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Se la multinazionale arriva da un paese emergente

Sempre più imprese dei paesi emergenti investono in Europa. Si diffonde così il timore di un comportamento predatorio delle multinazionali, con trasferimento di conoscenze verso la case madre senza alcun beneficio per l’economia locale. Ma uno studio mostra che i vantaggi possono essere reciproci.
GLI INVESTIMENTI DEI PAESI EMERGENTI
Sempre più imprese dei paesi emergenti investono in Europa generando preoccupazioni rispetto al loro impatto sulle economie locali. I dati macroeconomici confermano il ruolo crescente dei paesi emergenti nei flussi d’investimenti diretti mondiali. Secondo l’Unctad (United Nations Conference on Trade and Development), gli Ide verso i Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa – hanno continuato a crescere anche durante la crisi finanziaria, raggiungendo il 20 per cento del totale mondiale, pari a 263 miliardi di dollari nel 2012. Ma il dato più interessante è che a crescere sono anche gli Ide effettuati da multinazionali dei paesi emergenti: sono passati da 7 miliardi di dollari (circa l’1 per cento sui flussi a livello mondiale) nel 2000 a 126 miliardi nel 2012 (corrispondenti al 9 per cento). Una quota rilevante di questi investimenti va verso i paesi sviluppati (circa il 42 per cento dello stock) e in particolare verso l’Unione Europea (34 per cento). La stampa internazionale dedica grande attenzione al crescente ruolo che stanno assumendo i fondi sovrani d’investimento sia dei Brics, che di altri paesi come il Qatar o il Kuwait. Ma non sono solo le manovre dei fondi sovrani a destare preoccupazione, anche le imprese private e pubbliche (soprattutto nel caso della Cina) sono sempre più attive nel mercato europeo – cosa che apre interrogativi su quale sia l’impatto di questi investimenti e se la loro crescita debba realmente allarmare l’Europa. È vero che queste multinazionali si comportano in maniera predatoria e, dunque, acquisiscono le imprese europee per appropriarsi dei loro asset strategici (tecnologia, marchi e brevetti, eccetera) per poi chiuderle o ridimensionarle, generando così effetti negativi per l’occupazione e la crescita in Europa? I timori sono supportati da evidenza empirica, oppure si tratta solo di notizie basate su casi sporadici, mentre in realtà gli Ide da parte dei paesi emergenti possono anche avere effetti positivi nell’economia dei paesi che li ricevono? Un recente articolo, pubblicato su International Business Review analizza gli investimenti verso il settore meccanico in Italia e Germania. È stato scelto questo settore perché rappresenta la principale destinazione degli Ide manifatturieri per l’Italia e la seconda (dopo il settore chimico) per la Germania. Lo studio mostra che effettivamente alcune multinazionali emergenti assumono un comportamento di tipo predatorio. Tuttavia, si osservano anche investimenti che generano benefici sia per gli investitori sia per le economie che li ricevono. Infatti, le multinazionali emergenti, se comparate con quelle dei paesi sviluppati nello stesso settore, tendono maggiormente a instaurare relazioni con le reti d’innovazione locali e a generare situazioni di tipo win-win, nelle quali gli effetti di learning coinvolgono sia gli investitori sia le economie riceventi.
TRE TIPI DI SUSSIDIARIE
Lo studio si basa sui risultati di un questionario somministrato con interviste dirette a un campione d’imprese che comprende multinazionali che hanno compiuto investimenti di tipo greenfield (creazione di nuovi impianti) e acquisizioni nel settore meccanico in Italia e in Germania, delle quali 23 sono sussidiarie di multinazionali dei paesi emergenti (25 per cento del totale: 34 e 58 sussidiarie rispettivamente in Italia e Germania) e 24 sussidiarie di multinazionali provenienti da paesi avanzati (2 per cento del totale: rispettivamente 492 e 784 sussidiarie). Con il questionario sono state raccolte informazioni in primo luogo sulla direzione dei flussi di conoscenza (tecnologica, organizzativa, commerciale) tra le sussidiarie e le rispettive case madri, e in secondo luogo sul livello d’integrazione delle sussidiarie con l’economia locale – in particolare sulle collaborazioni in progetti innovativi con attori