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LA LIBIA E NOI

Il prezzo del petrolio ha raggiunto ieri a Londra il valore più alto da settembre 2008. La fibrillazione dei mercati energetici, e di conseguenza dei metalli preziosi e delle materie prime, nasce dai disordini e dalle rivolte popolari che dalle coste del Mediterraneo si vanno allargando al Medio Oriente e al Golfo Persico. Ma sono soprattutto i recenti sviluppi libici a fare scorrere brividi gelidi lungo la schiena dei governanti dei paesi occidentali, dei dirigenti di molte loro imprese e degli operatori, finanziari e non, dei mercati energetici. Vale in particolare per l’Italia.

Il prezzo del petrolio ha raggiunto ieri a Londra durante le contrattazioni i 105.1 dollari a barile con un balzo di 2,6 dollari rispetto al giorno precedente. Si tratta del livello più alto del prezzo del Brent dal 25 settembre 2008. Contestualmente l’oro, classico bene rifugio, è salito a 1.400,40 dollari l’oncia al livello più elevato delle ultime sette settimane, mentre argento e palladio sono al loro picco rispettivamente da trentuno e dieci anni.

LE PRIME RIVOLTE

La fibrillazione dei mercati energetici, e di conseguenza dei metalli preziosi e delle materie prime internazionali, è il risultato dei disordini e delle rivolte popolari che dalle coste del Mediterraneo –Tunisia, Egitto, Libia – si vanno trasmettendo al Medio Oriente e al Golfo Persico – Yemen, Iran, Bahrein. Ma sono soprattutto i recenti sviluppi libici e la violentissima repressione che si sta scatenando in queste ore a fare scorrere brividi gelidi lungo la schiena dei governanti dei paesi occidentali, dei dirigenti di molte loro imprese e degli operatori, finanziari e non, dei mercati energetici. E questo vale in particolare per l’Italia.
Il malcontento era dapprima esploso in Tunisia, paese di solo 10 milioni di abitanti, ciascuno con un reddito di 3.654 dollari nel 2009, e privo di risorse energetiche. Una importante fonte di entrate sono i diritti di transito del Transmed, il gasdotto che connette l’Algeria con l’Italia. Un primo problema per l’Italia si potrebbe verificare allorché il nuovo regime tunisino decidesse di rivedere al rialzo dei diritti di passaggio, attualmente molto bassi. Il rischio potrebbe essere quello di un nuovo caso Ucraina.
L’Eni è presente in Tunisia dal 1961, nelle attività di esplorazione e produzione di idrocarburi, concentrate soprattutto nell’offshore del Mar Mediterraneo di fronte ad Hammamet e nelle aree desertiche del sud.
Il contagio aveva successivamente provocato la rivolta e il rovesciamento del regime di Mubarak in Egitto, una nazione otto volte più popolosa della Tunisia, ma con un reddito procapite addirittura inferiore (2.194 dollari), nonostante l’importanza delle attività energetiche. Paese (relativamente) povero di petrolio, ma ricco di gas naturale, al terzo posto per riserve nel continente africano (1 per cento delle riserve mondiali, vedi figure), è attivo nella raffinazione del petrolio che viene riesportato, insieme al gas.
Soprattutto unica è la collocazione strategica del paese, a cavallo tra Mar Mediterraneo e Mar Rosso tramite il Canale di Suez. Anche in questo caso, uno sciopero dei sottopagati lavoratori di Suez potrebbe causare dei blocchi temporanei dei transiti lungo il canale, così come incrementi significativi dei diritti di passaggio, magari decisi da un nuovo governo ansioso di guadagnarsi velocemente il favore popolare, potrebbero obbligare petrolio e derrate alimentari a costosi allungamenti del percorso prima di approdare ai porti europei e americani. Questi fatti potrebbero fare lievitare i prezzi di petrolio e materie prime alimentari. Mentre finora si è verificato solo un atto di sabotaggio, agli inizi del mese, che ha seriamente danneggiato il gasdotto che fornisce la Giordania e Israele di gas proveniente dall’Egitto. Una esplosione ha causato un vasto incendio nei pressi della località egiziana di el-Arich, sul braccio dell’infrastruttura diretto in Giordania. Del gasdotto si parla da tempo in Egitto, per le accuse rivolte al clan Mubarak di presunte tangenti ottenute grazie all’affare.
L’Egitto è il primo paese in cui l’Eni ha svolto il ruolo d’operatore di idrocarburi all’estero, nel 1953. È presente anche nel settore della liquefazione del gas naturale e dell’ingegneria e costruzioni. Nel 2008, Eni è stato il primo operatore internazionale di idrocarburi nel paese. Per l’attività di esplorazione, detiene nel paese 59 concessioni minerarie che interessano una superficie complessiva di 26.335 chilometri quadrati (di cui 9.741 in quota Eni). Le principali attività produttive sono condotte nella concessione di Belayim (Eni 100 per cento), nel Golfo di Suez con produzione di olio e condensati, in quelle prevalentemente a gas naturale di North Port Said (ex Port Fouad, Eni 100 per cento), di Baltim (Eni 50 per cento, operatore), di Ras el Barr (Eni 50 per cento) e di el Temsah (Eni 50 per cento, operatore).

