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I DOVERI DI FIAT E QUELLI DELLO STATO

La vicenda Fiat rappresenta una cartina di tornasole della capacità del paese di mantenere sul territorio italiano il quartier generale, e una parte sostanziale della produzione, di una multinazionale nata e cresciuta in Italia. Se invece di lavorare a un progetto di ampio respiro si continuerà a invocare la responsabilità sociale e ad addossare alle imprese oneri che sono di competenza dello Stato, senza neppure fornire una controparte infrastrutturale e istituzionale adeguata, a quella di Termini seguiranno altre chiusure.

 

L’argomentazione tipica nel dibattito sul destino del polo industriale della Fiat a Termini Imerese è che l’azienda di Sergio Marchionne ha ricevuto tanti soldi dallo Stato e quindi ha il dovere di perseguire fini “sociali” e, in particolare, di tenere aperto uno stabilimento che produce in perdita. È una logica sbagliata, che può portare solo a sprecare altri soldi pubblici e a mettere il piombo nelle ali di una delle poche imprese italiane che sta tentando di competere sul mercato internazionale in uno dei settori più difficili.
Purtroppo, è la logica preferita dalle parti sociali e in particolare dal governo nella gestione delle crisi. È la stessa logica con cui è stata affrontata la crisi Alitalia. Si chiede all’impresa o agli imprenditori di mostrare “coscienza sociale”, facendo scelte antieconomiche in episodi di crisi industriale; la politica promette implicitamente compensazioni su altri tavoli, utilizzando bastone e carota secondo la bisogna. È l’approccio che detta la linea nel caso di Termini Imerese: utilizzare gli incentivi per ricondurre Fiat a più miti consigli.

AUTO, UNA QUESTIONE EUROPEA

Ragionare in termini di “doveri morali” di Fiat genera solo confusione e non aiuta ad affrontare il problema. Se ci sono contratti d’area o di programma che riguardano Termini Imerese rispetto ai quali Fiat è inadempiente con la chiusura dello stabilimento, vanno fatti valere. In caso contrario, bisogna cambiare approccio. La questione degli incentivi e quella dell’insediamento produttivo siciliano vanno affrontate separatamente, in modo trasparente e senza accordi sotto banco. Marchionne ha segnalato chiaramente di non voler sottostare alla logica di “contratti impliciti” e doveri morali non meglio specificati. La decisione irrevocabile di chiudere l’impianto di Termini Imerese va letta in questo senso: brucia i ponti nella trattativa col Governo rispetto alla possibilità di scambi trasversali. La dichiarazione di “agnosticità” rispetto al rinnovo degli incentivi è l’inevitabile conseguenza di questa scelta e segnala che la dirigenza Fiat non è disposta ad accettare ingerenze nelle scelte strategiche in cambio di sussidi. Sarà interessante vedere se questa linea di condotta sarà mantenuta nel caso il governo non rinnovi gli incentivi.
Il problema degli incentivi riguarda il riassetto del settore a livello europeo (e mondiale). Andrebbe affrontato all’interno di una più generale politica europea di settore. Dato che il problema è la sovraccapacità produttiva, incentivi alla rottamazione possono solo rimandare una ristrutturazione dolorosa. Inoltre, data la criticità delle finanze pubbliche dei paesi europei, l’eliminazione o quanto meno una riduzione veloce degli incentivi sono la strategia preferibile. Ma va concordata fra i paesi produttori per evitare distorsioni alla competizione in un momento cruciale per il riassetto del settore. Tutti sembrano essere d’accordo sull’auspicabilità di una gestione europea del settore, ma nessuno sembra fare niente in questa direzione.

