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I DIRIGENTI PUBBLICI E L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI ONESTO

Il ministro per la Pubblica amministrazione e la semplificazione, in una recente lettera al Corriere della Sera, ha rimesso al centro del dibattito il tema della dirigenza pubblica. Le misure sulla dirigenza, infatti, costituiranno uno degli assi portanti del disegno di legge delega per l’aggiornamento della riforma della pubblica amministrazione a suo tempo promossa a partire dal Dlgs. 150/09.

LA CENTRALITÀ DEL DIRIGENTE

Tra le linee di intervento evidenziate dal ministro, emerge il richiamo ad una maggiore indipendenza della dirigenza pubblica dalla politica. La concreta attuazione di questo principio dovrebbe trovare riscontro, sempre nella visione del ministro, in una maggiore trasparenza e qualità nella scelta dei dirigenti, in una più precisa e prevalente responsabilizzazione degli stessi sui risultati delle strutture gestite, in una riforma dei sistemi di reclutamento e selezione che allineino il nostro paese alle migliori esperienze maturate nel contesto internazionale.
Questa decisa presa di posizione ci sembra del tutto condivisibile e richiama il tema, della qualità e della legittimazione della classe dirigente quale condizione fondamentale per il buon funzionamento e lo sviluppo delle amministrazioni pubbliche.
Competenza
, senso di responsabilità, impegno e rigore etico rappresentano infatti i requisiti fondamentali di qualunque dirigente e in particolare di un dirigente chiamato a esercitare le proprie funzioni per il perseguimento dell’interesse collettivo. Non da ultimo, il ruolo del dirigente, sia nel settore pubblico che in quello privato, è fortemente legato alla capacità di far crescere e motivare i propri collaboratori, perché proprio sul commitment e la qualità delle risorse umane impiegate si gioca il futuro di organizzazioni sempre più “competence based”. Su questo piano conta molto la credibilità del dirigente, ovvero l’essere ritenuto sia internamente all’amministrazione che dagli interlocutori esterni, persona di valore, dal punto di vista professionale e, non da ultimo, etico e comportamentale.

L’ONESTÀ DEL LEADER

A conferma di ciò, un recente studio sulla propensione allo sforzo dei dipendenti pubblici fa luce su quanto sia importante un comportamento virtuoso ed onesto per aumentare la produttività delle pubbliche amministrazioni.
Secondo uno studio americano, infatti, i dirigenti pubblici possono migliorare le performance dei propri collaboratori adottando, tipicamente, cinque tipi di comportamento: insistendo sulla necessità di raggiungere gli obiettivi stabiliti, prestando attenzione allo sviluppo delle competenze e delle relazioni con i propri collaboratori, incentivando la creatività e la generazione di nuove idee, valorizzando le diversità, promuovendo la parità di genere e avendo a cuore i tratti particolari del singolo individuo, richiamando, infine, l’esigenza di onestà e correttezza nello svolgere il proprio lavoro. (1)
Sulla base di questi idealtipi lo studio italiano ha esplorato quale di questi stili di comando fosse più adatto per aumentare la propensione a impegnarsi, e quindi la produttività dei dipendenti pubblici.
In particolare, a cinque differenti gruppi di dipendenti ministeriali (per un totale di 142 unità di analisi selezionate casualmente) è stato proposto di lavorare a un progetto che si differenziava solamente per lo stile di leadership del capo-progetto. Ogni gruppo è stato esposto a un diverso ‘stimolo’ (ossia a un diverso stile di leadership), ma in tutti i casi i ricercatori hanno preventivamente chiesto ai dipendenti intervistati quale fosse la loro normale propensione allo sforzo sul luogo di lavoro. Successivamente, i ricercatori hanno chiesto di quanto gli stessi dipendenti avrebbero aumentato (o diminuito) il proprio sforzo sul lavoro aderendo al progetto proposto da un certo tipo di leader. I risultati finali dell’esperimento sono riassunti nella tabella successiva.

