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COOPERAZIONE: LE MOLTE SFIDE DI UN MINISTERO NUOVO

 L’aiuto pubblico allo sviluppo è uno dei campi in cui l’Italia ha perso più terreno rispetto agli altri paesi Ocse. Non solo l’ammontare totale delle risorse stanziate è stato decurtato nel corso degli anni, ma i tagli hanno colpito di più proprio quei paesi poveri dove l’aiuto è più necessario, favorendo quelli medio-ricchi che già beneficiano di un eccessivo afflusso di aiuti. Sarà sufficiente la novità, positiva, di un ministro dedicato per cambiare questo stato di cose? Necessario riformare la legge, anche per risolvere i possibili conflitti con il ministero degli Esteri.

Il quarto Forum di alto livello sull’efficacia degli aiuti, iniziato il 29 novembre a Busan in Corea, costituisce il punto di arrivo di una serie d’incontri per migliorare l’efficienza gestionale dell’aiuto cominciata a Roma nel 2003: È però anche il primo appuntamento internazionale dedicato alla cooperazione del nuovo esecutivo italiano e il primo incontro a cui partecipa il neo-ministro per la Cooperazione internazionale.

L’IMPORTANZA DI UN MINISTRO DEDICATO

Tra i diciassette ministri del governo Monti c’è, per la prima volta nella storia repubblicana, un ministro senza portafoglio per la Cooperazione internazionale e l’integrazione. La normativa vigente, che inquadra questa politica dal 1987, definisce la cooperazione allo sviluppo come parte integrante della politica estera del paese, perciò la sua rappresentanza politica è generalmente stata affidata a sottosegretari agli Affari esteri, se si esclude la breve esperienza del viceministro degli Esteri del secondo governo Prodi. Nel “Berlusconi 4”, pur con ventisei ministri, la delega alla Cooperazione allo sviluppo l’aveva mantenuta il ministro per gli Affari esteri, insieme a quella per l’Africa e a molte altre.
Con la nomina di un ministro interamente dedicato, la cooperazione internazionale assume piena rilevanza in una compagine governativa ridotta e siede per la prima volta in Consiglio dei ministri. Il segnale è ancora più importante dopo una fase in cui gli aiuti sono stati decurtati tra il 2008 e il 2012 dell’88 per cento e sottolinea la volontà di renderla una politica centrale proprio quando si punta a ridare credibilità internazionale al paese.
Quale impatto potrebbe avere la nomina del ministro su quantità e quantità dell’aiuto italiano?
Regno Unito, Germania, Canada, Lussemburgo, Svezia, Danimarca, Norvegia, Belgio, Nuova Zelanda, Olanda, Finlandia e Irlanda – ossia la metà dei paesi Ocse – hanno un ministro esclusivamente dedicato alla cooperazione allo sviluppo. E tutti figurano nella classifiche degli aiuti internazionali come “buoni donatori” per quantità. Avere un ministro per la cooperazione allo sviluppo sembra dunque giovare agli stanziamenti di bilancio per questa materia. Dal massimo dell’1 o 0,9 per cento di Pil stanziato in aiuti da Lussemburgo, Svezia, Norvegia, Danimarca e Olanda, al minimo dello 0,33 per cento del Canada o dello 0,38 per cento della Germania, si tratta sempre comunque di uno sforzo più che doppio rispetto a quanto fatto dall’Italia.
Nessuno dei paesi “con cooperazione di rango ministeriale” ha tagliato significativamente l’aiuto nel corso dell’attuale crisi economica – neppure l’Irlanda –, come se avere un ministro che ne difende le ragioni garantisse anche la stabilità degli stanziamenti da tagli lineari in periodi di difficoltà economica.
Quanto all’efficacia della cooperazione, negli ultimi cinque anni  alcuni paesi Ocse si sono impegnati nel tentativo di realizzare riforme gestionali entro l’appuntamento di Corea, per ridurre duplicazioni, sprechi e aumentare la trasparenza. La Danimarca è il paese che è riuscito a portare a termine il maggior numero di riforme, seguita da Irlanda, Svezia, Olanda; i peggiori sono stati Belgio, Lussemburgo, Italia, Germania e Finlandia. (1) In sintesi, avere un ministro per la cooperazione non sembra né ostacolare né agevolare una buona gestione. I migliori risultati sono forse dovuti a un forte investimento del “vertice politico” della cooperazione a realizzare riforme che altri hanno trattato come un’agenda tecnica.
In questo campo, l’Italia, ha raggiunto solo due obiettivi. Ad esempio, resta comunque il peggior donatore europeo, che obbliga i paesi in via di sviluppo ad acquistare il made in Italy. Anche sulla trasparenza di dati, il nostro paese ottiene risultati peggiori della Lituania, della Slovacchia, della Lettonia. (2) L’aiuto italiano è meno prevedibile e si concentra in quei paesi su cui tutti i donatori lavorano e non su quelli più bisognosi o che meglio spenderebbero gli aiuti.