TIMORI DALLA LIBIA

Ma è soprattutto la sanguinosa repressione della rivolta in Libia a destare grande preoccupazione, al punto che è iniziata l’evacuazione del personale diplomatico e di quello delle compagnie petrolifere occidentali là operanti. Dopo che nel 2003 e 2004 sono state tolte le sanzioni internazionali di Onu e Usa e dopo che questi ultimi hanno nel 2006 cessato di designare il paese come sponsor del terrorismo internazionale, le compagnie petrolifere internazionali come la spagnola Repsol Ypf, l’Eni, l’austriaca Omv, la francese Total e l’inglese Bp avevano ripreso le attività di esplorazione e produzione di idrocarburi. In particolare, Eni è presente in Libia nelle attività di esplorazione e produzione di petrolio e del gas naturale dal 1959. L’attività produttiva ed esplorativa è condotta nell’offshore del Mar Mediterraneo, di fronte a Tripoli e nel deserto libico. A fine 2009 Eni era presente in tredici titoli minerari, per una superficie complessiva di circa 36.374 chilometri quadrati (18.165 chilometri in quota Eni). Le attività di Eni in Libia sono regolate da contratti di Exploration and Production Sharing Agreement (Epsa) che hanno durata fino al 2042 per le produzioni a olio e al 2047 per quelle a gas. Nel 2009 Eni è il primo operatore internazionali di idrocarburi con una produzione di 522 mila barili di olio equivalente al giorno (244mila in quota Eni, di cui il 44 per cento di liquidi). Sia il settore petrolifero che quello del gas sono dominati dalla compagnia petrolifera nazionale Noc, la quale opera nel settore dell’export in joint venture con operatori occidentali. Un esempio è il Western Libyan Gas Project che al 50 per cento con Eni provvede a esportare gas verso l’Italia attraverso il gasdotto Greenstream.
Pur essendo 14 volte meno popolata (6,3 milioni) e con un reddito procapite cinque volte più alto (11.307 dollari nel 2009), è soprattutto in campo energetico che tra Egitto e Libia vi sono importantidifferenze. La (forse ex) Jamahiriya del colonnello Gheddafi, membro dell’Opec annoverato tra i falchi dell’organizzazione, possiede le maggiori riserve provate di petrolio dell’intero continente africano, seguita da Nigeria e Algeria. Con 44 miliardi di barili rappresenta il 3 per cento delle riserve mondiali, al nono posto assoluto, localizzate per l’80 per cento nel Golfo della Sirte. Sebbene ecceda la quota Opec, la produzione di petrolio è pari a 1,65 milioni di barili al giorno, di cui 1,5 milioni (derivati dal petrolio) sono esportati. Il nostro paese è il maggiore beneficiario, ricevendo il 32 per cento dell’export, seguito da Germania (14 per cento) , Cina (10 per cento) e Francia (10 per cento). La qualità del greggio libico è molto apprezzata, essendo generalmente leggera e dolce, così da farne materia prima pregiata soprattutto per la produzione di carburanti per autotrazione molto richiesti in Europa. Per riserve di gas la Libia è al quarto posto nel continente africano dopo Nigeria, Algeria ed Egitto, e solo quindicesima al mondo (1 per cento del totale). La produzione di gas è stata nel 2008 di 17,1 miliardi di metri cubi, di cui 11,2 esportati: mentre 6 sono stati liquefatti e trasportati via nave, i restanti 10,6 hanno preso la via dell’Italia e dell’Europa tramite il gasdotto Greenstream, operato in partnership con Eni, lungo 520 km, che connette Mellitah a Gela in Sicilia. Circa il 60 per cento del gas prodotto è esportato in Italia, mentre una piccola parte è liquefatto e spedito in Spagna.
Nel complesso gli idrocarburi rappresentano per i nostri dirimpettai della costa sud del Mediterraneo il 95 per cento dei ricavi delle esportazioni e l’80 per cento delle entrate fiscali. Il dato dovrebbe tranquillizzare l’Europa e in particolare l’Italia ritenendosi improbabili importanti e prolungati blocchi delle forniture di petrolio e gas ai paesi importatori. Questo non significa che scaramucce ed episodi isolati non si possano verificare. Per esempio, Al Jazeera riferiva ieri che il campo petrolifero di Nafoora aveva fermato la produzione per uno sciopero dei lavoratori. Questi fatti accrescono il supply risk e spiegano perché è stato il Brent londinese a impennarsi, mentre l’americano Wti si colloca a 95,4 dollari.

