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LA TUNISIA E LA TRAGEDIA ARABA

I paesi arabi sono caratterizzati da regimi sistematicamente repressivi, oltre che inefficienti e improntati a un’eccezionale longevità politica. Alla base del regime c’è sempre il clan, costituito dalla famiglia allargata del presidente. Tutto ciò causa una stagnazione politica eccezionale, che provoca un rapporto nevrotico tra mondo arabo e Occidente, di cui l’Iraq è l’esempio paradigmatico. E fa nascere un sentimento d’umiliazione esacerbato dal fallimento economico generalizzato.

 

I regimi repressivi non sono appannaggio unicamente del mondo arabo. E neanche gli stati “predatori”  sono specifici di questa parte del mondo. (1) In compenso l’esistenza di regimi sistematicamente repressivi, oltre che inefficienti e improntati a un’eccezionale longevità politica, sono proprio caratteristici della civiltà araba: le gravi rivolte che stanno sconvolgendo la Tunisia e, in maniera più endemica, l’Algeria sono espressione di questa realtà.

DINASTIE AL POTERE

La longevità politica dei regimi arabi è un dato di fatto eccezionale, se comparato al resto del mondo. In Tunisia Ben Ali era ufficialmente al potere da ventiquattro anni. Ma erano più di trent’anni che dominava il sistema del paese. Il suo vicino Bouteflika è al governo dell’Algeria solo dal 1999. Ma non bisogna dimenticare che era già ministro degli Esteri nel 1963 e che restò in carica per ben quindici anni. Anche in Libia ritroviamo una longevità similare, visto che il colonnello Gheddafi è al potere dal 1969; e così avviene nello Yemen, dove il capo di Stato è in carica dal 1978, e in Egitto su cui “regna” Mubarak dal 1981.
Alla base di questi regimi c’è sempre il clan, il cui nocciolo duro è per lo più costituito dalla famiglia allargata del presidente. Trenta o quaranta anni fa non si concepiva neanche che i regimi repubblicani arabi potessero essere fondati sul principio di successione dinastica. Oggigiorno, invece, tale modalità sta diventando regola, introdotta dall’attuale capo di Stato della Siria, che è succeduto a suo padre il giorno della morte di quest’ultimo, che peraltro aveva governato il paese per trent’anni. Anche in Tunisia era previsto, fino a qualche giorno fa, che a succedere a Ben Alì fosse il genero. In Libia e in Egitto sono destinati alla successione i figli degli attuali capi di Stato, mentre in Algeria sono i fratelli del presidente, visto che quest’ultimo è senza eredi. Insomma, nel mondo arabo, sta perdendo significato la differenza tra repubbliche e monarchie e, per giunta, non si tratta certo di monarchie costituzionali.
I monarchi arabi sono al centro del gioco politico ed economico. Wikileaks ha recentemente rivelato che, se si vuole trattare affari economici seri in Marocco, è indispensabile sollecitare l’appoggio del palazzo reale – cosa che del resto già tutti sapevano. Poiché i regimi arabi sono strutturati in clan, la cui base sociale tende a restringersi sempre più, l’avidità economica dei centri di potere sta aumentando vertiginosamente, causata probabilmente da un senso di precarietà. E e sta ampliandosi anche un sistema repressivo pletorico, dotato di strumenti moderni molto efficaci. Quando, pertanto, si sente dire – per esempio – che in Algeria il capo di Stato è riuscito a mettere in riga i militari, non bisogna illudersi neanche per un attimo che ciò significhi un’apertura del sistema politico. Perché, come in Russia, il relativo indebolimento politico dei militari corrisponde a un rafforzamento, senza precedenti, dell’apparato di sicurezza, in seno al quale non esiste differenza alcuna tra militari e civili.
Tutto ciò causa nel mondo arabo una stagnazione politica eccezionale, contrariamente a quanto avviene in Asia, in America Latina e persino nell’Africa sub sahariana. Persino quanto accade oggi in Costa d’Avorio è impensabile nel mondo arabo, perché non viene neanche presa in considerazione l’idea stessa di elezioni libere dal risultato incerto, che potrebbero provocare un cambiamento non solo del governo, ma anche delle elite al potere. C’è stata una sola eccezione, del resto fallita: il caso dell’Algeria nel 1991. Vi furono elezioni così corrette che il secondo turno fu annullato dai militari, i quali cacciarono il capo di Stato, accusato di volere un accordo con gli islamici.

