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COME EVITARE LA SINDROME GRECA

Nell’Italia di Monti si aggira come uno spettro la minaccia che la manovra anti deficit finisca per generare una recessione tale da far calare il Pil più di quanto faccia calare il deficit. Senza la possibilità di svalutare, l’unico rimedio consiste nella riduzione dell’Irap oggi e dei contributi sociali domani, quando la riforma delle pensioni sarà entrata a regime. È l’unica svalutazione oggi alla portata di mano dell’Italia: la riduzione del costo del lavoro.

La manovra licenziata dal Consiglio dei ministri del 4 dicembre aumenta di 20 miliardi le misure estive di correzione del bilancio del governo Berlusconi, accrescendo la probabilità che l’Italia raggiunga il pareggio di bilancio nel 2013. È una manovra piena di tasse e riduzioni di spesa che, data l’urgenza, colpiscono soprattutto gli obiettivi più facili da raggiungere: lavoratori, pensionati e proprietari di case. Non contiene tutte le riduzioni di spesa e di servizi pubblici che probabilmente toccheranno agli italiani nei prossimi anni, a cominciare da quelle relative ai servizi sanitari. E non fa concorrere in misura egualmente intensa le categorie finora poco tassate con le successive manovre del governo Berlusconi.
Ma non c’è solo l’equità a ossessionare il presidente del Consiglio. Nell’Italia di Monti si aggira come uno spettro la sindrome greca, cioè la minaccia o il timore che la manovra presentata con l’obiettivo di azzerare il deficit entro il 2013 finisca per generare una recessione tale da far calare il Pil più di quanto faccia calare il deficit. Se ciò dovesse accadere avremmo un risultato paradossale: una manovra di bilancio che aumenta anziché diminuire il rapporto deficit-Pil nel corso del tempo. La sindrome greca non è però una condanna ineluttabile se il governo ha successo nell’attuare una duratura svalutazione fiscale.

TUTTE LE MANOVRE ANTI-DEFICIT SONO RECESSIVE

Una manovra che riduce il deficit pubblico è recessiva, tranne in casi isolati. Se per ridurre il deficit si aumentano le tasse sul reddito personale, ciò riduce il reddito disponibile e deprime i consumi. Se invece si aumentano le tasse sugli utili delle società, i minori utili distribuiti riducono il reddito disponibile e i consumi delle famiglie che possiedono le azioni o il capitale delle aziende colpite dalla tassa. Se si aumenta l’iva, si colpiscono i consumatori – che a differenza delle aziende non possono scaricarla a valle su nessun altro – perché la tassa si traduce solitamente in più alti prezzi di vendita, il che ancora una volta riduce il potere di acquisto del reddito disponibile delle famiglie. Insomma, un aumento delle tasse indipendentemente da come è attuato è solitamente recessivo.
Ma anche le manovre che riducono il deficit pubblico tagliando la spesa pubblica sono molto spesso recessive. I dipendenti pubblici che si sono visti sospendere i programmati aumenti di stipendio e i pensionati che vedono sospeso per un anno l’adeguamento del loro assegno mensile all’inflazione soffrono una riduzione del loro reddito e sono quindi indotti a consumare di meno. Lo stesso vale per i titolari delle pensioni di anzianità: fino a ieri contavano su un certo assegno e oggi invece vedono la loro pensione di anzianità trasformata in una pensione derivante da uscita “anticipata” dalla forza lavoro. Anch’essi si trovano a dover accettare una riduzione del loro assegno oppure a lavorare di più per mantenere inalterato il loro assegno. Difficile che, presi dall’entusiasmo per la manovra Monti, vadano al supermercato a riempire il carrello della spesa.
L’esperienza storica insegna però che, con il passare del tempo, il fatto che un paese riduca il deficit aumentando le tasse o riducendo le spese fa una certa differenza. Nei paesi nei quali si è scelto di tagliare il deficit aumentando le tasse la spesa pubblica è ritornata a crescere rapidamente. Nei paesi in cui si è ridotta la spesa, le cose sono andate diversamente: le riduzioni di spesa e la parallela riduzione del deficit sono state più durature e hanno consentito l’attuazione di riduzioni di imposta nel corso del tempo. Tutte le manovre sono recessive dunque, ma le manovre centrate sulle riduzioni di spesa si sono in passato dimostrate più efficaci. Il punto non è quindi se le manovre siano recessive ma quanto siano recessive.