PROBLEMI PER L’ITALIA

Ma è l’Italia a trovarsi nella situazione più critica nei confronti della Libia, per tre motivi. Il primo è che il nostro paese, e il suo governo, è il più “colluso” con il regime di Gheddafi. Senza entrare in considerazioni strettamente politiche, la propagandata amicizia con il colonnello fa sì che i rischi di ritorsione da parte degli insorti nell’eventualità che questi prevalgano sono maggiori. Anche gli attestati di supporto alle legittime rivendicazioni popolari e all’instaurazione di un regime democratico non beneficerebbero di grande credibilità. Tutto questo pone a rischio le relazioni politico-diplomatiche tra i due paesi, la condizione dei nostri concittadini presenti nel paese, le sorti delle nostre imprese e dei loro ingenti investimenti, la gestione dei prevedibili flussi migratori clandestini. Il secondo motivo è strettamente collegato al precedente, e riguarda gli interessi economici che intercorrono tra Libia e Italia. La Libia è il primo azionista di Unicredit con il 7,50 per cento del capitale, possiede l’1 per cento di Eni e il 2 per cento di Finmeccanica. Attive in Libia sono alcune nostre grandi imprese, come Eni, Anas, Impregilo, Finmeccanica, Iveco. Nel complesso, l’Italia rappresenta il primo partner commerciale della Libia. La quota italiana delle importazioni libiche si è attestata nel 2009 al 17,4 per cento, nel primo semestre del 2010 le nostre esportazioni verso quel paese sono cresciute del 4 per cento. L’interscambio tra i due paesi nel primo semestre 2010 è arrivato a circa 6,8 miliardi di euro, con un incremento del 12,53 per cento rispetto all’anno precedente. Il terzo motivo per cui l’Italia si trova in maggiore difficoltà con la crisi libica è proprio quello energetico. La Libia si colloca infatti rispettivamente al primo e al terzo posto tra i nostri fornitori di petrolio e gas naturale, l’Italia è il primo acquirente del greggio libico e gli idrocarburi rappresentano circa il 99 per cento delle importazioni italiane dalla Libia.
È per tali motivi che in questo momento la cautela è d’obbligo e il fiato sospeso una condizione inevitabile.

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11 commenti

  1. rubi

    Spero di non essere l’unico a cui venga il dubbio che il successore di Gheddafi possa essere "consigliato" dai board dei colossi energetici. La speranza è che le scelte effettuate dall’ipotetico successore di Gheddafi per le politiche sociali, possano essere effettuate al fine di garantire una tutela maggiore dei diritti civili in Libia.

  2. Franco Romani

    Molto interessante l’articolo, ma nella comparazione con gli altri Stati vicini (Tunisia, Egitto, ecc), nel mettere a confronto il reddito pro capite, avrei sottolineato il fatto che il reddito pro capite libico quantunque molto più alto rispetto a quello degli altri Stati, (dovuto sopratutto alla maggiore presenza di grosse imprese straniere con ingenti investimenti) non arrivava a tutta la popolazione ma ad una ristretta "cricca" vicina a Gaddafi e Co. Alla maggioranza della popolazione arrivavano solamente i prezzi "politici" degli alimentari e di alcuni servizi ma non "le libertà democratiche". E tutto questo ha fatto saltare il tappo.

  3. rita

    Giuste le considerazioni sul fatto che l’Italia corra più rischi di altri paesi, sbagliato adesso farne colpa al governo che evidentemente si era mosso , in modo peraltro discutibile sulla forma, nell’interesse del paese sia in campo energetico, sia per la questione immigrazione e sia per dare opportunità alle nostre imprese. Oggi si chiede un intervento più vivo del nostro governo in Cina, e lo si fa con ragione. Domani, se ci sarà una rivolta popolare cinese per la democrazia, saremmo pronti a rimproverarglielo?

  4. aris blasetti

    Naturalmente è difficile dare consigli ai nostri governanti in una situazione come l’attuale, ma piu’ che paventare le reazioni dell’attuale opposizione a Gheddafi, se riuscira’ a disarcionare il colonnello, io starei in guardia con gli "alleati" francesi che gia’ stanno mettendo in giro voci di nostre presunte azioni aeree in appoggio al regime di Gheddafi al solo scopo di metterci in cattiva luce con i probabili nuovi padroni. Certo non per amore della democrazia ma allo scopo di scalzare l’Eni dalla posizione di privilegio fino ad ora goduta. Bene fa il governo ad essere equidistante, in Libia ci siamo gia’ scottati una volta tanti anni fa, ora restiamone fuori e monitoriamo bene certi nostri partner UE ed alleati con il pelo sullo stomaco.