UN FALLIMENTO DA ANALIZZARE

Termini Imerese rientra nel più generale approccio alla gestione delle crisi industriali, particolarmente importante in questa fase. Come ho già sostenuto su lavoce.info , uno dei problemi dell’economia italiana è la difficoltà ad allocare efficientemente i fattori produttivi. Mantenere in vita artificialmente realtà produttive decotte è il modo più semplice per gestire emergenze sociali nel breve periodo. Tuttavia, se non si risolvono le questioni alla radice della crisi aziendale, il problema è solo posticipato, spesso a caro prezzo. Nel lungo periodo, si inibisce il processo di riallocazione e si condanna il sistema a una bassa produttività. Piuttosto che gestire le crisi caso per caso senza un approccio generale, serve un sistema di ammortizzatori che riduca i costi sociali e faciliti la transizione dei lavoratori da impieghi a bassa produttività ad altri a più alto valore aggiunto. Nel caso specifico di Termini Imerese, la crisi è aggravata dal fatto che riguarda un’area in cui il lavoro scarseggia. La politica economica si dovrebbe preoccupare di dare una prospettiva di sviluppo a quell’area industriale. Nella miglior tradizione della creatività italiana, le proposte sembrano non mancare. Manca invece un’anali precisa delle ragioni del fallimento del progetto auto, necessaria per capire come impostare una politica di riqualificazione dell’area. L’impianto di Termini Imerese soffre di problemi di scala, di mancanza di un indotto adeguato e di logistica. Mentre la scala ottimale dipende dal tipo di attività, indotto e logistica sono aspetti che riguardano qualunque produzione industriale: se non si affrontano e si risolvono questi aspetti non c’è progetto fantasioso che tenga. Perché non si è generato un tessuto produttivo locale sufficientemente robusto? È un problema di legalità? Di capacità imprenditoriali? Di finanza? E perché è così costoso trasportare merci da e per Termini Imerese? Ci sono responsabilità delle autorità locali in termini di infrastrutture mancanti? Senza risposte chiare a queste domande le discussioni sul futuro di Termini sono chiacchiere che preparano un nuovo fallimento. Sarebbe importante che il ministero per lo Sviluppo economico commissionasse un rapporto sulle cause del fallimento dell’insediamento produttivo rispetto a esperienze analoghe che hanno funzionato. I vertici Fiat hanno sicuramente un’idea precisa del perché produrre un’automobile in Sicilia costi mille euro in più che in altre parti d’Italia. Anche le autorità locali, i lavoratori e i sindacati hanno molte informazioni su cosa non funzioni. Il rapporto dovrebbe essere commissionato ad un’autorità terza indipendente, in grado di individuare i problemi ed eventualmente i responsabili. I tempi dovrebbero essere brevissimi, entro fine febbraio, in modo da dare un contenuto concreto agli incontri previsti sul futuro dell’area a inizio marzo. Progetti seri e che non ripetano gli errori del passato sono prima di tutto un dovere nei confronti delle migliaia di lavoratori che vedono a rischio il loro futuro, la cui angoscia cresce di pari passo all’incertezza e alla confusione che circonda la gestione della crisi.
Iniziano a circolare richieste alla famiglia Agnelli di fare un passo avanti nella gestione di Fiat a spese di Marchionne, troppo rigido nella trattativa sul futuro dei siti produttivi italiani. Mentre a parole si critica il flusso di soldi pubblici dati in passato a Fiat, nei fatti si rimpiangono i tempi in cui questi soldi garantivano un atteggiamento morbido da parte della dirigenza della casa torinese in termini di “responsabilità sociale”. Ah, i bei tempi dei contratti impliciti! Quel modello, oltre a costare caro al contribuente, aveva portato Fiat sull’orlo del fallimento. Oggi, la vicenda rappresenta una cartina di tornasole della capacità del paese di mantenere sul territorio italiano il quartier generale, e una parte sostanziale della produzione, di una multinazionale nata e cresciuta in Italia: non si vive solo di piccole e medie imprese. Se invece di lavorare a un progetto di ampio respiro si continuerà a invocare la responsabilità sociale, a proporre scambi sottobanco e ad addossare alle imprese oneri che sono di competenza dello Stato, senza neppure fornire una controparte infrastrutturale e istituzionale adeguata, alla chiusura di Termini ne seguiranno altre. Il campanello d’allarme suona forte e chiaro: diverse multinazionali stanno annunciando la chiusura di impianti. Anche Fiat si è preparata una exit strategy dal paese evidente a tutti, a parte, sembrerebbe, ai responsabili di questa partita.

