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La Cina: troppo autoritaria e troppo liberista

 

Anche nel 2011 la Cina e il suo enorme surplus di partite correnti saranno certamente al centro del dibattito economico. Gli americani continueranno a esigere una forte rivalutazione dello yuan (20-30 per cento) al fine di rendere le merci cinesi meno competitive sui mercati internazionali. La formidabile propensione al risparmio cinese verrà ancora additata da molti come un problema. Ma quali sono le cause?

MOLTE LETTURE DEL RISPARMIO CINESE

Alcuni economisti neo-keynesiani domanderanno una maggior tutela degli individui, che oggi hanno pensioni irrisorie, una scarsa assistenza sanitaria e una istruzione pubblica inadeguata, al fine di ridurre l’’incredibile tasso di risparmio delle famiglie. (1) Qualche studioso cinese continuerà a ritenere che la propensione al risparmio sia dovuta alla politica del figlio unico, che ha prodotto un eccesso di maschi, costretti a risparmiare moltissimo per trovarsi una moglie.(2) Mentre alcuni commentatori neo-liberisti continueranno a pensare che la mancanza di democrazia sia alla base dei forti squilibri economici; la repressione, infatti, terrebbe bassi i salari e non permetterebbe ai lavoratori cinesi di consumare quanto vogliono. (3)

CRESCE IL RISPARMIO E PURE LA DEMOCRAZIA (POCHISSIMO)

Ciascuna di queste spiegazioni contiene una parte di verità; e forse è utile ordinarle in maniera più sistematica, in modo da costruire un quadro più coerente. Cominciamo dall’’ultima interpretazione: La carenza di rappresentanza democratica è certamente un problema molto serio in Cina. Tuttavia, mentre il forte accumulo di riserve internazionali e la bassa propensione al consumo hanno cominciato a manifestarsi con intensità solo dalla fine degli anni Novanta (figura 1), il problema della democrazia in Cina esiste almeno dal 1949, data di fondazione della Repubblica popolare cinese, se non da molto prima. Purtroppo, non sono disponibili indicatori affidabili del livello di democrazia di un paese che risalgano abbastanza indietro negli anni. Tuttavia, indici come quello dell’Economist Intelligence Unit, mostrano negli ultimi tempi un lievissimo miglioramento della situazione: mentre nel 2006 la Cina era al 138° posto su 167 paesi con un punteggio di 2,97/10, nel 2010 è passata al 136° posto con un voto di 3,14/10.

AUMENTANO I SALARI NOMINALI E REALI

Per quanto riguarda i salari, l’’ultimo rapporto dell’International Labor Office di Ginevra ci ricorda come, mentre nel mondo la loro crescita è stata negli ultimi anni  molto limitata se non vicina allo zero, in Cina si è registrato un tasso di crescita delle retribuzioni di tutto rispetto. (4) Dopo essere saliti del 13,1 per cento nel 2007, i salari sono cresciuti rispettivamente dell’11,7 e 12,8 per cento nel 2008 e 2009 nelle aree urbane, notoriamente più sviluppate e dinamiche e di circa la metà nell’’intero paese, aree rurali incluse. Anche se prendiamo un lasso temporale più lungo, ci accorgiamo che i salari cinesi hanno conosciuto tassi di crescita media di oltre il 12 per cento negli ultimi dieci anni, ben al di sopra, anche in termini reali, di quelli osservati in un qualsiasi paese occidentale. A questi ritmi è facile capire come – al di là degli aumenti di produttività che finora sono stati notevolissimi – la competitività cinese sia destinata a ridursi fortemente nei prossimi anni.

