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Per l’Italia non è solo un problema di metodo*

Davvero il modello utilizzato dall’Europa per determinare il Pil potenziale sottostima la capacità produttiva dell’economia italiana? In realtà si tratta di un metodo condiviso, che garantisce pari trattamento a tutti i paesi dell’Unione. I problemi dell’Italia sono di lunga durata.
LA METODOLOGIA È CONDIVISA
Nel loro articolo su lavoce.info Carlo Cottarelli, Federico Giammusso e Carmine Porello sostengono che la metodologia concordata a livello europeo per calcolare il prodotto potenziale sottostima il Pil potenziale italiano. La loro argomentazione è che la metodologia tende a sottostimare considerevolmente la durata del ciclo economico e a interpretare i più recenti sviluppi economici come strutturali. I tre autori suggeriscono inoltre che il principale fattore che guida la caduta del prodotto potenziale italiano è il metodo usato dall’Europa per calcolare il tasso di disoccupazione strutturale. Nel rispondere all’articolo di Cottarelli, Giammusso e Porello vorremmo innanzi tutto sottolineare che i calcoli della Commissione europea sulla crescita potenziale e l’output gap si basano su un approccio condiviso e approvato da tutti i 28 Stati membri della UE, la metodologia della funzione di produzione. Dato che la metodologia viene usata in primo luogo come strumento di sorveglianza operativa, la Commissione deve assicurare un uguale trattamento a tutti gli Stati membri attraverso un metodo dal quale ci si aspetta che produca stime non distorte, evitando sia il falso ottimismo sia un ingiustificato pessimismo. Se poi si comparano le stime della Commissione europea sulla crescita potenziale e l’output gap dell’Italia nel triennio 2012-2015 con quelle pubblicate da altre organizzazioni internazionali – quali il Fondo monetario internazionale e l’Oecd – si nota una forte convergenza. Per esempio, le ultime stime dell’output gap per l’Italia rilasciate dalla Commissione e quelle dell’Fmi sono virtualmente identiche per ogni anno del periodo 2012-2015; con tutte e tre le organizzazioni che prospettavano tassi di crescita potenziale negativi per l’Italia, per un ordine di grandezza simile sia nel 2013 che nel 2014.
LA METODOLOGIA UE SOTTOSTIMA LA CRESCITA POTENZIALE ITALIANA?
Anche prima della crisi finanziaria, i tassi di crescita potenziale dell’Italia erano già molto bassi e in diminuzione. Sia per l’Eurozona nel suo insieme sia per l’Italia, la crescita potenziale è diminuita di circa un punto percentuale tra gli anni 2001-2008 e gli anni 2009-2014. Ma, dopo tutto, l’economia italiana è cresciuta solo della metà rispetto alla media dei paesi dell’area euro nei dieci anni precedenti la crisi e non è perciò così sorprendente che la sua crescita potenziale sia entrata in uno scenario negativo dopo quel grande e persistente shock negativo. (1) Di conseguenza non c’è niente di insolito nella dimensione del calo tendenzenziale del tasso di crescita potenziale, a seguito degli effetti della crisi finanziaria, registrato dall’Italia rispetto a quelli dell’Eurozona. E proprio a causa di questo andamento della crescita potenziale, la bassa crescita in Italia si riflette largamente in un output gap sempre più negativo. (2) Il fatto che la recessione in Italia sia di lunga durata è messo in evidenza anche dalla metodologia della funzione di produzione proprio perché l’output gap per l’Italia è più alto nel 2014 rispetto al 2009, cosa che non vale per l’area euro (grafico 1).
Grafico 1 – Andamento dell’output gap in Italia e nell’Eurozona (con la metodologia ufficiale dell’Ue “Production Function Methodology” – Previsioni autunno 2014)
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La principale ragione di una crescita potenziale bassa per l’Italia è la scarsa crescita della produttività.Il basso tasso di crescita italiano pre-crisi è principalmente dovuto a una scarsa performance della produttività. Secondo noi, la migliore misura degli andamenti della produttività strutturale è il trend della produttività totale dei fattori. Come si vede dal grafico 2, il livello della produttività totale dei fattori effettiva in Italia ha avuto un picco nel 2001, dopodiché non è mai risalita a quel livello, neanche negli anni del boom precedenti la crisi finanziaria. Nel 2009, la Ptf è stata nuovamente colpita duramente e, da allora, è rimasta su un livello basso.
Grafico 2 – Livelli della produttività totale dei fattori in Italia – Dati reali e trend (previsioni autunno 2014)
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LA METODOLOGIA UE SOVRASTIMA LA DISOCCUPAZIONE STRUTTURALE IN ITALIA?
Per quanto riguarda la disoccupazione strutturale (Nawru – non-accelerating wage rate of unemployment o tasso di disoccupazione di equilibrio), si sostiene spesso che nel caso italiano è troppo alta e segue troppo da vicino il tasso di disoccupazione reale. Infatti, il Nawru è cresciuto dl 7,5 per cento nel 2007 al 10,75 per cento nel 2014, mentre la disoccupazione reale è aumentata dal circa 6 per cento al 12,5 per cento: ciò implica che circa il 50 per cento dell’incremento è non-ciclico. Se si confronta questo dato con le variazioni storiche del Nawru rispetto al tasso di disoccupazione reale, si vede che non è un incremento straordinario. Ad esempio, un rapporto simile di circa il 50 per centro tra tasso reale e Nawru si ritrova negli anni tra il 1981 e il 1995, anche questo un periodo di protratta crescita nel tasso di disoccupazione reale.  Cottarelli, Giammusso e Porello sostengono che una crescita del Nawru in Italia non è giustificata, dal momento che gli indicatori strutturali del mercato del lavoro non indicano un peggioramento strutturale. Riteniamo che questa sia un’argomentazione incompleta: i cambiamenti nella disoccupazione di equilibrio non sono sempre spiegati in modo esaustivo dagli indicatori strutturali del mercato del lavoro perché il Nawru indica anche come il mercato del lavoro risponde a shock negativi (e positivi). In altre parole, il Nawru può aumentare anche se le istituzioni del mercato del lavoro rimangono invariati a causa della loro scarsa flessibilità implicita all’aggiustamento (rigidità dei salari reali e nominali). Dunque la curva di Phillips identifica un gap di disoccupazione nella misura in cui i costi unitari reali del lavoro rispondono all’incremento del tasso di disoccupazione. Sotto questo profilo, l’Italia non ha un buon andamento. Nonostante un forte incremento del tasso di disoccupazione reale tra il 2007 e il 2014, i costi unitari reali del lavoro sono cresciuti più in Italia che nell’area euro. Ci sono altri paesi dell’Eurozona toccati dalla crisi – Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda – che hanno registrato forti riduzioni del costo unitario reale del lavoro nel periodo tra il 2008 e il 2014 e per i quali stimiamo un più ampio unemployment gap.
* I due autori svolgono la loro attività professionale presso la DG ECFIN della Commissione europea
La versione in lingua originale dell’articolo:

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