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19 commenti

  1. navida79

    Sono siciliano, ho un amico ingegnere che ha lavorato per tanti anni alla Fiat di Torino e che poi è stato trasferito alla Fiat di Termini Imerese, parlando della crisi una volta mi disse: "quando ero a Torino se dicevo di fare una cosa veniva fatta in 3 giorni, a Termini la stessa cosa viene fatta in 8 giorni" secondo me questa è la sintesi di tutto.

  2. Yossarian

    L’atteggiamento del Governo nella trattativa su Termini mi è parso dilettantistico. Scajola non ha una strategia di gioco e Marchionne lo ha sopraffatto. Ora il ministro fa il duro dicendo che non concederà incentivi e Il Canadese se la ride. Fiat non ha modelli nuovi, e gli incentivi andrebbero alla concorrenza. Entro un anno dirà che la Panda destinata a Pomigliano non vende più (è un modello vecchio 10 anni), poi annuncerà la chiusura anche di quello stabilimento. In Italia i politici sono impreparati o non interessati alle scelte strategiche, ma ai proclami elettorali. Mantenere il monopolio industriale Fiat sul territorio? Sciocco, perché la si condanna a sostenere da sola l’indotto. (Termini va venduta). Centrali nucleari per abbassare il costo dell’energia? Sbagliato, perché forniscono potenza di base in un mercato energetico basato sulla marginalità (prezzo dettato dall’offerta più alta). Il Meridione ha bisogno di tre cose:infrastrutture (autostrade, ferrovie), promozione turistica (i tedeschi vanno in vacanza in Croazia), produzioni ad alto valore aggiunto (informatica,energia rinnovabile).

  3. Domenico Fanelli

    Le colpe sono sia dello Stato che della Fiat. Una responsabilità sociale la Fiat (così come ogni altra impresa) la ha nei confronti dei suoi dipendenti, dato che dopo che verranno licenziati avranno una famiglia da sfamare, così come anche lo Stato ha una responsabilità sociale nei confronti dei cittadini-lavoratori di Termini. Il fatto è semplicemente che ognuno non si prende le proprie responsabilità: la Fiat non si è presa le proprie responsabilità nel saper gestire efficientemente lo stabilimento di Termini e lo Stato nel dare probabilmente quelle condizioni necessarie per raggiungere quell’obiettivo. Detto questo, la Fiat già da un pò di tempo produce in Polonia per sfruttare un vantaggio in termini di costi del lavoro, dove i lavoratori costano molto meno. Allora mi viene da pensare: esseri competitivi vuol dire produrre dove il costo del lavoro è più basso?! Con la globalizzazione, le più grandi multinazionali hanno delocalizzato dove il costo del lavoro è più basso alla ricerca del profitto "facile", una volta che il vantaggio sparisce, se ne vanno e si spostano in altri territori. Questo è semplicemente inaccettabile!

  4. stefano lalatta

    Lavorando da anni con la mia società nel campo delle re-industrializzazioni (dare continuità ad uno stabilimento che ha perso competitività e destinato a chiusura, tipo Termini Imerse), trovo il tema attualissimo. Vorrei però segnalare che gli attori sono 3: – L’azienda che deve fare la sua parte, a prescindere da quello che ha ricevuto. Se vuole uscire da uno stabilimento, non può pensare che sia a costo zero: ci sono temi ambientali, temi occupazionali ecc, ecc – Le istituzioni (ministero, regione, provincia e comune) che devono, ognuni al proprio livello, promuovere e incentivare un rilancio di uno stabilimento che "non sta più in piedi" (senza addossare colpe ad uno o all’altro) – Il sindacato che deve capire che "chiudere" non è un tabù, e che se c’è una prospettiva di rilancio, può essere fatta anche in altri settori (più moderni e promettenti). Non è necessario che si continui a fare macchine (vedi Arese…). Se i tre soggetti dialogano e lavorano nella stessa direzione, il futuro dei lavoratori può essere più rassicurante di quello che non è oggi, come abbiamo sperimentato in oltre 40 casi di reindustrializzazione gestiti in Italia e all’estero.

