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COSÌ L’EUROPA HA SALVATO DURBAN

Un successo o un fallimento la conferenza di Durban sui cambiamenti climatici? Il giudizio dipende molto dalle aspettative che si erano riposte nell’incontro. Un atteggiamento realistico porta a sottolineare il ruolo attivo dell’Unione Europea in una negoziazione che resta complessa per diversi motivi. E a considerare positivo il fatto che sia riuscita a far accettare ai grandi emettitori come Usa, Cina e India un accordo globale legalmente vincolante legato al nuovo Kyoto. Non si è ancora salvato il pianeta, ma probabilmente si è salvato almeno il negoziato.

La conferenza di Durban (Cop17, United Nations Framework Convention on Climate Change) si è chiusa domenica 11 dicembre con un giorno e mezzo di ritardo rispetto a quanto previsto.
Definire un incontro come quello di Durban un successo oppure un fallimento dipende in modo cruciale dalla posizione di partenza di ognuno di noi e dunque dalle nostre aspettative.

CONFERENZA E ASPETTATIVE

Nella riflessione complessiva vale anche la pena interrogarsi sulla ragionevolezza delle nostre aspettative. Per chi, come chi scrive, partiva da aspettative limitate (o semplicemente realistiche), figlie dell’analisi della situazione economica mondiale, oltre che della politica americana e cinese, Durban va archiviata con qualche buon risultato.
Non dovrebbe mai essere dimenticato che la negoziazione sul cambiamento climatico resta intrinsecamente una negoziazione estremamente complessa per diversi motivi.
Il pericolo, così come raccontato dall’Ipcc (Intergovernamental Panel on Climate Change) e in genere dagli scienziati, è nettamente al di fuori del perimetro elettorale di qualunque amministrazione. Questa banale osservazione può sembrare anche obsoleta. Resta un fatto: proprio perché abbiamo scelto di essere pragmatici non possiamo classificare quest’osservazione come un argomento vecchio. Il superamento di questa impasse chiama equità e politica “intergenerazionale “ che a sua volta richiede coraggio, visione e leadership, elementi che non sono moneta comune in Europa e non solo.
Limitiamoci a pensare che un possibile metro per giudicare il successo della conferenza di Duban sia chiedersi se la distanza tra il peggioramento del cambiamento climatico e l’evoluzione del negoziato sia o meno aumentata. Che questo sia stato il risultato della precedente assise a Cancùn e ancor più l’anno prima a Copenhagen è acquisito agli atti della storia. Ma quest’anno una lama della forbice si è allungata ulteriormente. L’Organizzazione meteorologica mondiale ha informato che nel 2011 la temperatura media globale è stata la decima più alta di sempre e che la banchisa artica presenta la seconda più bassa estensione e il più basso volume mai registrato. Nel suo ultimo rapporto speciale l’Ipcc lancia l’allarme per gli eventi estremi: se non si invertirà la tendenza in atto, ci aspettano prima o poi inondazioni, cicloni, tifoni, ondate di calore e siccità. Quanto all’altra lama della forbice è al momento presto per dire se si è riusciti ad arrestare la divaricazione tra realtà e discorsi. Alcuni elementi verificatisi in queste due settimane – la proposta chiara dell’Unione Europea, la “sintonia” di paesi come il Brasile con l’Unione, le dichiarazioni possibiliste della Cina circa la disponibilità a un futuro accordo vincolante, mirante anche a esporre il recalcitrare degli Stati Uniti – potevano lasciare sperare che almeno qualcuno dei dossier principali avrebbe avuto un positivo sbocco. Il più ragionevole e utile era collegato al tema più urgente sul tappeto, quello della prosecuzione del Protocollo di Kyoto (Cop3) ormai giunto a scadenza. I paesi hanno risposto prolungando per cinque anni gli accordi previsti anche se Giappone, Russia e Canada hanno dichiarato di non voler aderire all’estensione.
Se la conferenza fosse finita solo con questo risultato sarebbe stato giusto considerarla un fallimento.