COME ANDÒ CON LA MANOVRA AMATO

Nel settembre 1992, l’allora premier Giuliano Amato attuò una drastica correzione di bilancio pari a circa 90mila miliardi di lire di allora che, con il coefficiente di rivalutazione Istat 1993-2011 pari a 1,6, corrispondono a 74,3 miliardi di euro di oggi. Se si somma la correzione di 56 miliardi di euro attuata da Berlusconi durante l’estate con i 20 miliardi della manovra di Natale del governo Monti si arriva a una cifra del tutto confrontabile. Si può dunque prendere le misure prese da Amato come base per farsi un’idea sui potenziali effetti recessivi della manovra (delle manovre) di oggi sul 2012.
I dati trimestrali sull’evoluzione del Pil di allora indicati nella tabella mostrano un dato molto importante. Come spesso accade in queste occasioni, le manovre correggono una situazione già deteriorata per lo stato dell’economia. Avvenne così anche nel 1992-93. La manovra fu approvata nel settembre 1992 con misure a valenza immediata (ad esempio la patrimoniale sui depositi bancari) e altre (privatizzazioni, blocchi di spesa del pubblico impiego) a efficacia differita che andarono a regime a partire dal 1993. Ma i dati dicono che l’economia andava già male nel secondo trimestre 1992. Quando Amato approvò la sua Finanziaria nel settembre 1992, il Pil era già sceso di un punto percentuale circa. E così con l’attuazione delle pesanti misure fiscali di Amato, il Pil diminuì solo di poco più di mezzo punto percentuale. Nel valutare gli effetti di una manovra restrittiva occorre dunque considerare che, quando questa interviene in una situazione in cui i cittadini di un paese si sentono sull’orlo di un precipizio, anche misure molto restrittive producono un risultato meno negativo del previsto se contribuiscono a una svolta che trasforma l’umore delle famiglie e delle imprese da pessimista in ottimista.

IL RUOLO DELLA SVALUTAZIONE, IERI E OGGI

C’è una grande differenza tra oggi e allora, però. Nel 1992 c’era la lira, che poteva essere svalutata con una decisione del governo italiano. Così avvenne. La lira si deprezzò del 10 per cento tra il settembre e l’ottobre 1992 (quando l’Italia lasciò lo Sme, il Sistema monetario europeo, l’accordo di cambio che vincolava i tassi di cambio tra le monete europee a non muoversi troppo rispetto a parità centrali prestabilite) e di un altro 10 per cento tra l’ottobre 1992 e il marzo 1993. Il 20 per cento di svalutazione aiutò gli esportatori italiani sui mercati esteri e mise in difficoltà i concorrenti esteri sul mercato italiano, tra l’altro, come indicato dai dati della tabella, in misura crescente nel tempo. Di sicuro, grazie alla svalutazione della lira, i tagli di Amato furono meno recessivi di quanto avrebbero potuto. Oggi la lira non c’è più; abbiamo l’euro, il cui cambio con le altre valute non è fissato a Roma, ma a Francoforte (e Berlino) oltre che dalla domanda e dall’offerta di valute sui mercati finanziari. Il rischio che la combinazione delle politiche fiscali restrittive di Berlusconi e Monti sia più negativo oggi che allora sul Pil è purtroppo concreto, anche in considerazione del fatto che, in parallelo con l’Italia, anche gli altri paesi europei sono nel pieno delle loro manovre di contrazione fiscale. Come direbbe il nostro primo ministro, ognuno sta facendo i compiti a casa sua.
È proprio per questo, per tenere lontano la sindrome greca, che la manovra del governo Monti deve includere e dare rapida attuazione da subito all’unica svalutazione oggi alla portata di mano dell’Italia: la riduzione del costo del lavoro per via fiscale. Già oggi nella manovra trova opportunamente spazio una riduzione dell’Irap. Ma con il procedere della riforma pensionistica si potrà e si dovrà fare di più: le risorse aggiuntive generate dall’innalzamento dell’età pensionabile creeranno infatti qualche spazio per ridurre i contributi sociali, il cosiddetto cuneo fiscale. Solo così sarà possibile farla finita una volta per tutte con uno dei più discutibili primati dell’Italia: quello di vantare simultaneamente un elevato costo del lavoro che fa perdere competitività alle nostre imprese e miseri salari netti nelle tasche di chi lavora.

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FRAU MERKEL E GLI INTERESSI TEDESCHI

10 commenti

  1. Piero

    Concordo su tutto, chi lo va a dire a Monti? Un aspetto del decreto che secondo me farà male all’industria italiana è la tassa sugli Yacht. Non dimentichiamoci che la nostra cantieristica navale da lavoro a decine di migliaia di lavoratori ed è uno dei settori di eccellenza italiana. Verrà penalizzato anche l’aspetto turistico, molte imbarcazioni preferiranno visitare le coste francesi e spagnole a discapito delle coste italiane. Non dimentichiamoci che questo tipo di turismo porta molto denaro e lavoro nei paesi costieri, vedi Liguria, Toscana, Sardegna. Spero venga corretta in Parlamento, è totalmente demagogica.

  2. Pino

    La manovra fatta di incrementi di imposte sulle classi medio-basse è sbagliata e porterà ad una maggiore contrazione sulla domanda interna. La riduzione del prelievo sulle imprese porterà vantaggi solo alle imprese esportatrici (che comunque non potranno beneficiare della svalutazione della lira come nel 93), mentre aumenteranno le difficoltà per chi vende in Italia. Le risorse sono state prese dove era facile prenderle (case, beni di lusso, ecc.) con misure occasionali senza cercare di incidere a fondo sull’evasione fiscale. Per colpa dell’evasione fiscale paghiamo differenziali IRPEF più alti rispetto alla Germania e Francia (circa 13% in più) che ci impediscono di ridurre il carico fiscale e contributivo sul lavoro, ma si preferisce non toccare le rendite fiscali pensando che si può uscire dalla crisi senza riforme radicali seguendo il vecchio detto “io speriamo che me la cavo”. Siamo nell’euro non si può fare, sveglia ragazzi!

