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LE TRE POVERTÀ DEGLI ITALIANI

La crisi economica rende sempre più attuale il tema delle condizioni di vita degli italiani. A definire la povertà sono tre concetti cruciali. La povertà relativa è essenzialmente una misura della disuguaglianza. La soglia di povertà assoluta, invece, è identificata dal valore di un paniere di beni e servizi ritenuti essenziali nel contesto sociale di riferimento. In Italia è oggi essenzialmente un problema del Sud. Ma particolarmente interessante è guardare alla “vulnerabilità alla povertà”, che misura la povertà di domani. Nel nostro paese potrebbe avere dimensioni drammatiche.

Gli effetti della recente crisi economica hanno reso sempre più attuale il tema delle condizioni di vita degli italiani. Violando i confini di un dibattito tradizionalmente ristretto a una cerchia di specialisti, sono oramai numerosi i commentatori che affrontano il tema della povertà delle famiglie italiane, fornendo cifre che alimentano un senso di crescente preoccupazione, ma anche, ci pare, di grande confusione.
Per rendere più ordinato il dibattito, cerchiamo qui di chiarire tre concetti cruciali: “povertà relativa”, “povertà assoluta” e “vulnerabilità alla povertà”. E di fornire una sintesi aggiornata della relativa evidenza empirica.

LA POVERTÀ RELATIVA

Povertà relativa è la misura di povertà adottata come standard di riferimento dall’Unione Europea. Sono “relativamente poveri” gli individui il cui reddito è inferiore a una frazione del reddito medio o mediano della popolazione di riferimento. Secondo Eurostat, sono povere tutte le famiglie il cui reddito (per adulto equivalente) è inferiore al 60 per cento del reddito mediano. (1) Le variazioni dell’incidenza della povertà relativa, ossia della quota di individui poveri sul totale della popolazione, dipendono quindi non solo dall’eventuale peggioramento (o miglioramento) delle condizioni di vita delle famiglie prossime alla soglia di povertà, ma anche da variazioni del reddito medio nazionale. Paradossalmente, se il reddito di tutte le famiglie italiane aumentasse nella stessa proporzione, la povertà relativa rimarrebbe invariata in quanto aumenterebbe, della stessa proporzione, anche la soglia di povertà. Nel caso di aumenti di reddito più che proporzionali per le famiglie più ricche, la povertà relativa subirebbe addirittura un incremento.
La misura di povertà relativa non rappresenta perciò solo un indicatore di povertà ma anche, e forse soprattutto, di disuguaglianza. (2) L’aggiornamento delle recenti stime dell’Istat, evidenzia la scarsa variabilità temporale della povertà relativa (Figura 1). (3) Nel complesso, la povertà relativa non sembra, né sul piano concettuale né su quello empirico, lo strumento più adeguato per il disegno delle politiche di contrasto alla povertà.

Figura 1. La povertà relativa, 1985-2008

Fonte: Amendola, N., Salsano, F. e G. Vecchi (2011), Povertà, in “In ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità a oggi”, Il Mulino, Bologna, p. 315.

 LA POVERTÀ ASSOLUTA

La misura di povertà assoluta, adottata per esempio da Stati Uniti, Canada e dalla Banca Mondiale, si basa su di una soglia non direttamente legata alla distribuzione dei redditi familiari. La soglia assoluta è, infatti, identificata dal valore di un paniere di beni e servizi ritenuti essenziali nel contesto sociale di riferimento. La composizione e il valore del paniere mutano ovviamente nel tempo, ma non in ragione della variazione del reddito medio nazionale, quanto piuttosto della variazioni dei prezzi, delle preferenze individuali e sociali e della struttura socio-demografica. La soglia di povertà assoluta dell’Italia odierna è, ad esempio, ben diversa dalla soglia di povertà assoluta dell’Italia di Cavour e Garibaldi, perché è variato il valore della lira (oggi euro), perché si è modificato il paniere di beni e servizi ritenuti essenziali e perché sono mutate le esigenze nutrizionali degli italiani. L’adozione di una misura di “povertà assoluta” non implica, quindi, l’utilizzo di un paniere immutabile nel tempo, quanto piuttosto di una soglia che non dipende direttamente dalle condizioni di vita “degli altri”. L’incidenza della povertà assoluta rappresenta perciò un indicatore genuino di povertà, nettamente distinto dalle misure di disuguaglianza.
Fino a oggi l’Italia ha misurato episodicamente la povertà assoluta. Una recente ricerca, condotta nell’ambito del 150mo dell’Unità, ha prodotto una prima stima dell’incidenza nazionale della povertà assoluta in Italia dal 1861 al 2008 (Figura 2). (4) Si tratta di un andamento secolare decrescente ove è possibile però distinguere fasi di accelerazione e stagnazione. Se è vero, infatti, che lungo i 150 anni di storia unitaria l’incidenza della povertà passa dal 45 per cento di fine Ottocento all’attuale 4,4 per cento, è anche vero che il “miracolo” della sconfitta della povertà si osserva soprattutto negli anni Settanta del Novecento: in poco più di un decennio (1970-1981) l’incidenza passa dal 20 per cento a meno del 5 per cento. I decenni più recenti registrano invece un sostanziale ristagno dell’indicatore.

