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CONTRO L’EBA

Nel dibattito recente sulle decisioni dell’Eba si è assistito a una spaccatura netta tra i rappresentanti del sistema bancario e quelli dell’accademia. L’Eba è stata difesa su queste colonne da Marco Onado e Andrea Resti. Salvatore Bragantini ha aggiunto considerazioni nello stesso senso. Luigi Zingales in un intervento su un quotidiano ha definito con tratti eroici la resistenza dell’Eba alle potenti lobby dei banchieri. Vorrei provare a riproporre la questione come l’ho discussa a cena con un amico bancario (e non “banchiere”).

REQUISITI DI CAPITALE IN TEMPO DI CRISI

C’è un primo tema: è giusto aumentare i requisiti di capitale in periodi di crisi di credito? Non è necessariamente giusto. L’alternativa, che il mio amico bancario caldeggiava, è che la regolamentazione possa mettere in conto la possibilità che qualche banca possa non farcela. Se le acque sono agitate, possiamo mettere in conto che qualche nuotatore possa andare a fondo. Se proviamo a proteggerlo mettendogli una corda al collo lo esponiamo a due rischi: il rischio che il nuotatore muoia comunque, o quello che si rifiuti di nuotare. Fuori di metafora: se la Repubblica italiana facesse default, un accantonamento del 9 per cento del capitale proteggerebbe le banche italiane? Probabilmente no. E, finché il default sovrano non si verifica, cosa dovrebbero fare banchieri e bancari? Senz’altro tagliare i dividendi, i costi e i bonus, e “ottimizzare” la gestione, come suggerisce Bragantini. Ma dobbiamo farlo proprio nel mezzo della crisi? Nella migliore delle ipotesi possiamo sperare che le banche, come tutte le imprese, approfittino della crisi per temprare la propria struttura, ma nel frattempo non potranno fare altro che ridurre il credito all’economia. E potrebbe succedere di peggio. Di fronte a un aumento sostanziale del rischio terranno nei libri i crediti peggiori, cercando di fare cassa richiamando i migliori (“go for broke strategy”). Insomma: c’è una scelta politica che riguarda il sistema economico e tutta la collettività (di ogni paese europeo e dell’Europa stessa): vogliamo prenderci maggiori rischi in cambio di una crescita maggiore? Se è così i requisiti di capitale non dovrebbero essere aumentati nel periodo di crisi. Oppure vogliamo privilegiare la sicurezza del sistema bancario alzando i requisiti? In questo caso, non possiamo negare un impatto sul credito all’economia e sulla crescita. È vero che il credit crunch c’è già, come osservano Onado e Resti, e che è dovuto a problemi di liquidità prima che di capitale, ma non c’è dubbio che aumentare i requisiti di capitale lo renderà più severo.

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QUANDO IL VALORE NON È “FAIR”

C’è poi il tema della determinazione del denominatore del requisito di capitale e la richiesta di valutare a fair value i titoli sovrani. Questo solleva una questione annosa, che ci riporta a un aspetto tecnico della fase americana della crisi: la significatività dei prezzi di mercato in periodi di profonda crisi di liquidità. Quando il mercato non c’è, ed è fatto solo da operatori che vendono per disperazione in cerca di liquidità, la regola del valore di mercato (che in questo caso non ha niente di “fair”) diventa il maggiore veicolo di contagio. I bancari vi dicono che il maggior problema creato dallo spread è che non riescono a ottenere liquidità, nell’unico modo in cui possono farlo, e cioè depositando i titoli come collaterale. Siamo in una situazione drammatica e le prospettive che ci descrivono Onado e Resti appaiono catastrofiche. C’era proprio bisogno di aggiungere al deserto di liquidità una carestia di capitale? E di agganciarlo a prezzi che sono penalizzati dalla crisi liquidità? Un alto esponente della Bis (estremo oriente) presentò a un convegno una slide che porto sempre con me, perché spiega il contagio in tempi di crisi. Diceva che la crisi dei subprime era costata 500 miliardi di perdite reali e 4mila miliardi di svalutazioni. E aggiungeva: banche fallite senza un penny di perdite subprime. Chissà se potremo riutilizzare quella slide: banche europee fallite senza un centesimo di perdite da haircut.
In conclusione, l’attività dell’Eba è prociclica e approfondisce la crisi di liquidità che si accompagna sempre alle crisi di credito. Lo conferma Enria stesso in un’intervista: “la scelta di chiedere capitale anche a fronte delle esposizioni sovrane è necessaria per la credibilità dell’esercizio in questa fase della crisi, ma è eccezionale e temporanea. Verrà rivista quando la turbolenza sul mercato dei titoli di Stato sarà superata”. Le stesse rassicurazioni verranno girate dal sistema bancario per lenire la disperazione di quelli cui verrà chiesto di “rientrare”: questo compito toccherà ai bancari e non ai banchieri.

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LE SOCIETÀ E I RISCHI DEL SINDACO UNICO

  1. Massimo GIANNINI

    Mi viene in mente la già antica proposta delle “good banks”…Non se ne é più parlato ma sembra proprio che ce ne fosse bisogno; invece di continuare a fare il gioco delle tre carte per creare moneta dal nulla e non far fallire nessuna banca.

  2. Marco Amadori

    Mi fa piacere che in questo articolo il dottore, in questo caso l’articolista, ascolti l’infermiere, in questo caso il bancario. Come bancario aggiungo alcune riflessioni che l’articolista, che ha più competenze e conoscenze, può smentire o confermare: – l’esperienza quotidiana mi dice che non c’è crisi di liquidità (l’articolo lo dimostra), ma la liquidità che le banche hanno anche per il tramite BCE è parcheggiata in remunerativi titoli di stato,anche se soggetti al far valute, o nei depositi BCE (l’articolo lo dimostra) – quanto accade dimostra che le banche fanno più finanza che credito, con l’eccezione delle banche locali (si veda il recente report Banca d’Italia) – si potrebbe stanare o aiutare le banche concedendo loro la deducibilità completa delle sofferenze, sperando che sia modificato il far value sui titoli di stato. Insomma bisognerebbe che le banche facessero più credito, come afferma la Costituzione, rinunciando a un pò difinanza

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