del credito, avrebbero effetti anche sulle politiche degli istituti. Sul territorio si avverte insufficiente la capacità delle banche ad esercitare adeguatamente le analisi e le valutazioni del merito creditizio. E le corse ai salvataggi di Zaleski piuttosto che di Zunino ne son la plateale dimostrazione.

  5. lanfranco turci

    Dal testo del prof.Onado non si capisce bene se l’origine del credit crunch sia più da attribuire alla" sana e prudente gestione" delle banche di fronte al rischio di fallimento dei propri clienti o invece alla perversa convenienza a investire in titoli piuttosto che dare credito ai clienti,date le regole ancora vigenti. Se alla base ci sta la sfiducia sulla tenuta delle imprese(ovviamente le pmi!) perchè le banche dovrebbero essere indotte a dare più prestiti dalla securitisation virtuosa proposta da Onado? A meno che il problema non sia un carenza di liquidità, ma non pare. Infine se il credit crunch a livello mondiale ha la dimensione valutata dal FMI, non si dovrebbe pensare a misure statali eccezionali del tipo di quelle effettuate a favore delle banche nell’anno passato?

  6. petrin franco

    L’accesso al credito per la piccola impresa è sempre stato problematico e difficile,normalmente non solo nei momenti di difficoltà del sistema. più che sulla capacità di restituzione si è e si continua a guardare alle garanzie. Timidamente si è pensato nel tempo a forme di intervento diverse, che guardassero anche alla capacità imprenditoriale dell’individuo-impresa. Un ruolo importante di cooperazione-mediazione era svolto dalle organizzazioni imprenditoriali artigiane in sinergia con banche e consorzi fidi. Poi tutto è cambiato; L’associazione ha perso ogni possibilità di intervento,i consorzi fidi, stracarichi di denaro pubblico a fondo garanzia si sono messi a fare le veci delle banche rendendo l’accesso al credito più blindato delle banche stesse,avendo nel contempo ridotto il rischio dall’80% al 50%. Sono diventati carozzoni impenetrabili di cui non si conosce più il ruolo ed il loro senso in questo contesto. Perché non si parla di loro? Perché non liberano le risirse che hanno riprestinado la garanzia all’80% in un momento così difficile?

  7. Franco Cruciani

    Il peso che hanno le PMI in Italia, sotto il profilo economico e sociale, non ha paragoni in nessun altro paese dell’Occidente e dunque gli effetti che l’attuale credit crunch ha su questo comparto dovrebbero essere attentamente valutati ed affrontati con misure urgenti ed adeguate. La storica sottocapitalizzazione riduce drasticamente la capacità di tenuta in periodi di crisi portando a livelli intollerabili l’indebitamento bancario, soprattutto a breve. Per queste ragioni ritengo urgente e necessaria una misura di consolidamento che potrebbe giovarsi della garanzia dei confidi e della controgaranzia pubblica, come previsto dalla Direttiva di recepimento dell’Accordo di Basilea 2. Altrettanto urgente, come suggerisce giustamente il Prof. Onado, è il varo di un nuovo complesso di regole che riequilibri il rapporto di convenienza tra l’attività finanziaria e quella creditizia. Aggiungerei che la revisione normativa dovrebbe riguardare la complessiva attività delle società di rating che si stanno sempre più defilando dalle loro responsabilità sulla crisi finanziaria. La politica si muove oppure aspettiamo la fase 2 di una tempesta che potrebbe travolgerci?

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