Il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro è sempre più al centro della discussione politica italiana. Penso però ci sia il rischio di assolutizzarlo pensando che una formula magica contrattuale possa tirarci fuori da sola dalla crisi, o, dallaltra parte, che essa possa rappresentare la garanzia assoluta della nostra stabilità lavorativa. Quando invece la tutela del lavoro e la creazione di nuovi posti dipendono da moltissime altre cose che fanno funzionare leconomia (produttività e competitività delle imprese, dinamica della domanda interna, capacità di penetrazione dei mercati esteri, innovazione, ecc.) Uno dei commenti più interessanti dei lettori è che non necessariamente il contratto unico dinserimento si rivolge a giovani ma più generalmente a persone che iniziano un rapporto di lavoro in unimpresa e quindi non automaticamente questo tipo di contratto calza a pennello con i risultati stessi. I risultati che troviamo nel nostro articolo possono essere letti nel senso che i giovani hanno probabilmente più energie, risorse e speranze per poter fronteggiare un periodo di disoccupazione nel mondo del lavoro. Se crediamo a questa interpretazione che pare suffragata dai dati può essere ragionevole riflettere su come tenerne conto o attraverso la modifica della stessa idea del contratto unico dinserimento o attraverso la costruzione di ammortizzatori che ne tengano conto quando il contratto non è offerto a giovani ma a lavoratori già avanti negli anni. Nella vecchia letteratura anglosassone di economia del lavoro ci si focalizzava molto sul concetto di lavoratore scoraggiato sottolineando come la disoccupazione di lungo periodo genera deterioramento delle proprie capacità e rende molto difficile il reinserimento nel mondo del lavoro. E per questo si ragionava su interventi speciali di welfare per combattere la disoccupazione di lungo periodo. Allo stesso modo dobbiamo ragionare su come fronteggiare efficacemente (o via contratto o via ammortizzatori) lo scoraggiamento di chi esce o è fuori dal mercato del lavoro ad età non più giovani. Da questo punto di vista è interessante la proposta di chiedere alle imprese di pagare parte del costo del licenziamento perché tale richiesta (i) le spinge a licenziare solo quando effettivamente e indispensabile e (ii) prima il lavoratore trova un nuovo impiego e prima smette di pagargli i contributi.
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Ordinario di Economia Politica presso l'Università Tor Vergata di Roma, è co-fondatore di Next e Gioosto. Autore di circa 500 lavori tra pubblicazioni scientifiche, working paper e numerosi volumi divulgativi, è consigliere economico del ministro dell’Ambiente e membro della task force LazioLab per la programmazione Europea della regione Lazio e del “Comitato di esperti per la promozione dell'impresa sociale e il rafforzamento dell'economia sociale e solidale” del Ministro del Lavoro. Fa parte del Sustainable Development Solution Network's European Green Deal Senior Working Group ed è tra i promotori della Scuola di Economia Civile. Editorialista di Avvenire e blogger di Repubblica.it, è membro del comitato scientifico del Corriere della Sera "Buone Notizie" e del comitato organizzatore delle Settimane Sociali. È direttore del Master in Economia dello Sviluppo e Cooperazione Internazionale (MESCI) e presidente del comitato Etico di Etica Sgr.
Professore di Economia all’Università di Pisa. Ha conseguito un Ph.D. all'Università di Roma Tor Vergata, un M.Phil. alla Stockholm School of Economics, un M.Sc. all'Università Luigi Bocconi ed una Laurea all'Università di Roma La Sapienza. Ha lavorato per le Università di Trento, Perugia e Bolzano, per l’IMF ed il WFP, ed è stato consulente di varie organizzazioni che si occupano di cooperazione allo sviluppo. La sua principale area di ricerca è l’economia applicata.
michele
Prima di rendere costoso il licenziamento in genere, la legge dovrebbe disincentivare il licenziamento di Borsa, nelle aziende che hanno fatturato e utili in crescita. Nelle aziende che lasciano a casa la gente, premi di produzione e stock option dovrebbero essere tassati con l’aliquota massima del 43%, non al 10%! Perchè i manager guadagnerebbero direttamente dai licenziamenti primachè un tetto alle retribuzione dei dirigenti, tema sentito in Spagna e altri paesi, sarebbe più che giusto porre un limite alle indennità di uscita svincolate dai risultati ottenuti. Facciamo una bella norma che dichiara nullo qualsiasi patto che riserva in caso di recesso del rapporto di lavoro un’indennità superiore a 700 volte l’entry level aziendale: tipicamente 1000 euro, quindi un buono uscita massimo di 700.000 per una equa redistribuzione della produttività aziendale, le indennità dei dirigenti apicali dovrebbero essere poste in relazione ai salari più bassi, di chi entra in azienda
luca quinzan
La proposta del contratto unico, sic et simpliciter, prevede l’allungamento del periodo di prova, superato il quale il rapporto di lavoro si qualifica a tempo indeterminato. La novità, corretta da mio punto di vista, è di prevedere un’indennità per risarcire il lavoratore se interviene il recesso del rapporto prima del termine di tre anni. Completerei la proposta inserendo lo sgravio contributivo da riconoscere al datore di lavoro che stabilizza il rapporto e quindi con l’azzeramento dei contributi previdenziali dal quarto anno e per un periodo, per esempio, di tre anni. Tali contributi si recuperano nel tempo proprio grazie alla stabilità del rapporto e, compatibilmente con l’osservanza delle direttive europee si potrebbe differenziare il vantaggio per agevolare la stabilizzazione del rapporto per giovani e donne. Aggiungo che si potrebbe prevedere anche un ulteriore vantaggio durante i primi tre anni della fse d’ingresso: la defiscalizzazione della 13ma mensilità come intervento a tutela del reddito nella fase nella quale il lavoratore non è ancora stabilizzato.