Iacopo Viciani tratta la vexata quaestio dell’efficacia, o meno, dell’aiuto pubblico allo sviluppo con passione ed evidente capacità professionale, evidenziando giustamente come il dibattito sull’efficacia degli aiuti sia spesso molto ideologizzato e come oramai sia molto numerosa la corrente di pensiero, cui appartengo, che considera gli aiuti inutili, se non dannosi.
Sull’efficacia degli aiuti si può discutere per anni: per coloro che sono interessati alla questione e vogliono cominciare ad interessarsene, Easterly-Pfutze (2008) hanno recentemente scritto un articolo che mi sembra affronti in modo molto rigoroso la questione dell’efficacia degli aiuti.
Qui voglio invece mettere in luce un altro aspetto che emerge dall’articolo di Viciani: la nascita di una vera e propria industria, o filiera, dell’aiuto pubblico (e privato). Mi spiego: in passato e semplificando, ma neanche troppo, gli aiuti o erano tied aid (cioè, erano un sussidio più o meno diretto alle imprese del paese donatore) oppure servivano a scopi politico-militari. Con il passare degli anni, fortunatamente, si è cercato di rendere gli aiuti più trasparenti e più legati alla costruzione di istituzioni democratiche e market friendly. In questo processo, sono nate infinite ONG private (che però concorrono per ricevere fondi pubblici) e nuclei di valutazione dell’aiuto, nell’apprezzabile spirito di i soldi dei contribuenti devono essere ben spesi. Abbiamo così parte dei fondi destinati agli aiuti che sono impiegati per valutare gli aiuti, per promuovere la donazione privata che vada ad accompagnare gli aiuti, a fare lobbying per avere piuù aiuti e via discorrendo.
Secondo le stime di Action Aid (1), almeno metà dei fondi destinati alla cooperazione e allo sviluppo nel mondo hanno queste destinazioni collaterali, si tratta del cosiddetto Phantom Aid. Insomma, il mondo dell’aiuto pubblico (e privato) è cresciuto a tal punto da diventare un’industria vera e propria (e mediaticamente potentissima, grazie alle celebrità che agiscono da testimonials) con ramificazioni diversissime, limitando così ancor di più le risorse che vengono devolute ai paesi poveri e dando origine a sprechi e corruzione sia nel paese donatore che nel paese ricevente. Questo sistema perverso, può avere conseguenze ben peggiori della corruzione o dello spreco. Nel caso dell’aiuto umanitario, infatti, in alcuni casi gli aiuti, sostenuti da potenti azioni lobbistiche nei paesi donatori, hanno addirittura prolungato la guerra civile nel paese aiutato, prolungando così lo stato demergenza della popolazione civile (2).
Onestamente, ”trade and foreign investment and not aid” mi sembra rimanga la politica più trasparente e più efficace. D’altro canto, lo dice anche Bob Geldolf, l’apostolo dell’aiuto ai paesi poveri: il più grande successo (nel ridurre la povertà nel mondo) del 21mo secolo è stato l’uscita dalla povertà di 400 milioni di cinesi grazie al commercio estero (3).
(1) Citato in http://www.globalissues.org/article/35/foreign-aid-development-assistance
(2) Su questo punto e sull’industria dell’aiuto più in generale, un libro illuminante, ma per stomaci forti, è: Linda Polman, War Games, Penguin, 2010
(3) Citato in http://www.dailypioneer.com/213267/Foreign-aid-is-not-helping-poor.html
William Easterly Tobias Pfutze (2008), Where Does the Money Go? Best and Worst Practices in Foreign Aid. Journal of Economic PerspectivesVolume 22, Number 2Spring 2008.
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