UN FALLLIMENTO GENERALE E GENERALIZZATO

Questa sorta di eccezionale congelamento politico provoca un rapporto nevrotico tra mondo arabo e Occidente. Da una, parte i popoli in questione sono assolutamente impossibilitati a rovesciare i loro governi. Dall’altra, però, sono contrari all’ingerenza esterna. L’Iraq è l’esempio paradigmatico di tale contraddizione. La stragrande maggioranza degli sciiti iracheni era favorevole all’intervento degli Stati Uniti, perché solo così avrebbe potuto liberarsi dall’odiato Saddam Hussein. Ma, nel contempo, non sopportava l’idea di una presenza americana nel loro paese. Allo stesso modo, le società arabe vivono in permanenza una doppia umiliazione. L’umiliazione, e l’oppressione, che subiscono dai loro governanti, da cui non riescono a liberarsi. E l’umiliazione che l’Occidente infligge loro, quando si interroga sul perché il mondo arabo sia incapace di dotarsi di moderni sistemi democratici.
Il sentimento d’umiliazione è esacerbato da una realtà ancor più violenta: il fallimento economico generalizzato della quasi totalità dei paesi arabi. In effetti la maggior parte di questi paesi sono regimi che vivono di rendita, ma non producono ricchezza: le risorse provengono infatti dagli idrocarburi, dal turismo, da aiuti stranieri o dalle rimesse degli immigrati. Ciò significa che la ricchezza delle loro società non deriva da una trasformazione locale e quindi non crea valore aggiunto nazionale. D’altra parte, analizzando i progetti di sviluppo di quasi tutti i governi arabi, si può constatare come riguardino principalmente la valorizzazione degli idrocarburi o lo sviluppo del turismo. Sono due settori che creano ricchezza, ma non prevedono vasti programmi di assunzione di mano d’opera.
Non si tratta ovviamente di scelte casuali. Tutti i regimi di tal sorta hanno interesse a che la popolazione sia dipendente dal potere e dalle sue ricchezze. È meglio governare una popolazione disoccupata e dipendente dallo Stato, che può comprare il suo silenzio in cambio di certi vantaggi sociali, piuttosto che una popolazione autonoma, capace di svilupparsi e di prosperare al di fuori dei circuiti statali. È il motivo per cui tutti i paesi arabi registrano un tasso strutturalmente elevato di disoccupazione e ciò indipendentemente dalle loro risorse. La Tunisia è, per esempio, uno di quei paesi in cui la disoccupazione dei giovani è molto forte. In Algeria sono i cinesi che costruiscono le strade, i ponti e gli aeroporti laddove la disoccupazione locale tocca il 25 per cento e quasi un giovane algerino su due è senza lavoro.
Per molto tempo i regimi arabi hanno tentato di legittimare il loro potere e di giustificare l’assenza di democrazia, asserendo di privilegiare innanzitutto lo sviluppo economico. Ma oggi l’argomento non regge più. Nel mondo arabo non esiste né sviluppo, né democrazia. Questa realtà comporta, nell’ambito di tutti i grandi dibattiti internazionali, una marginalizzazione senza precedenti di quella regione del mondo. E le cause profonde del degrado non sono mai state seriamente analizzate. Per ovvi motivi, del resto: ovunque, nel mondo arabo, l’assenza di libertà pubbliche e la disfatta dei sistemi educativi rendono estremamente pericolosa e intellettualmente difficile un’attività del genere.
L’aggravarsi della situazione in Tunisia (e la fuga di Ben Alì) mostra la fragilità di questi regimi. Non bisogna tuttavia illudersi troppo presto. Fino a oggi non esiste un solo regime arabo che sia caduto in seguito a rivolte o sommosse. È ancora presto per concludere che il regime di Ben Ali è definitivamente crollato.