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L’ACCORDO DELL’EXTRA TIME

Allo scadere della durata ufficiale della conferenza dunque il fallimento del progetto era già stato annunciato dai corrispondenti di giornali e televisioni di mezzo mondo. Ma mentre alcuni negoziatori erano già imbarcati sul volo di ritorno, l’Unione Europea riusciva a coalizzare i rappresentanti di due terzi dei 194 paesi presenti, soprattutto stati delle piccole isole e nazioni in via di sviluppo, riuscendo in un extra time durato fino alla domenica mattina – un vero record di durata del negoziato, 14 giorni – a far accettare ai grandi emettitori come Usa, Cina e India un accordo globale “legalmente vincolante” legato al nuovo Kyoto. La formula trovata (“a non binding agreement to reach a binding agreement”) racconta molto delle difficoltà della negoziato.
Quando ormai le speranze sembravano perdute, il lungo e spesso sotterraneo lavoro dei negoziatori dei principali paesi ha trovato un accordo sull’avvio di un processo negoziale per la definizione di un trattato globale legalmente vincolante (che potrebbe essere un protocollo, oppure un altro strumento legale oppure altro strumento attuativo ma con valore legale), valido per tutti i paesi che aderiscono alla convenzione sui cambiamenti climatici.
È importante osservare che in questa parte dell’accordo non vengono più utilizzate le categorie relative al Protocollo di Kyoto e la distinzione tra paesi Annex I – quelli che hanno obiettivi fissati in ambito negoziale – e quelli che non hanno alcun vincolo, ovvero i paesi non Annex 1.
Il nuovo processo è suddiviso in due fasi. Nella prima fase, sarà redatta e messa a punto la bozza del nuovo trattato (o qualunque sarà la forma giuridica che si sceglierà) con l’obbiettivo di farlo approvare entro il 2015. Nella seconda fase il trattato dovrà essere ratificato dai paesi perché possa entrare in vigore entro il 2020.
Resta evidente a questo punto perché numerose organizzazioni ambientaliste abbiano registrato questo risultato come un insuccesso, leggendo la dilazione nel tempo come l’elemento cardine dell’accordo.
L’obiettivo del nuovo trattato dovrebbe mirare all’adozione di target assoluti di riduzione delle emissioni da parte dei paesi sviluppati e target di efficienza da parte delle nuove economie emergenti, in primis la Cina ormai consapevole di essere il primo paese emettitore con emissioni procapite che se non sono a livello statunitense sono ormai al pari di quelle francesi.
Se registriamo dunque un indubbio successo per l’Europa, dopo lo smacco e la marginalizzazione subita dall’accordo di Copenhagen solo due anni fa, resta da vedere come questa piattaforma evolverà.
Si tratterà di determinare molti diversi aspetti e in prospettiva distribuire obblighi di riduzione delle emissioni tra paesi ricchi e poveri. Tutti comunque già guardano alla Cop18 in Qatar e intanto tirano un sospiro di sollievo: non si è ancora salvato il pianeta, ma probabilmente si è almeno salvato il negoziato.

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  1. Confucius

    Siamo francamente stufi di queste ammucchiate periodiche, che costituiscono un viaggio premio per i burocrati frustrati dei Ministeri dell’Ambiente di tutto il mondo. I summit si riducono a maratone (si deve dare l’impressione di lavorare!) che si concludono regolarmente con il compromesso di riparlare del problema al prossimo vertice, dopo avere fissato sulla carta dei buoni propositi da raggiungere tra vent’anni. Questa volta l’obiettivo è quello di definire l’obiettivo! La volta precedente si trattava di raggiungere un obiettivo numericamente definito, ma entro il 2050, anno nel quale tutti i partecipanti al summiti saranno pensionati ininfluenti o passati a miglior vita. L’Europa, poi, ha poco da stare allegra. Già non ha rispettato gli obiettivi di Kyoto ed ora si impegna per obiettivi più ambiziosi! Tanto, nel 2050, l’Europa non conterà economicamente più nulla. Quando il contributo dell’Europa all’economia mondiale sarà analogo a quello odierno degli strati del Sahel, sarà facile abbattere le emissioni inquinanti.

  2. Francesca Casiraghi

    Mi chiedo come potevamo anche solo pensare che il summit di Durban si sarebbe concluso con una decisione e non con una posticipazione. Si pensi a cosa sta succedendo in Europa, dove nonostante la minaccia concreta del collasso dell’Euro si tira avanti, di summit in summit, di semi-decisione in semi-decisione. Perchè mai dovrebbero, gli stessi governanti, avere tanto a cuore l’urgenza di una questione, quella ambientale, che sembra (ancora per poco e solo per alcuni) lontana dal presente?

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