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Tutela dell’art. 18 o tutela del lavoratore?


Non ho sentito più estendere l’espressione Patto Leonino, tipica dei patti societari, anche ai contratti di lavoro per intendere la disparità di posizioni tra datore e lavoratore. Se infatti in un contratto di lavoro il lavoratore firma delle clausole a lui molto sfavorevoli sotto la paura di non essere più assunto se le rifiuta, queste clausole debbono intendersi nulle. Il problema deriva dal riconoscimento della sproporzione di capacità contrattuale tra le due parti e quindi si vuole tutelare il più debole da possibili clausole vessatorie, cioè dalla mancanza di un equilibrato sinallagma tra le prestazioni del lavoratore e quelle del datore. In una società in cui i rapporti sembrano essere sempre meno etici e sempre più mercantili, anche il lavoratore sta diventando una merce, uno strumento di produzione e nulla più. Quando la mia fotocopiatrice non mi piace più la rottamo e ne prendo un’altra ed allora posso dire che anche con la mia segretaria dovrei poter fare altrettanto! Io datore ho un potere che non solo può condizionare la mia attività e la mia ricchezza, ma può condizionare anche la vita di chi ho assunto per realizzare il mio progetto imprenditoriale. In un contratto di lavoro io non faccio un semplice contratto di acquisto dell’attività altrui come faccio quando chiamo l’idraulico per aggiustarmi il rubinetto! Io faccio un contratto che determina il cambiamento del progetto di vita del lavoratore e non è giusto che io metta sulla stessa bilancia il mio interesse produttivo con la vita del lavoratore. Ciò che sta dietro all’art. 18 è la salvaguardia di questa disparità e non un astratto diritto sindacale alla non rottamazione! Il primo passo alla demolizione di questo principio è stata la precarizzazione dei rapporti: non si assume più nessuno ma solo si usa il suo lavoro temporaneo. I lavoratori precari lamentano tutti non tanto o non solo dell’esiguità della remunerazione ma soprattutto della impossibilità di farsi un progetto di vita!  Il lavoratore diventa quindi un imprenditore di se stesso assumendosi tutti i rischi di fallimento della propria “impresa” senza però alcuna ipotesi di poter ottenere un congruo profitto che compensi il rischio. L’attacco alla dignità del lavoro, o meglio del lavoratore, è avvenuto per fasi successive e così molti si sono convinti che è giusto che il lavoratore sia considerato né più né meno come uno dei tanti fattori produttivi senza altra tutela particolare. Forse oggi ci sono più tutele per il fattore capitale che per il fattore  lavoro. Vogliamo cambiare l’articolo 18? Chiamiamolo 17 o 19 ma salviamo la dignità del lavoratore, il rispetto dei suoi progetti di vita, la tutela dalle arroganze del datore di lavoro. Non barattiamo una necessità di maggior flessibilità delle scelte imprenditoriali con una inutile licenza al non rispetto della persona del lavoratore. Se viene abrogato ciò che oggi simbolicamente è contenuto nell’art. 18 assisteremo da una parte alla sottomissione del lavoratore all’arroganza del datore e dall’altra alla continua paura del lavoratore di perder il proprio posto solo per aver magari difeso un proprio diritto o la propria dignità. Per aver voluto giustamente favorire alcuni imprenditori corretti che devono all’occorrenza adeguare la forza lavoro alle situazione imposte dal mercato, favoriremo molti altri che invece semplicemente opereranno seguendo loro logiche personali e tralasciando di rispettare il progetto di vita del lavoratore. Ciò non vuol certo dire che il lavoratore debba avere ben precisi doveri e che se questi non vengono onorati egli debba subirne proporzionalmente delle giuste conseguenze. In conclusione il problema non è 18 sì o 18 no, il problema è salvare la dignità del lavoratore nelle norme che prevedono un rapporto di lavoro sia questo precario che stabile, a tempo determinato o indeterminato.
Cesare Cislaghi
Economista sanitario

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  1. Hk

    Per i “lavoratori” invece è lecito ed etico cambiare il loro progetto in ogni momento indipendentemente dalle conseguenze sul progetto dell’azienda vero? Tanto per rendere più concreta la realtà un mio collaboratore si è dimesso per seguire il “suo progetto” poco dopo aver terminato il suo corso alla Bocconi da 20000€. Pagato dalla sua ex azienda ovviamente.

  2. luca

    non capisco perche’ debba essere l’imprenditore a farsi carico dei “progetti di vita” del lavoratore. O fa l’imprenditore, e cerca di massimizzare i profitti entro i confini di legge, o fa beneficenza e si tiene un lavoratore anche quando non e’ piu’ economicamente vantaggioso perche’ rischia salatissime compensazioni o reintegro se il giudice la pensa diversamente. Deve essere lo Stato a farsi carico, nei limiti del possibile, della disoccupazione, della poverta’, e dei bisogni di ognuno. Se lo fa l’imprenditore, finisce che l’impresa muore e ci rimettono tutti.

  3. cristiano

    Salve hk, proprio per evitare questi episodi in alcuni contratti collettivi di lavoro è esplicitato il fatto di non potersi licenziare nei 2 anni successivi al corso retribuito dall’azienda, la penale è il rimborso dei soldi spesi dal datore. Va specificato però che i permessi studio invece sono pagati dallo stato non dall’azienda. Detto questo, non si può certo mettere sullo stesso piano il potere datoriale con quello del lavoratore. Ha chiesto spiegazioni al suo collaboratore? si è dimesso per soldi o per una crescita professionale? Guardi che il contratto a tutele crescenti va nella direzione al datore di lavoro + favorevole: libertà nel licenziare e fidelizzazione del lavoratore, che avrà tutto l’interesse di non cambiare azienda per ripartire da zero in ogni nuovo posto con un contratto a tutele crescenti..Sperando che queste tutele crescenti non assomiglino ad un miraggio…

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