(1) Il termine è riconducibile all’espressione inglese “rent seeking” ed è utilizzato per indicare il fenomeno che si verifica quando un individuo, un’organizzazione o un’impresa cerca di ottenere un guadagno mediante l’acquisizione di una rendita economica attraverso la manipolazione o lo sfruttamento dell’ambiente economico, piuttosto che mediante la conclusione di transazioni economiche e la produzione di valore aggiunto. Il rent seeking implica generalmente l’estrazione di valore non controbilanciato da altro, senza che ci sia alcun contributo alla produttività, ad esempio ottenendo controllo della terra e di altre risorse naturali preesistenti, oppure mediante l’imposizione di gravose regolamentazioni o di altre decisioni governative che possono influenzare i consumatori o gli affari.

(traduzione di Daniela Crocco)

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LA RISPOSTA AI COMMENTI

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LA POLITICA? UN GIOCO PER SIGNORINI

10 commenti

  1. Dario Palermo

    Quello che dice l’autore in questo condivisibilissimo articolo mi richiama purtroppo, naturalmente mutatis mutandis, ciò che si verifica in certe aree del nostro paese. Se poi ad esso aggiungiamo la "disfatta del sistema educativo", anche da noi percepibile, il quadro non induce a ben sperare.

  2. Robyn

    Mi lascia sempre perplesso il mondo arabo dove i molti che non hanno prospettive spesso difendono i pochi che hanno già tutto, dove la metà femminile è oppressa, dove si biasima l’Occidente ma si spera in quest’ultimo per un futuro migliore, dove la religione distorce ogni interrelazione, dove il censo fa ancora da discriminatore, dove si spaccia il regime con la repubblica, e nulla cambia nel tempo. Forse un giorno la storia saprà leggere in maniera diversa la campagna USA in Iraq, magari come la semina dell’embrione della democrazia. Comunque sia questo è un problema a venire, tornando al presente sono da anni suggestionato da un’idea nata come provocazione ma più passa il tempo più acquista consistenza: non potremmo fare la guerra mediatica ai paesi arabi? Mi spiego meglio: forzare i loro sistemi di comunicazione (radio, TV, trasmissione dati IP/microonde, volantinaggio aereo….) a trasmettere, anche in arabo ed in maniera sistematica, una percezione diversa del mondo secondo punti di vista diversi da quello arabo? Se non altro si aprono gli occhi alle masse che solo così, ossia partendo da una percezione corretta della realtà, possono determinare il loro futuro.

  3. carmen

    Basta con la litania e l’ipocrisia della volontà occidentale di instaurare la democrazia ovunque. L’unica cosa che interessa all’Occidente è creare le condizioni altrove per il proprio sviluppo economico. La storia ce lo insegna. E la storia si ripete sempre. Se serve una democrazia allora sarà democrazia: piano Marshall Usa in Europa nel secondo dopoguerra. Se serve invece una tirrania allora tirannia sarà: le libere e democratiche elezioni in Algeria furono annullate sotto pressione dell’Occidente sotto la paura (sapientemente indotta dall’Occidente)del fondamentalismo islamico, che ormai la società civile internazionale ha capito essere una grande bufala per coprire i peggiori affari politico-economici. Così ha sempre agito internazionalmente l’Occidente. L’equilibrio geo-politico mondiale è tale perché tutti sono d’accordo. Non esiste tirrannia in un paese che non sia appoggiata dall’esterno.

  4. Roberto

    il ritratto che si fa dei paesi nordafricani sembra quello dell’Italia contemporanea. Ai clan familiari, qui si sostituisce la cricca, una associazione (a delinquere?) politica- mafiosa-affaristica, che sta distruggendo (o ha già distrutto) l’economia italiana, impedendo una sana concorrenza (come vorrebbe un sano liberismo) tra le imprese che possa distribuire la ricchezza nazionale in maniera più equa. La realtà è di una ricchezza che non può essere manifestata perché disonesta, spedita all’estero nei paradisi fiscali, e negata allo sviluppo dell’economia nazionale. Potrei ora dire "Povera Italia!", ma purtroppo tutto ciò è solo responsabilità della mentalità italiana incapace di pensare in termini di paese (del proprio paese) invece che in termini di famiglia (più o meno allargata) di gruppo o di clan (o di cricca).