  5. Daniele

    È molto bello poter leggere un articolo tanto ricco di informazioni, La ringrazio per il suo contributo

  6. rousseaux

    sono molto ottimista nel dopo geddafi, purché il petrolio non diventi piú sacro del sangue umano; un alibi per soffocare le aspirazione nobile dei popoli del mondo e contro le ingiustizie, perpetrate dei loro aguzzini, che spesso sono complice degli interessi occidentale, in materia energitica. geddafi faceva comodo a tanti politici dei paesi industrializzati, ed erano disposti a chiudere entrambi gli occhi, davanti a tanti abusi dei diritti umani, una inperdonabile epocrizia, purché a pagare il prezzo sono sempre gli altri, i piú esposti !! adesso e davanti ad una scenario racapriscente, non vi sono alibi per nascondere la testa fra la sabbia, la verita e la dignita umana debbono prevvalere a discapito degli interessi materiale !!!

  7. Mauro Scarfone

    Le notizie dalla Libia non fanno ben sperare: guerra civile, a questo punto anche tra tribù, mancanza di un "comitato rivoluzionario" identificabile (se non forse, ahinoi, un emirato di Al Quaeda in Cirenaica) che abbia forza e capacità di prendere il controllo della situazione lasciano intravedere una situazione "somala" di territorio senza Stato, terreno di vendette tra signori della guerra, e questo é molto peggio di una temporanea sospensione degli accordi di affari. Quanto ai nostri rapporti con la Libia, erano grosso modo obbligati (salvo le forme buffonesche adottate di recente dal nostro governo).

  8. Marco Tronci

    E’ chiaro che ormai in Libia il regime sta per saltare, ma è difficile decidere che tipo di comportamento e quali politiche adottare per evitare che il nordafrica diventi una polveriera. La Libia è un paese a rischio emergenza umanitaria, per evitare che si crei terreno fertile per gli integralisti islamici perché non adottare un piano Marshall per cercare di sostenere il reddito e la creazione una democrazia capace di ottenere investimenti infrastrutturali?

  9. BOLLI PASQUALE

    Il Meditterraneo è in burrasca, nessuno naviga in acque tranquille: libici, italiani,Europa, operatori economici e governanti sono tutti sulla stessa barca. I libici che con un grande sussulto di orgoglio rivendicano la loro dignità di uomini liberi, da sempre negata. Gli italiani sono alle prese giornaliere di assalto alle istituzioni: Magistratura,Corte Costituzionale,Parlamento e Governo. L’Europa, che non ha una vera politica comunitaria, è in grande affanno per trovare soluzione alla biblica migrazione di povera gente che fugge terrorizzata,perseguitata e che muore tra le acque agitate. Gli operatori economici che, con previsione ingannevole di migliori risultati economici, hanno lasciato l’Italia ed hanno incrementato la nostra disoccupazione. I governanti, poveretti, che pur disponendo di illimitate risorse personali sono, per sorte maligna, costretti a stare nella stessa barca dei senza terra, senza soldi e forse senza nome. Il governante libico è in un bunker sottosuolo, come l’amato petrolio e si illude di salvare la pelle. Il governante italiano, inoltre, ugualmente in mare forza sei, non sa che pesci prendere per salvarsi dalle condanne. Signori, è inutile! Finalmente è la nemesi.

  10. INeuropa

    Dal portale Indymedia: http://piemonte.indymedia.org/article/11834 ENI Libia: sangue & petrolio. Quando l’ENI faceva affari d’oro in Libia, arricchendo il rais di Tripoli e s’ENImpippava delle sanziENI ONU e USA. Pardon sanzioni. Quando ci son di mezzo montagne di quattrini non ci si ferma davanti a niente e nessuno. E’ scritto anche in un dossier dell’ENI. C’è un dossier ENI-LIBIA che porta la data del 14 luglio 1998 (lo trovate qui allegato pdf e riprodotto). "ENI-LIBIA Wafa Field e NC41 Offshore Progetto GAS". Gli uomini della società dell’Ing. Mattei avvertono che se si porterà a compimento questo progetto con il dittatore di libico Muhammar Gheddafi bisognerà poi fare i conti con le sanzioni USA. Dice il dossier l’Eni: "Le sanzioni colpiscono i soggetti (Società Petrolifere) operanti in Libia con ‘contratti’ la cui validità è successiva alla data di entrata in vigore del ‘Act’ e che violino le sanzioni imposte dall’ONU (risoluzioni 748 del 1992 e 883 del 1993).

  11. socrate

    Il matrimonio combinato con il dittatore Gheddafi si é rivelato un disastro, non solo in termini finanziari, ma soprattutto per via della nostra stessa credibilitá nel ambito internazionale!

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