  5. Franco Benoffi Gambarova

    Condivido in buona parte quanto scrive Schivardi. Sopratutto là dove accenna alla inesistenza di una capacità politica europea. Giudico invece troppo dolci i termini usati nei confronti del Governo italiano: quello di questi giorni è uno spettacolo indecente recitato da attori incapaci e orientati solo a fare del populismo. Io li definisco "quelli delle carriole" da quando, nel luglio scorso, inserirono nella Tremonti-ter le carriole e non gli autocarri che sono mezzi di lavoro importanti per l’industria manifatturiera ed essenziali per gli autotrasportatori. Sia comunque benvenuta la Vostra voce per tentare di richiamare all’ordine i dilettanti che ci governano. Franco Benoffi Gambarova

  6. Piccolo Vincenzo

    L’articolo del Prof. Schivardi è formalmente ineccepibile, basato com’è su una conoscenza economica dai parametri e modelli ben definiti. Vorrei fare alcune considerazioni "terra terra" non avendo le conoscenze per evidenziare altri eventuali parametri e/o modelli. Sono un industriale e produco un qualunque manufatto. Per restare nel Mercato, me ne vado dove il costo della manodopera è molto conveniente, abbandonando il paese dove operavo precedentemente creando disagi, proteste e discussioni. Da queste ultime emerge che bisogna recuperare produttività, che bisogna puntare sulla qualità ecc. E’ possibile, ammettendo che si riesca ad operare in maniera ottimale, recuperare il gap derivante dalla differenza degli stipendi nei due paesi in questione (almeno 1200 euro per una famiglia occidentale, 100-150 euro per "scialare" in alcuni paesi emergenti)? Se i nostri prodotti presentano una qualità più elevata costeranno di più e dovrebbero vincere la concorrenza degli altri con un consumatore che tende al risparmio perchè ha perso il lavoro o ha, comunque, paura del futuro.

  7. g.c.

    Penso che quanto riferito da navida79 sia un problema per lo più orgnaizzativo interno all’azienda. Chiudere uno stabilimento perchè all’interno ci sono delle inefficienze mi sembra un’ipotesi un po’ azzardata. Ad ogni modo credo che la FIAT nel ritenersi una multinazionale matura, deve farsi carico dei costi sociali indotti da un eventuale dismissione siciliana, nel senso più specificatamente di "programma di uscita", prima ancora del Governo e dei Sindacati.

  8. Disperato

    Sono personalmente in sintonia con il complesso delle considerazioni del redattore e sottoscrivo anche le riflessioni dei lettori sin qui arrivate, in particolare con il Yossarian. Resta la consueta evidenza che, si condividano o meno le ragioni di Fiat, quello che è mancato e manca clamorosamente è la classe dirigente, locale (forse la regione Sicilia invece di creare posti pubblici a ufo e distribuire clientele generando il buco di bilancio mostruoso che sappiamo avrebbe dovuto occuparsi di problemi come questo) e nazionale (gli atteggiamenti di Scajola e compagnia sono semplicemente disarmanti). Ma si sa, contano solo le elezioni e i populismi di efficacia immediata. Un requiem per il nostro Paese.

  9. Sara Guerra

    Ma siamo sicuri che stiamo andando verso chiusure, disoccupazione, fallimento aziende dell’indotto e altre apocalissi? Non e’ che c’e’ un compratore che finalmente riesce a mettere piede in Italia e sfruttare i vantaggi dell’acquisto di uno stabilimento a rischio chiusura (mobilita’ e altre norme speciali che saranno all’uopo coniate)? Non sono un’esperta in materia ma mi pare che la Fiat giochi a fare l’azienda parastatale quando le fa comodo e l’azienda di libero mercato quando le fa comodo altrimenti. Si dovrebbe valutare quanto costa allo Stato. Saluti!