Figura 2. La povertà assoluta: percentuale di persone povere in Italia, 1861-2011

Fonte: Amendola, Salsano e Vecchi (2011), p. 297.

Il dato nazionale nasconde ampie disparità regionali (Figura 3). Sebbene i dati più recenti confermino quanto già riscontrato dall’Istat, la prospettiva storica evidenzia un aumento, apparentemente inarrestabile, del rapporto tra l’incidenza della povertà al Sud e al Nord, ossia dell’extra rischio di povertà che deve sostenere chi decida di emigrare dal Nord al Sud d’Italia. (5) La povertà assoluta è, indubitabilmente, una “questione meridionale” (LINKDirindin, 2011La povertà in Italia: un problema del sud”, www.lavoce.info/articoli/-poverta/pagina1002344.html).

Figura 3. L’extra rischio di povertà per chi emigra dal Nord al Sud, 1861-2008

Fonte: Amendola, Salsano e Vecchi (2011), p. 311. La linea rossa smussa le oscillazioni dell’extra rischio di povertà (linea tratteggiata).

VULNERABILITÀ ALLA POVERTÀ

La vulnerabilità alla povertà non misura la povertà di oggi, ma quella di domani. Sono vulnerabili le famiglie che hanno una probabilità superiore alla media nazionale di sperimentare, nel futuro  (tipicamente nei dodici mesi successivi all’intervista), un episodio di povertà. Si tratta tanto di famiglie povere oggi, e che hanno bassa probabilità di uscire domani da questa condizione (si parla in tal caso di povertà cronica), quanto di famiglie non ancora povere, ma che non hanno strumenti idonei per fronteggiare eventuali shock negativi di reddito.
La vulnerabilità è una misura prospettica che, pur essendo legata all’incidenza attuale della povertà, offre utili indicazioni circa l’evoluzione potenziale del fenomeno e costituisce uno strumento prezioso nel disegno di strategie di prevenzione della povertà.
Mancano, in Italia, sistematiche analisi quantitative della vulnerabilità economica – così come appena definita. Alcune stime preliminari  hanno prodotto risultati molto netti che, se confermati, suggeriscono dimensioni insospettate del fenomeno. (6) Dal 1985 al 2001 si stima che circa la metà della popolazione abbia un rischio elevato di cadere in povertà (Tabella 1). Sorprendentemente, il gruppo dei vulnerabili, è composto non solo da famiglie povere, ma soprattutto da famiglie non povere. Il 40 per cento circa delle famiglie non povere è vulnerabile. Accanto a una povertà assoluta stabile, se non in leggera flessione, emerge dunque una latente fragilità delle famiglie italiane.
Le famiglie devono convivere con il rischio e l’incertezza. Se il risparmio privato le può aiutare a proteggersi contro i futuri “giorni di pioggia”, ciò non giustifica l’assenza, nel welfare italiano, di meccanismi automatici che assicurino, almeno in parte, quelle più esposte rispetto alle conseguenze negative del rischio. Si tratta però di interventi che vanno rivolti alle famiglie realmente vulnerabili che non sono solo e necessariamente quelle attualmente povere.

Tabella 1 – La vulnerabilità alla povertà in Italia, 1985-2011

Fonte: Rossi e Vecchi (2011).

(1) L’Istat adotta anche il criterio dell’international standard of poverty line secondo il quale sono povere tutte le famiglie il cui reddito pro-capite è inferiore al 50 per cento del reddito medio pro capite nazionale.
(2) Si veda Duclos J-Y and A.Araar (2006), “Poverty and Equity: Measurement, Policy and Estimation with DAD”. Springer/Kluver.
(3) Le stime in figura 1 differiscono leggermente da quelle dell’Istat in quanto basate sulle spese reali delle famiglie, cioè aggiustate per le differenze territoriali dei prezzi. Vedi Amendola, N., Vecchi G e B. Al Kiswani (2009) “Il costo della vita al Nord e al Sud d’Italia, dal dopoguerra a oggi. Stime di prima generazione”. Rivista di Politica Economica, aprile-giugno
(4) Vecchi, G. (2011), “In ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità a oggi”, Il Mulino, Bologna.
(5) Istat, (2011), La povertà in Italia, www.istat.it/it/archivio/33524.
(6) Rossi, M. e G. Vecchi (2011), “La vulnerabilità economica delle famiglie italiane”, Rivista di Politica Economica (in corso di stampa).