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COLPA SOLO DEI TAGLI?

I risultati dell’Italia sull’efficacia dell’aiuto sono ancora più deludenti alla luce del fatto che dal 2008 in poi il governo aveva risposto ai segnali di allarme provocati dai tagli finanziari sottolineando il miglioramento della qualità, opponendo direttamente qualità e quantità. Si tratta di capire se una performance qualitativa così modesta sia legata al drammatico disinvestimento finanziario, che ha provocato una riduzione delle risorse del 78 per cento tra il 2008 e il 2011, o all’incapacità di riformarsi dell’assetto istituzionale-legislativo varato nel 1987. Le conseguenze di policy che se ne traggono sono molto diverse.
La presenza del ministro senza portafoglio per la Cooperazione internazionale e integrazione può essere un’opportunità per ricostruire la credibilità internazionale e una politica pubblica di cooperazione in termini quantitativi e qualitativi solo se si risolveranno alcuni nodi con il ministro degli Esteri. La normativa in vigore dal 1987 rende la cooperazione allo sviluppo parte integrante della politica estera e stabilisce alcune aree su cui ha esplicita competenza il ministro degli Esteri, che può delegare esclusivamente sottosegretari agli Esteri. È il ministro degli Esteri che coordina tutte le attività di cooperazione del settore pubblico, predispone la relazione programmatica, presiede il comitato che approva le iniziative d’intervento e strategiche e firma iniziative d’emergenza.
Se non si realizzassero almeno alcune modifiche alla legge, che dal 1996 si tenta di riformare senza successo, il neo-ministro sarebbe al massimo uno sherpa del presidente del Consiglio con una funzione di rappresentanza e coordinamento tra dicasteri che non potrebbe di fatto esercitare. Nella peggiore delle ipotesi, si creerebbe un conflitto di attribuzioni permanente con il ministro e i sottosegretari degli Affari esteri che renderebbe l’azione di cooperazione dell’Italia ancora più incoerente.

(1) Ocse, Dac – Paris Declaration Monitoring Survey, settembre 2011.

(2) http://www.publishwhatyoufund.org/resources/index/2011-index/

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RENDIMENTI A CONFRONTO

  1. AM

    L’Italia in passato (ricordiamo in particolare i tempi Craxi) ha erogato molti aiuti e soprattutto (al contrario di Francia, Inghilterra, ecc.) quasi sempre senza contropartite o ritorni politici o economici (ad eccezione ovviamente di vantaggi personali). Tuttavia vi sono stati sprechi e corruzione e i risultati sono stati deludenti. Oggi l’Italia è assillata da ben altri problemi e dobbiamo fare finalmente le riforme e sforzarci di non perdere terreno in altri ben più importanti campi legati alla competitività internazionale. Non dimentichiamo che il terzo mondo, come ci illustra quotidianamente la RAI, lo abbiamo in casa; e non mi riferisco solo agli immigrati. Cogliamo questa nesessaria pausa per progettare per il futuro, una volta superata la crisi, un’azione più incisiva.

  2. Nicola Verri

    Buongiorno, sarei interessato a conoscere se esistono dati riferiti agli aiuti non governativi, suddivisi per provenienza dai vari stati (ong, enti religiosi etc.). Grazie, Nicola Verri

  3. marco

    Gli aiuti da Stato a Stato si sono rivelati spesso causa di corruzione soldi buttati in armi, specie con paesi del terzo mondo. Al contrario le ONG sono state quasi sempre un fattore reale di sviluppo e collaborazione positiva. Si potrebbe allora pensare che soldi e progetti siano affidati soltanto alle ONG? Naturalmente con una supervisione non burocratica da parte dello Stato. C’è davvero bisogno di un ministro?

  4. Francesco Santodirocco

    Il vero compito del nuovo ministero dovrebbe essere quello di facilitare al massimo politiche di partenership tra l’Italia ed i Paesi africani che abbiano le potenzialità (risorse non ancora sfruttate, come ad es. il Congo ex belga) per diventare in tempi medio-brevi poli di sviluppo grazie all’apporto e alla concorrenza nostra (con l’apporto di manodopera qualificata e un minimo di capitali iniziali) e dei Paesi limitrofi più poveri (manodopera meno qualificata. Una emigrazione volontaria e diffusa, dal nord verso il sud allevierebbe la nostra disoccupazione e fermerebbe quella africana, non solo, ma limiterebbe la voracità e le depredazioni delle multinazionali di alcuni Stati (vedi la Cina ed altri) che non si fanno scrupoli a fare guerre (armando anche i bambini), pur di accaparrarsi sia il sottosuolo che il soprasuolo (Land Gramping).