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ELEVATA INCERTEZZA, ELEVATO RISPARMIO

La verità è che a partire dall’inizio degli anni Ottanta il mercato del lavoro in Cina ha conosciuto graduali ma profonde riforme che lo hanno reso sempre più flessibile sia in termini di salario (dove la componente variabile è diventata via via più rilevante) sia in termini di mobilità (a livello territoriale, di impresa e da occupazione a disoccupazione). La crescita della flessibilità si è accompagnata con un’’accelerazione, dalla metà degli anni Novanta, della (senza dubbio necessaria) privatizzazione e ristrutturazione delle aziende controllate dallo Stato o a proprietà collettiva: prima non licenziavano e garantivano salari “politici”, successivamente hanno visto aumentare i loro vincoli di bilancio, hanno potuto offrire contratti a tempo determinato e licenziare liberamente la manodopera. (5) Se da un lato questa trasformazione liberista del mercato del lavoro ha permesso un incredibile aumento della produttività, e quindi dei redditi e della ricchezza, dall’’altro ha anche aumentato notevolmente l’’incertezza per le famiglie cinesi. Anche perché le liberalizzazioni non sono state compensate da un sistema di ammortizzatori sociali. Così, secondo recenti stime di Marcos Chamon, Kai Liu e Eswar Prasad, la cresciuta incertezza sul mercato del lavoro sembra spiegare buona parte dell’’aumento della propensione al risparmio delle famiglie con capofamiglia giovane (figura 2). (6) L’’insolita crescita dei risparmi delle famiglie con capofamiglia dai 50 ai 65 anni (figura 2) è invece, secondo questi autori, dovuta all’’incertezza causata dalla riforma del sistema pensionistico del 1997, che ha drasticamente ridotto il rapporto tra pensione e ultimo reddito reddito da lavoro.

UN COMPROMESSO TRA CAPITALISMO E WELFARE STATE

In sintesi, l’’autoritarismo non sembra essere servito a comprimere artificialmente i salari dei lavoratori cinesi, ma piuttosto a imporre un sistema liberista, di cui – sia detto per inciso – l’’Occidente ha finora beneficiato in termini di beni a basso prezzo, anche se ha creato a tutti seri problemi di competitività. Se qualcuno pensa che l’eccesso di risparmio cinese sia un problema per gli equilibri macroeconomici globali, dovrebbe riflettere sulla possibilità che tale eccesso sia riconducibile all’’eccesso di liberismo capitalista e alla conseguente assenza di un adeguato sistema di welfare e di tutela dei lavoratori (tanto quelli attivi quanto quelli pensionati). Si pone, dunque, alla Cina il problema di un buon compromesso tra capitalismo e welfare state, quel compromesso che accompagnò la forte crescita economica con l’’ampia estensione dei diritti sociali e delle tutele nell’’Europa degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma sarà possibile questo compromesso in un paese, ormai capitalista, dove l’’articolo 1 della Costituzione sembra una catena di ossimori: “La Repubblica popolare cinese è uno stato socialista soggetto alla dittatura democratica del popolo”?
(1) Olivier Blanchard e Francesco Giavazzi, “Rebalancing Growth in China: a Three-handed Approach”, 2005 MIT Working Paper, 05-32
(2) Wei, Shang-Jin and Xiaobo Zhang, “The Competitive Saving Motive: Evidence from Rising Sex Ratios and Savings Rates in China”, 2009, NBER Working Paper, 15093
(3) Alberto Alesina e Luigi Zingales, “Più salari, consumi e libertà in Cina per rimediare agli squilibri commerciali nel mondo”, Il Sole-24Ore, 9 dicembre 2010.
(4) Global Wage Report 2010/2011 – Wage policies in times of crisis.
(5) Ray Brooks and Ran Tao, “China’s Labor Market Performance and Challenges” , 2003 IMF WP
(6) Marcos Chamon, Kai Liu and Eswar Prasad, “Income Uncertainty and Household Savings in China” 2010 IMF WP

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Figura 1 – Tassi di risparmio delle famiglie     

Fonte: National Bureau of Statistics, elaborata in : Chamon M., Kai Liu, Prasad E., (2010)