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Come si può notare lo stile di leadership che comparativamente risulta essere più efficace per aumentare la propensione allo sforzo è quello ‘orientato all’integrità’. I dipendenti pubblici sono maggiormente motivati se riconoscono l’onestà e l’integrità di un leader e se sono invitati a rispettare le regole non solo procedurali ma anche e soprattutto comportamentali. Una conclusione che va oltre il tema dell’etica dell’amministrare strettamente intesa, ma che richiama in ogni caso anche le responsabilità dei dirigenti nel contrastare i fenomeni di illegalità nella pubblica amministrazione  e prevenire le conseguenze negative che i comportamenti e le pratiche illegali provocano: delegittimazione della politica, perdita di fiducia nelle istituzioni, aumento dei costi a carico dei cittadini.
I risultati dello studio confermano più in generale, in sintonia con le prospettive della nuova riforma del settore pubblico delineate dal ministro, il rilievo del tema della qualità della classe dirigente del Paese. In assenza di vertici delle amministrazioni che possano realmente rappresentare un modello di ruolo, per valori, impegno e competenza, è difficile pensare che l’ingegneria organizzativa e gli strumenti di management possano, da soli, cambiare davvero lo stato delle cose. Una dirigenza credibile e integra, infatti, non può che risultare da logiche efficaci, trasparenti e meritocratiche di gestione del personale. Molto si può fare, ad esempio, sul sistema dei concorsi. È impensabile che la selezione di una nuova classe dirigente possa derivare da modalità obsolete di accertamento delle conoscenze, tipicamente attraverso prove di esame scritte di natura nozionistica, combinate con altrettanto anacronistici formalismi che accompagnano le prove orali. L’imparzialità, il riconoscimento del merito e delle competenze, sono valori guida di tutti i processi di selezione delle organizzazioni eccellenti e non sono in discussione. Ma l’efficacia dei processi di selezione, in queste organizzazioni, è collegata alla ricerca del profilo che per caratteristiche, attitudini e motivazione, meglio si adatta a ricoprire la posizione vacante, ovviamente descritta ex-ante nei contenuti e nei risultati attesi. Abbandonare i formalismi per salvaguardare un’imparzialità di sostanza, fondata su metodi evoluti di selezione e affidata a specialisti della selezione, rappresenta quindi una priorità non ulteriormente procrastinabile.
Non meno importanti sono, peraltro, le modalità per l’assegnazione degli incarichi. Troppo si è scritto e troppo si è fatto in tema di “politicizzazione” delle nomine e delle carriere all’interno del settore pubblico. Anche su questo piano una svolta radicale è necessaria: sistemi più trasparenti di pubblicizzazione degli incarichi da affidare, esplicitazione a priori dei requisiti necessari per ricoprire gli stessi, pubblicizzazione dei curricula dei candidati, definizione di criteri trasparenti di scelta, nomina di advisor indipendenti, rendicontazione via web delle fasi e dei risultati del processo, sono solo alcuni degli interventi possibili.
Infine, cruciale è il sistema di valutazione e rewarding dell’alta dirigenza. Oggi i dirigenti vengono di regola valutati su obiettivi individuali e comportamenti organizzativi. Nella maggior parte dei casi raggiungono tutti gli obiettivi e si comportano molto bene. Peccato che non sempre le organizzazioni che dirigono producano altrettanti brillanti risultati. È fondamentale allora una misurazione seria della performance organizzativa, degli output e degli outcome delle amministrazioni pubbliche. Sulla base di questa, quindi, sarà finalmente possibile valutare le capacità dei dirigenti “in azione”, per quanto gli stessi sono davvero capaci di migliorare l’efficacia e l’efficienza degli ambiti che dirigono, e non solo “sulla carta”, ovvero per quanto diligentemente adempiono ai propri doveri. A tutto questo, ovviamente, dovrebbero collegarsi i premi monetari, oggi spesso distribuiti “a pioggia” o, nella migliore delle ipotesi, sulla base del mantenimento della normale operatività.
Del resto i risultati della ricerca che sottolineano l’inefficacia di altri stili di comando (come ad esempio quelli che insistono sulla necessità di raggiungimento degli obiettivi o quelli che sostengono la creatività degli individui) confermano un forte ritardo culturale nell’introduzione di logiche che premiano l’innovazione e l’ottenimento di risultati finali nelle amministrazioni centrali: il relativo ‘disinteresse’ dei dirigenti censiti verso il risultato del proprio lavoro o verso la creazione di nuove modalità di risoluzione dei problemi, conferma l’ipotesi di una classe dirigente che fatica ad evolvere da logiche di responsabilità formale e tende a perpetuare le prassi e le tradizioni consolidate.
La trasformazione dei burocrati in manager sembra ancora lontana, così come la possibilità di mettere le migliori energie e competenze professionali presenti nel settore pubblico davvero al servizio della creazione di valore per i cittadini.