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SE LA CRISI NON GIUSTIFICA LA PRIVATIZZAZIONE DEI SERVIZI

  1. M.J

    Volevo solo fare evidenziare questa ricerca condotta da Dr. Paul Segal che è molto interessante, forse è il caso di provare a stimare una RD (Resource Dividend) anche per l’Italia? http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0305750X10001774

  2. Lorenzo

    Gli autori dell’articolo hanno scritto che l’incidenza della povertà è scesa drasticamente negli anni Settanta, per poi scendere ulteriormente negli anni seguenti. Osservo che nell’articolo “La generazione che paga per tutti”, pubblicato contemporaneamente, è stato messo messo sotto accusa l’enorme debito pubblico accumulato dall’Italia a partire dagli anni Sessanta. Mi chiedo se l’accumulo di debito si sia rivelato solo un danno per l’Italia o abbia in qualche modo contribuito al miglioramento delle condizioni economico-sociali del Paese, visto che un così ingente dispendio di denaro è stato attuato dai Governi a livello nazionale, con effetti sull’intera popolazione.

  3. enrico villa

    Giustissimo, Lorenzo. Si veda anche il mio commento all’articolo citato sul debito pubblico. Mi sembra ora inevitabile che una corretta gestione del debito, anche eliminando inutili posizioni parassitarie, cancellerà tantissimi stipendi e rendite, con la conseguenza – tra quelle positive – anche di impoverire numerosi percettori. Che, purtroppo, rischiano di essere i nostri figli. Anche per questo suggerisco di iniziare con una pesante imposta patrimoniale: chi ha avuto, sopporti qualche sacrificio, prima di essere coinvolti tutti. Destinazione del ricavato: 2/3 alla riduzione del debito e 1/3 alle risorse per lo sviluppo, vale a dire investimenti produttivi ed incentivi alle aziende che assumono ed investono. Non possiamo continuare a sognare di prendere solo ai ricchi: si deve iniziare con sacrifici individuali lasciando ai figli l’incombenza di non sbagliare più, generando una nuova classe politica e dirigente pulita ed efficiente.

  4. AM

    Chiedo scusa per la mia domanda, forse banale per gli autori. Quando si parla di povertà degli italiani ci si riferisce solo ai cittadini italiani o anche gli stranieri che vivono in Italia (oltre 5 milioni)? Poichè una parte non trascurabile degli immigrati vive in condizioni di povertà è chiaro che se si inseriscono nel computo anche i residenti stranieri, il continuo flusso migratorio (e non mi riferisco solo a Lampedusa) tende ad aumentare la percentuale dei poveri presenti in Italia. Del resto basta osservare i mendicanti diffusi in tutte le grandi città italiane e coloro che urufruiscono dei pasti gratuti presso le parrocchie per accorgersi che la quasi totalità dei poveri (o almeno di quelli visibili) non è italiana.

  5. SAVINO

     Manca ogni forma di ascensore sociale. Se sei povero, ma un genio, rimani come minimo ancora povero. Allora, la vera povertà è la mancanza di opportunità.

  6. marco spampinato

    Per quale ragione si dovrebbe considerare ininfluente la riduzione della diseguaglianza che interessa il Sud e il Centro Nord in un certo periodo iniziale degli anni novanta? Diseguglianza che invece sembra crescere, data quella misura, in anni successivi? La prima dimensione della povertà, quella relativa, che giustamente si dice essere uno dei possibili indici di diseguaglianza, mi sembra sottovalutata dalla concezione teorica implicitamente assunta dagli autori. Quella concezione teorica mi sembra legittima (intendo dire che può avere una sua ragionevolezza) quando non sia così correlata alla residenza, ma molto facilmente criticabile a fronte di una elevata disparità territoriale. A meno che gli autori non propongano di fatto una stabilizzazione di un modello dualistico in cui il Sud beneficia solo di politiche redistributive (una volta le si chiamava assistenziali), mentre la crescita è localizzata solo al Centro-Nord. La posizione sembra configurare una policy pensata da un donor per un paese estero: un donor che si preoccupa di garantire solo che i poveri non siano “troppo poveri” (cibo, vestiario, cure mediche strettamente necessarie). Tutto il resto non conta?

  7. AM

    I non addetti ai lavori sono interessati a sapere se nel computo delle povertà entrano anche gli immigrati ancora privi di cittadinanza italiana. La questione non è affatto secondaria perchè, nel caso affermativo, ogni nuovo arrivo di profughi “politici o economici” comporterebbe un aumento delle povertà. Negli ultimi tempi il numero dei mendicanti ai semafori delle città è aumentato sensibilmente e si presume che queste famiglie vivano in condizioni di grande indigenza. Gradirei una risposta e ringrazio.

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