           Figura 2 – Tassi di risparmio in funzione dell’’età del capofamiglia

Fonte: Chamon M., Kai Liu, Prasad E., (2010)

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REGOLE COERENTI PER GLI INVESTIMENTI ESTERI IN EUROPA

  1. lucio

    Se la tendenza ad aumenti salariali del 10-12% annuo continuasse per altri 5-6 anni per quella data cinesi (e brasiliani) sorpasserebbero i salari reali dell’italia dove (vedi caso fiat e fine dei contratti nazionali) sono invece destinati alla riduzione parallelamente ai consumi (svalutazione interna). L’aumento dei consumi interni in quei paesi e il parziale aumento di alcune protezioni sociali, pur in presenza di forti squilibri di reddito tra classi sociali e ambiti territoriali, renderanno necessario sostituire manodopera non più a basso costo con altra per le multinazionali globali, che con l’aumento dei costi di trasporto delle merci e delle instabilità politiche di un sistema multipolare dovranno per forza creare sacche di salariati alla vietnamita all’interno dei paesi ex ricchi dell’occidente. L’Italia per le sue caratteristiche di manodopera eccedente, professionale, sottomessa e iper-produttiva è una candidata privilegiata all’interno della UE a doppia velocità. ll modello cinese basato su autoritarismo e deregulation selvaggia funzionali all’imposizione di un sistema ultraliberista è auspicato dai globalisti…

  2. raffaele principe

    Quando le percentuali spiegano poco: il 10% di 100 fa 110, il 2% di 1000 fa 1020, dunque la distanza è aumentata, mentre la tendenza sarà quella alla convergenza del “movimento del pendolo” verso il suo baricentro. E’ allora spiegato perché nei paesi emergenti gli aumenti non possono che essere a due cifre e in occidente stagnanti. Altra cosa ragionare sulle strategie industriali della Cina, dell’India, del Vietnam ecc. La loro strategia è chiara: aumentare gli investimenti e gli stabilimenti manifatturieri, con bassi salari e bassissimo welfare state. E’ chiaro che vi sono spinte ad aumentare i salari, perchè non solo si rendono conto che altrove a parità di lavoro si guadagna 10 volte tanto, ma anche perché nel mercato globale i prezzi sono globali e la disponibilità di merci prima neanche conosciute: pc, auto, frigoriferi ecc. hanno prezzi sostanzialmente allineati a livello mondiale. E allora si sacrifica il welfare: pensiamo alla previdenza che porrà problemi fra 20-30 anni, come è successo in Italia. E allora più che di democrazia tout court c’è un problema di democrazia economica e di dialettica lavoro – capitale, vero motore di civiltà in Europa, e lì da inventare.

  3. mirco

    Il modello capitalista europeo è a ben vedere un ottimo compromesso tra lavoro e capitale con un settore pubblico che si impegna nel welfare. Il compromesso socialdemocratico in europa è storicamente vincente. Questo compromesso ha mantenuto alto anche il livello di democrazia. Il modello cinese che prevede autoritarismo e liberismo dimostra che esiste anche un altro modello che se si afferma può provocare una cosa molto grave: staccare il capitalismo come modello economico dalla democrazia come modello politico di governo contribuendo ad aumentare diseguaglianze e mancanza di diritti umani. I partiti socialdemocratici dovrebbero impegnarsi per evidenziarlo; chiedere un dumping sociale alla UE affinchè non vengano importate merci cinesi senza la certezza che esse siano prodotte nel rispetto dei diritti umani e sindacali è necessario anche per dimostrare che non si ritornerà al capitalismo ottocentesco che potrebbe riaprire a livello globale le stesse contraddizioni che l’Europa ha già sofferto (rivolte sociali e rivoluzioni comuniste). Questo è l’unico modo per dimostrare che la democrazia occidentale è valida senza scadere nella dottrina Bush (militare e imperialista).

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