  10. Luigi

    Divampa la polemica tra il ministro Claudio Scaiola e l’amministratore delegato di Fiat Sergio Marchionne sulla ventilata ipotesi di chiusura degli stabilimenti di Termini Imerese. Se ho ben capito la chiusura trarrebbe origine dal fatto che su ogni vettura prodotta graverebbero circa 1000 Euro di costi indiretti dovuti a carenza di pubbliche infrastrutture nel territorio interessato. Ma il fatto che ci siano delle carenze infrastrutturali era noto fin da quando Fiat ha deciso di investire nel Sud percependo dallo Stato, proprio per la situazione particolare, fior di incentivi. A questo proposito, leggo nel bel libro di Massimo Mucchetti “Licenziare i padroni?”: “Nell’ultimo decennio, il sostegno pubblico alla Fiat è stato ingente, pari a 6059 miliardi di lire, contributi in conto capitale e in conto interessi ricevuti a titolo di incentivi per gli investimenti nel Mezzogiorno. Per la Sata e la Fma. si può stimare un risparmio di imposte dell’ordine dei 600 miliardi di lire. La legge 488 per il Mezzogiorno che dal 1996 al 2000 ha fatto affluire nelle casse del gruppo 328 miliardi di lire in conto capitale..” e così via. Come si vede il Paese è stato molto generoso!

  11. Coluzzi Marco

    La vicenda Fiat, come altre vicende industriali e non solo, sono soltanto il frutto di un assistenzialismo spregiudicato adottato ormai da anni dalla politica italiana (che pensa solamente agli interessi propri e non ha quelli del paese). Purtroppo i nostri politici sono convinti del fatto che per governare serva l’assistezialismo, perché poi si traduce in consenso elettorale. Sta di fatto che le vicende della Fiat, dell’Alcoa ed altre realta industriali non possono essere trattate come ad altre vicende publiche come la sanita’, rifiuti, ecc., dove ci si mette d’accordo tra partiti per spartirsi le fette della torta! Le industrie italiane hanno bisogno di innovazione, ricerca, di infrastrutture che funzionino per sviluppare il commercio. Per questo motivo la politica cominci a distinguere tra politica dei partiti (assistenzialismo) e politica del governo (saper governare un paese nel bene del paese e dei suoi cittadini), per capirci, con questo tipo di politica non riusciremo mai a venire a capo di qualsiasi vicenda sia di carattere economico che infrastrutturale. L’unica cosa che la politica ha saputo fare bene negli ultimi anni e’ la difesa delle proprie poltrone.

  12. lotarino

    E forse arrivato il momento che l’Italia si liberi progressivamente di Fiat, si sospendano per sempre tutti, ma prorio tutti gli “aiutini”, e si concentrino risorse e sforzi per favorire riqualificazioni industriali credibili e sostenibili per i siti coinvolti. http://www.loccidentale.it/articolo/fiat,+facciamola+finita+e+togliamoci+questo+peso+prima+e+meglio+possibile.0085998

  13. moreno

    Al di là della singola importante vicenda di Termini I.,ciò che si verifica ormai in tante realtà del nostro Paese è la continua emorragia di produzioni più o meno mature e /o strategiche verso Paesi con leggi e trattamenti che configurano dumping sia economici che sociali; per non parlare di quelli ambientali. Finanto che la politica ha potuto agevolare e scambiare favori contro occupazione non si vedeva il gap competitivo del nostro sistema-Paese,ma le attuali crisi e il ritardo accumulato nel giocare su mercati aperti, rivela la fragilità dei nostri modelli di proprietà e di politica industriale. Il vecchio modello è improponibile, il nuovo corso avrà un costo sociale via via crescente (e lo vediamo nella condizione di tanti giovani),anche il nostro welfare è troppo spostato su ceti già garantiti in passato (pensionati)…è difficile oggi, se non con un salto tecnologico e con competenze nuove e innovative, frenare questa emorragia di posti di lavoro e di opportunità. Anche le regole dei mercati internazionali vanno adeguate alla nuova realtà globale in una visione più ampia del solo calcolo costi/benefici.