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(1) Fernandez, Cho, Perry (2010)

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LA RISPOSTA AI COMMENTI

  1. roberto novati

    In Italia il meccanismo incentivante basato sui “contenuti morali” dei dirigenti è difficile da osservare in assenza di meccanismi di selezione trasparenti; in altre parole, la condicio sine qua non di attribuzione di una carica dirigenziale nella P.A. in Italia è l’appartenenza a un gruppo di pressione: è dunque , più che inutile, prematuro parlare di passaggio da burocrati a manager finchè tale vizio originario nei meccanismi di selezione non sarà sanato. L’aspetto collegato è che la carriera nella P.A. andrebbe motivata dall’idea del pubblico servizio; in assenza di tale assetto etico e culturale i migliori dirigenti vanno tendenzialmente altrove e si realizza un meccanismo selettivo opposto a quel che dovrebbe essere. Il problema di classe dirigente italiana, in nuce, è tutto qui.

  2. dipendente PA

    Intendiamoci sul concetto di onestà, l’onestà spesso va a braccetto con il merito, e viceversa! Un grave vizio affligge la dirigenza pubblica del nostro Paese, il piccolo feudo di potere. Gran parte della dirigenza “matura” arrivata a ricoprire posizioni di comando per anzianità (a volte anche senza sostenere un concorso) ha un obiettivo prioritario, mantenere la posizione di comando e di prestigio, per mantenere uno status di piccoli privilegi conseguenti. Questo obiettivo ha ben poco a che fare con la qualità del servizio e con il ragionamento sugli stili di leadership. Perchè allora non introdurre una semplice regola che eviti la creazione e il mantenimento di questi piccoli feudi di potere: la rotazione obbligatoria negli incarichi dirigenziali, tra amministrazioni afferenti allo stesso settore di attività o tra sedi diverse. Ciò costringerebbe la dirigenza a dar prova di capacità gestionali effettive ed eviterebbe la creazione di cricche di potere negli uffici pubblici……una realtà molto diffusa di cui spesso lo stesso sindacato è partecipe.

  3. vittorio campanelli

    L’amarezza che suscita la PA in Italia non deve appannare anche la ricerca scientifica sul tema, ne indurci a rincorrere soluzioni erronee. La trasformazione del dirigente in manager pubblico non é affatto la soluzione del problema. Il funzionario pubblico deve aiutare il legislatore e deve mettere in atto (verificare/controllare) quanto stabilito dalla legge. A differenza di un manager privato lo scopo del funzionario pubblico non é un target, il profitto, e non é valutabile (solo) in termini di risultati materiali, ancor meno monetari. Il funzionario deve essere oltre che competente, indipendente da interessi privati. Che debba essere “onesto” é una soglia minima, perché questo é richiesto a qualsiasi cittadino. La dottrina anglosassone del New Public Management non puo’ essere presa per paradigma perché quella dottrina tende a scardinare il Patto Sociale e la coesione, nel momento in cui antepone valori d’efficienza e produttività (di natura economica) ad altri valori fondanti dello Stato.

  4. pidario

    A leggere l’articolo sembrerebbe che i dirigenti pubblici, a parte alcuni “difetti”, siano tutti bravi ma, se così fosse, perchè mai avremmo una PA così invisa ai cittadini e scadente? Qualcuno giustamente nei commenti ha scritto che l’unico interesse del dirigente è quello di poter restare attaccato alla poltrona conquistata e ai suoi benefici, direi che ha abbastanza colto nel segno. In Italia la scelta dei dirigenti avviene sempre e solo per gruppi di pressione politica e la vera qualità che si deve possedere per dirigere è la disponibilità, a tutto campo, nei confronti delle richieste clientelari del politico. Per questo sovente i dirigenti sono persone le cui capacità non eccellono affatto (è cosa arcinota che quanto più elevate sono le capacità tanto più forte è l’indisponibilità alla sudditanza da un politico di turno incompetente e borioso). La mediocrità si potrebbe dire è il miglior criterio di scelta. Se, e sino a quando, sarà così non ha alcun senso parlare di managerialità. Interessante potrebbe essere la scelta di far ruotare i dirigenti con una certa frequenza come indicato in un commento.

  5. annata77 per dipendente pa

    Rispondo da dipendente pubblico: la dirigenza si sposta e lo fa spesso all’interno dell’Amministrazione. Ciò ha creato solo un enorme disinteressamento ai problemi perchè 1) c’erano già, 2) tra un pò mi promuovono e chi se ne importa di risolvere i problemi. La valutazione dei dirigenti, come del pubblico impiego in genere, è estremamente complessa, tuttavia esistono dei casi in cui la prestazione quantitativa viene misurata, e almeno in questi casi le cose pare funzionino meglio, anche se l’aspetto qualitativo non sempre è misurabile. Il problema è che se la politica volesse il meglio chiamerebbe a decidere i più capaci con obiettivi che coinciderebbero, ma se le cose vanno così è perchè la politica nomina i dirigenti e i dirigenti non possono voltare le spalle ai loro benefattori, anche nell’ipotesi di una nuova legge che esprima (solo per iscritto) l’indipendenza dei dirigenti pubblici dalla politica.