  5. Dario Quintavalle

    Lavoro da quattro anni in progetti di cooperazione allo sviluppo e assistenza tecnica nel settore del capacity building giudiziario e amministrativo. Credo che prevedere un’agenzia (come la tedesca GIZ) sarebbe stato molto più efficace che affidarsi all’ennesimo Ministero. Poi, ovviamente, si possono fare amare considerazioni sull’utilità che ha la spesa per la cooperazione: nella mia limitata esperienza, essa sembra creare o rafforzare in alcuni paesi beneficiari, soprattutto africani, una ‘victim mentality’ e una cultura assistenzialistica.

  6. Iacopo Viciani

    Gentile lettori vi ringrazio dei vostri commenti ai quali tento adesso di rispondere.
    Sicuramente la costituzione di un'Agenzia per la cooperazione allo sviluppo è nell'agenda del dibattito politico più di un Ministero. S'iniziò a parlare di un'agenzia attuativa per realizzare gli intervanti di cooperazione italiana nel 1996 . Non si considera un'agenzia esclusivamente di cooperazione tecnica come la GIZ ma un'agenzia d'implementazione complessiva. E' interessante notare che la Germania ha un Ministero per la cooperazione allo sviluppo con un Ministro dal 1961, ma si è data un'agenzia di cooperazione tecnica. Ci sono paesi con il ministero o agenzia esecutrice che non hanno dato una rilevanza istituzionale alla cooperazione tecnica. Quello che la GIZ fa è centralizzare tutta la cooperazione tecnica pubblica in un'unica struttura.
    Per quanto riguarda le risorse proprie delle ONG, l'OCSE tenta alcune stime e valutazioni di destinazione, ma sono sempre sottostimate. In Italia una stima sui bilanci pone la raccolta privata a 500 milioni di euro mentre l'OCSE la pone a soli . Le ONG sono attori di sviluppo importanti, ma per creare cambiamento sostenibile su larga scala è necessario che la stato abbia un ruolo centrale che non deve essere bypassato. Sicuramente dopo i pesanti disinvestimenti di questi anni, si sono allentate anche le pressioni clientelari sulla cooperazione italiana, anche se l'Italia è il paese EU che condiziona di più i propri aiuti all’acquisto di beni e ser

  7. Iacopo Viciani

    continua…
    Per quanto riguarda le risorse proprie delle ONG, l'OCSE tenta alcune stime e valutazioni di destinazione, ma sono sempre sottostimate. In Italia una stima sui bilanci pone la raccolta privata a 500 milioni di euro mentre l'OCSE la pone a soli . Le ONG sono attori di sviluppo importanti, ma per creare cambiamento sostenibile su larga scala è necessario che la stato abbia un ruolo centrale che non deve essere bypassato. Sicuramente dopo i pesanti disinvestimenti di questi anni, si sono allentate anche le pressioni clientelari sulla cooperazione italiana, anche se l'Italia è il paese EU che condiziona di più i propri aiuti all’acquisto di beni e servizi nazionali. Con risorse quasi azzerate ci si può effettivamente permettere di essere innovativi nel ripensamento della nuova architettura istituzionale dello sviluppo in modo che unisca il tema tradizionale degli aiuti, con quella del finanziamento al cambiamento climatico, le rimesse degli immigrati, l’attrazione degli investimenti esteri e della coerenza delle azioni di politica estera del nostro Paese

  8. Francesco Santodirocco

    Qualcuno mi può dire come se ne esce da questa disastrosa situazione,se non si provano altre soluzione alternative?Le goccioline degli “aiuti”?In mezzo secolo cosa hanno migliorato?Tutte le teorie di aiuto allo sviluppo, i metodi di valutazioni,le loro applicazioni a distanza di qualche anno hanno davvero prodotto qualcosa di concreto sul terreno?La Storia delle Americhe e dell’Australia non dice niente?Cosa sta facendo per esempio la Cina,interesserà a qualcuno di responsabilità dei nostri?Se mi da una sua valutazione,lo apprezzerei.Grazie

  9. Daniele panzeri

    Per unire quantità e qualità, la proposta è quasi banale: promuovere l’impiego di rimesse da parte dei migranti per progetti di assistenza alle popolazioni nei loro paesi d’origine. Questi potrebbero essere proposti dalle ONG, in associazione con i migranti ed in partnership con CBO locali. Verrebbero finanziati dai migranti, a cui però il governo donatore farebbe top up, su base percentuale e garantirebbe alcuni incentivi (agevolazioni fiscali, accordi con le compagnie di rimesse, ecc.). In questo modo si garantirebbe: – quantità: unendo organicamente le poche risorse pubbliche a quelle private. – continuità dei finanziamenti: le rimesse sono di gran lunga più affidabili degli APS. – trasparenza: per la necessità di rendere conto ai migranti e attraverso di loro ai beneficiari. La trasparenza porta all’aumento della qualitaà e quindi dell’efficacia. – pertinenza: l’investimento diretto dei migranti, porta alla volontà di trovare progetti che funzionino davvero e rispondano a reali necessità e per le stesse ragioni anche alla loro sostenibilità di lungo termine. – integrazione: si riconoscerebbe il ruolo attivo dei migranti come partner di maggioranza nella cooperazione.

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