  3. Luca

    Non occorreva un super cervellone, preside della Bocconi, per una manovra del genere. L’avrebbe saputa fare qualunque politico… Occorre incidere molto, molto, molto più pesantemente sulla spesa pubblica parassitaria, tipo i vitalizi dei parlamentari ed il loro mille privilegi e sui costi dei partiti/parassiti, veri e propri esempi di “antipolitica”, e perfette macchine per spendere il denaro del contribuente in modo inutile ed arrogante. Sono dunque profondamente deluso; quando piangeranno i parlamentari perchè i loro trattamenti economici e privilegi saranno stati equiparati a quelli europei allora, forse si sarà fatto qualche passo in avanti per la ripresa del paese. Non dimentica che alle prossime elezioni politiche si ripresenteranno tutti coloro che ci hanno governato allegramente per 30 anni e condotti sull’orlo del precipizio; dobbiamo proprio votarli nuovamente? Vi affidereste per la cura a chi ha creato il male?

  4. Leopoldo DURANTE

    Una domanda: se la Bce rinunciasse al proprio credito verso lo stato sovrano, acquisito a costo zero, non sarebbe il minore dei mali ed il più efficace rimedio?

  5. fulvio gnesda

    Concordo con l’analisi di Pino ed aggiungo che l’aumento dell’accise sui carburanti inciderà non solo sull’inflazione ,che a questo punto è il male minore, bensì sul pil; occorre fare molto di più su tutto ciò che frena la crescità, prima lotta all’evasione poi lotta ai politici tanto le cose sono correlate.

  6. hk

    Il nostro vicino Grecia ci mostra come azioni di forte aumento di imposte sono terribilmente deflattive e non riducono il deficit! (il deficit tornerà al 120% nel 2020) Però a differenza del nostro vicino greco in Italia le tasse però erano già esagerate, un ulteriore aumento creerà quindi una drammatica accelerazione dei problemi. Avete certo visto come all’aumento della pressione fiscale sulle auto ha portato a un crollo del mercato. Crollo che è costato allo stato molto di più di quanto ha ricavato. Solo un default ci potrebbe consentire di ripartire. Conoscete forse un solo caso nella storia economica di una situazione di eccesso di debito simile all’Italia che si sia risolto senza un default? Il fatto poi che il nostro generale si sia fatto decorare (senatore a vita) prima ancora della battaglia, lascia noi soldati, a dir poco, perplessi.

  7. Anonimo

    Nel commercio internazionale le politiche protezionistiche dei sistemi finanziari sono caratterizzate da un crescente stato restrittivo in funzione delle garanzie di risparmio di natura pubblica e privata nel saldo dei conti e quindi di finanziarizzazione delle situazioni di maggiori deficit causa della crescente domanda di spesa rispettivamente dei consumatori individuali e dello Stato.

  8. Anonimo

    Concordo con le considerazioni dell’articolista sui rischi recessivi della manovra, tuttavia lo strumento di intervento proposto è realisticamente molto limitato. A mio avviso occorre dare la priorità ai “provvedimenti per la crescita”, e nel breve termine favorire gli investimenti, al limite anche con sussidi diretti. Si aumenterebbe il credito bancario e l’afflusso di capitali dall’estero, con effetti immediati sulla domanda interna.

  9. alter

    Monti ha tirato fuori il meno peggio. Servivano 20 miliardi maledetti e subito. O colpisci i consumi, o i redditi o i patrimoni. Positivo il ragionamento sull’irap che comincia a consentire la deducibilità del costo del lavoro poi miope il ragionamento che dice “a fare come Monti erano capaci anche quelli prima di lui”. E allora com’è che questi geni che lo hanno preceduto ci hanno trascinato nel baratro?

  10. Donato Ceci

    Trovo interessante il confronto con la “manovra Amato” e la tabella che indica l’evoluzione del Pil negli anni successivi alla manovra stessa. Sicuramente può essere presa come riferimento per un’analisi di previsione sulle ricadute dell’attuale “manovra Monti”. Per quanto attiene la scelta, o meglio, la proporzionalità di interventi tra aumento di tasse e riduzioni di spesa, sarebbe interessante analizzare l’intervento di Amato in ambito fiscale quale categorie, redditi e capitali colpì. Una manovra rivolta principalmente ad un aumento di tasse ed imposte, ma rivolta alle categorie più abbienti con una contemporanea riduzione degli oneri per le categorie meno abbienti, sicuramente avrebbe il duplice effetto di incrementare le entrate e di distribuire la ricchezza in maniera più equa con beneficio immediato dei consumi.

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