  14. Giuseppe Spazzafumo

    Condivido abbastanza l’articolo, ma non il paragone con Alitalia. Non conosco imprenditori che ci abbiano rimesso: conosco cittadini che ci hanno rimesso. Comunque, tornando a Fiat, Scajola ha detto che chiude il rubinetto. Niente più rottamazioni. Incentivi indirizzati verso altri settori. Mi sembra corretto, non è giusto sostenere sempre e soltanto un settore industriale. Però, per completare la buona notizia, il governo dovrebbe cambiare metodo. Entrare nelle aziende in crisi mediante un aumento di capitale e, dopo aver superato la crisi, rivendere le proprie quote e passare al sostegno di altre aziende e pensare a risanare il debito pubblico. Altrimenti si continua ad aiutare le aziende a scapito del debito pubblico e cioè di tutti noi. Magari vantandosi pure di aver ridotto le tasse …..

  15. GINOLINO72

    In questo articolo se ne parla dettagliatamente.

  16. rosario nicoletti

    Condivido pienamente il contenuto dell’articolo. Vorrei sottolineare, ove necessario, la parte che riguarda l’analisi sull’inefficienza di Termini. Non ho letto nessun articolo che riporti una ragionevole analisi. Non sappiamo così perché non funziona Termini, l’Alitalia, l’Alcoa e tutte le aziende assistite con meccanismi vari o sparite negli ultimi anni. Mi ha colpito il contributo del siciliano che si firma con pseudonimo, citando una esperienza, a lui riportata, sulla inaffidabilità dei lavoratori. Se questo fosse vero, dovrebbero farsi carico del problema per primi i sindacati.

  17. Maurizio

    Credo che la vicenda della Fiat, si stia replicando per molte aziende medio piccole. Il mercato va male, l’imprenditore ha "fatto i soldi" negli anni passati, ora non si vuole scontrare con condizioni peggiori come concorrenza estera, la lira che non si può svalutare, una domanda asfittica, e quindi decide di chiudere o delocalizzare fuori. A questo punto lo Stato che fa? Cerca di dare la cassa integrazione a chi può, perchè con tutti questi licenziamenti, l’aria sta diventando tesa: intere aree con fior fiore di aziende si stanno popolando di persone in CIG o al massimo di precari. Lo Stato credo sia quindi ricattabile e ricattato dall’imprenditore: quando le cose andavano bene c’era l’azienda privata e il libero mercato, quando vanno male ci vuole lo Stato. Questo no, non mi sta bene, anche perchè chi ne paga le conseguenze sono i lavotratori, usati come scudo umano.

  18. Giorgio Zanutta

    Il problema auto in Italia probabilmente ha origini lontane, dalla riduzione a un unico produttore che ha trovato, essendo il più consistente, adeguato uditorio nell’inquilino di turno del palazzo. Questo ha finito con il diminuire sia la concorrenza che la ricerca finendo con il rendere debole l’offerta nostrana di autoveicoli sia per il mercato interno che internazionale con le logiche conseguenze della fibrillazione a ogni leggero alito di crisi. Ora pensare che un’industria che non può e non si è mai assunta oneri di assistenza sociale debba farlo è un pò assurdo, è più facile che tale impresa debba cercare alternative alla produzione sul nostro territorio che, come sta facendo, interessano altri scacchieri nella loggica di mercato, per cui sembra evidente un futuro italiano senza l’automobile, indipendentemente dal tipo di funzioni scaramantiche che verranno messe in atto!

  19. ulisse

    Frodi brevettali. La tecnologia ibrida doppia frizione con motore elettrico nel mezzo è stata “mutuata” da un brevetto che la Fiat non ha mai voluto acquistare, ma soltanto spudoratamente copiare. Invito e visitare il mio blog dove “vitalità” e disinvoltura dei progettisti Fiat appaiono in piena evidenza: Chiunque abbia a cuore una onesta etica industriale in difesa della proprietà intellettuale conosca la storia raccontata nel mio blog. Se le industrie possono permettersi impunemente di copiare le idee, in quanto per difenderle occorrono cause costosissime, a cosa servono i brevetti? Come possono i nostri giovani trovare coraggio intellettuale se i potentati economici schiacciano i diritti dei singoli? Se vi accingete a richiedere un brevetto oppure proporlo ad un’azienda, la mia esperienza con la Fiat può esservi utile per muovervi con migliore circospezione. Ulisse Di Bartolomei

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