  6. gino sulis

    L’articolo ha il grande merito di focalizzare l’attenzione su un tema cruciale che è quello di costruire una classe dirigente adeguata a governare il futuro del paese. I dirigenti della pubblica amministrazione sono parte importante e decisiva di questo processo. Competenza, onestà, indipendenza, autonomia si tengono insieme. I criteri di valutazione e formazione dei dirigenti pubblici dovrebbero consentire di conseguire questi obiettivi-valori.

  7. Luigi Calabrone

    L’onestà personale è solo uno dei pre-requisiti, sia del dirigente, che dei collaboratori; tutti i manuali di direzione (ma anche il buon senso) affermano che l’esempio personale dei capi è il primo motore di ogni organizzazione. Se manca l’esempio, come possono i subordinati comportarsi meglio dei capì? Ma l’amministrazione pubblica italiana (la cosiddetta burocrazia) non funziona soprattutto perché, per motivi storico/culturali/costituzionali, il primo obiettivo degli addetti (dai magistrati in giù) non è il servizio da svolgere nell’interesse dei cittadini, ma quello da svolgere nel proprio interesse personale e di gruppo. Ciò avviene perchè la Costituzione materiale su cui si basa lo Stato italiano pone al primo posto le corporazioni, ed in primo luogo la corporazione di coloro che – impropriamente, perchè non lo sono di fatto – sono chiamati (e pagati, ai vertici, profumatamente) “addetti al servizio pubblico”. Ogni riforma della “funzione pubblica” è, dal dopoguerra ad oggi, fallita, perchè non è riuscita a prendere atto della realtà e ha tentato di far festeggiare il Natale ai tacchini (gli addetti alla P.A.).

  8. Dario Quintavalle (Twitter: @darioq)

    Articolo ineccepibile, ma: quando parliamo di dirigenza, a chi ci riferiamo? Questo titolo è stato regalato a man bassa, ai Magistrati Capi degli Uffici Giudiziari, ai presidi, ai direttori di carceri, persino ai medici (un amico urologo è “Dirigente medico”). Si fatica a capire che la dirigenza è una professione. Se restringiamo il discorso ai dirigenti veri, anche essi potrebbero molto beneficiare dall’esempio dei loro capi, vale a dire la dirigenza politica. Che però, in materia di trasparenza nelle nomine e meritocrazia, finora non ha dato segnali di cambiamento. Il pesce, al solito, puzza dalla testa. Quanto ai nostri dipendenti possiamo certo fare di più: ma essi sono sempre più anziani, privi di qualsivoglia prospettiva di sviluppo economico e professionale, da anni socialmente screditati come fannulloni. Davvero dipende solo dalla dirigenza rilanciarne il ruolo? La verità è che qui manca completamente una nuova prospettiva politica sulla PA, che la riporti ad essere un attore protagonista dello sviluppo del paese, socialmente riconosciuta ed adeguatamente attrezzata. Dopodiché ogni generoso sforzo personale, per quanto nobile, è una goccia nel mare.

  9. dipendente PA per Annata 77

    Rispondo all’osservazione che mi è stata mossa circa gli effetti della rotazione sulla dirigenza pubblica. Il fatto che un dirigente pubblico possa scaricare ad altri la responsabilità per il mancato raggiungimento di obiettivi di miglioramento dell’azione pubblica non dipende dalla rotazione in sè, ma da un’inefficiente valutazione della dirigenza, ancora troppo pachidermica e non chiara nelle procedure. Nell’ambito privato gli obiettivi annuali sono chiari e precisi….e non è possibile scaricare responsabilità. Tale attività, in cui la dirigenza pubblica del nostro Paese è davvero maestra, è un vizio proprio del contesto politico/amministrativo italiano. Sono fermamente convinto che la rotazione della dirigenza pubblica nell’arco temporale di tre anni circa sia una soluzione rapida ed efficace per introdurre criteri meritocratici nella dirigenza pubblica e a ricaduta in tutta la Pubblica amministrazione, certo che la mediocrità a cui altri commenti hanno accennato possa così emergere ed essere adeguatamente disincentivata.

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