  5. marco

    Trovo che l’articolo non sia solo condivisibile, ma per larghissimi versi tremendamente consono alla realtà italiana, dove però la repressione è fatta più con soft power che militarmente. A ben vedere poi tutto questo non è nulla di nuovo, l’articolazione clanica ed il rent seeking sono il problema della civiltà araba da sempre. Furono il motivo della sua progressiva retrocessione a fronte dell’Occidente in Spagna e in Italia ed alla fine sulle coste stesse dell’Africa, e, guarda caso, queste logiche sono particolarmente presenti in Europa proprio nelle zone che furono sotto il dominio della civiltà araba nell’alto medioevo. Se quindi tutto questo è nel Dna sociale dei popoli di discendenza nomade dei deserti arabi, e addirittura permane fortissimo in chi non arabo ebbe però a lungo la loro influenza, non facciamoci la minima illusione che si possa innescare un cambiamento radicale e duraturo con della propaganda cosi’ come con una invasione militare. Non dobbiamo semplicemente avere la presunzione che il nostro modello politico organizzativo ideale sia esportabile universalmente, ogni popolo deve trovare la sua via secondo la sua realtà.

  6. giusqui

    Tempo fa mi é capitato di vedere alcune statistiche dell’Istat tunisino e con sorpresa ho notato che il mercato del lavoro presenta squilibri simili a quelli del nostro Sud. Il tasso di disoccupazione sfiora il 15% (dati 2009), ne più ne meno come da noi (12,5%). Da noi 4 giovani su 100 non riescono a trovare in loco uno straccio di lavoro, se non sono raccomandati, e lo stesso avviene in Tunisia. Certo, nonostante il forte sviluppo economico degli ultimi anni (quando il Sud ha avuto una crescita pari a zero) il livello di benessere della popolazione é molto al disotto del nostro, e forse é anche questo che li spinge a ribellarsi. Ho il timore che il federalismo, se non ben calibrato sulle necessità del Sud, potrebbe rischiare di ampliare il distacco da nord, alimentando il disagio della popolazione meridionale, e innescando magari un malcontento simile a quello che sta vivendo la Tunisia.

  7. John

    Questo articolo mi sembra poco accurato. Il desiderio di democrazia appare solamente quando le condizioni economiche sono buone. Se il popolo è povero e affannato, non è interessata alla democrazia, ma solamente a migliori condizioni di vita. Per questo motivo, può accadere che un regime autoritario sia sostituito da un nuovo regime, differente dal precedente solamente perchè più interessato al "welfare" (ossia a migliori condizioni di vita). La rivoluzione islamica del 79 in Iran ne è una perfetta dimostrazione. Attualmente in Iran c’è voglia di democrazia perchè ci sono molte persone in buone condizioni economiche (impiegati altamente qualificati, imprenditori, liberi professionisti). In Tunisia non è così: il popolo è interessato solamente a migliorare la propria condizione economica, quindi può essere disposto anche ad appoggiare un governo fondamentalista islamico. L’estremismo islamico ottiene ampi consensi nel mondo islamico proprio perchè provvede al welfare (ad esempio Hamas, che gestisce ambulatori e ospedali nei territori occupati). (continua)

  8. AM

    Indubbiamente si notano chiaramente alcune consonanze tra il nostro sud ed il mondo arabo. Non si può dimenticare tuttavia anche la presenza di differenze fondamentali. In Italia vi è la democrazia, è remoto il pericolo di un ritorno ad una dittatura e manca il fanatismo religioso che spinge ad azioni di violenza estrema.

  9. John

    Per questo motivo, la democrazia fatica a prendere piede nei Paesi depressi. Se non è possibile attuarla, la migliore forma di governo è una dittatura morbida, laica, non militarmente ostile verso l’estero e orientata al welfare.

  10. carmen

    Il link che vi propongo di leggere spiega bene il mio punto di vista. Vorrei sapere cosa avete da dire voi, ipocriti occidentali che giustificate le guerre per affermare la democrazia, sulla rivolta araba ? quando è dal basso non va mai bene, quando viene imposta dall’alto sì ! http://www.ilcircolo.net/lia/2991.php

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