locali, quali altre imprese, università o centri di ricerca. Sulla questa base, sono stati identificati tre gruppi di multinazionali. In primo luogo, lo studio identifica le sussidiarie definite “passive” poiché nello svolgimento delle loro funzioni dipendono quasi completamente dal trasferimento di conoscenza e di altri asset strategici provenienti dalla casa madre, e dunque dimostrano poca autonomia nel perseguire attività innovative locali, che comunque non conducono alla generazione di reti d’innovazione nei territori nei quali si insediano. Nel nostro campione, questa tipologia è molto più comune tra le imprese dei paesi avanzati – probabilmente perché le prime hanno raggiunto una posizione consolidata nei paesi ospitanti e non ritengono necessario vivacizzare l’operato delle loro sussidiarie. La nostra ricerca rivela al contempo che effettivamente esiste un gruppo di sussidiarie “predatrici”, così definite perché cercano di appropriarsi di tecnologie avanzate acquistando imprese nei paesi europei e trasferendo la conoscenza acquisita alla casa madrenei paesi di origine, senza contribuire all’economia locale. Lo studio mostra come, nel campione analizzato, sia più probabile che sia una multinazionale emergente a comportarsi da predatrice rispetto a una sussidiaria proveniente da paesi avanzati. C’è tuttavia anche un altro tipo di imprese di cui normalmente non si parla, nello studio definite “a duplice impatto. Anche queste sussidiarie, ancora una volta molto più numerose tra le multinazionali emergenti rispetto a quelle dei paesi avanzati, sono interessate ad acquisire tecnologia. Tuttavia, sono diverse dalle sussidiarie “predatrici”, poiché sono coinvolte nelle reti locali d’innovazione e cooperano intensamente con aziende e università del territorio. Attraverso questi legami a livello locale creano occasioni di learning mutuo: i lavoratori, i fornitori e le università locali sono fonte di conoscenza per le case madri, ma a loro volta gli attori locali possono trarre vantaggio dall’interazione con le multinazionali, sia in termini di nuove opportunità di mercato, che di acquisizione d’informazioni strategiche per lo sviluppo di nuovi prodotti e modelli di management che possano avere successo nei paesi emergenti. Dalle interviste effettuate appare che i manager locali delle imprese acquisite percepiscono questa come una forma di cooperazione win-win, piuttosto che come una situazione di sfruttamento della conoscenza locale da parte d’investitori con un atteggiamento di tipo “take and leave”.
L’IMPATTO DELLE IMPRESE DEI PAESI EMERGENTI
In sintesi, i risultati dello studio mostrano che gli investimenti delle multinazionali provenienti da paesi emergenti hanno talvolta un carattere predatorio, ma possono anche avere effetti positivi sull’economia dei paesi riceventi, laddove i manager delle imprese acquisite riescano a promuovere uno scambio di conoscenze e di esperienze innovative che connettano la multinazionale con il contesto locale. Inoltre, anche le imprese che risiedono vicino alle sussidiarie “a duplice impatto” – e che con queste interagiscono, per esempio attraverso rapporti di fornitura – possono provare ad accedere alle nuove opportunità di mercato offerte dai mercati emergenti in forte espansione e a trarre così vantaggio dagli inesorabili cambiamenti del mercato globale. Insomma, parafrasando Virgilio “(non) timeo Danaos et dona ferentes”, ovvero (non) temo gli stranieri soprattutto quando possono portare benefici.
 
 

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  1. Le conclusioni dello studio mi sembrano superficiali. Ok, non tutti gli investimenti da paesi emergenti sono predatori (ovvietà a mio giudizio). Ma le conclusioni? Mi sembra molto vaga la questione dei manager locali, più ragionevole quella dei fornitori che possono ovviamente iniziare a fornire anche la nuova casa madre all’estero. Ma poi?
    Come favorire investimenti non predatori? Come evitare appunto quelli predatori?

    • Bruno

      Infatti Xeno, questo più che uno studio è una chiacchierata. Non c’è analisi, non ci sono dati nè numeri. Una chiacchierata qua e là puntellata da termini tecnici in inglese tanto per darle un senso di profondità.

      • Roberta Rabellotti e Elisa Giuliani

        Il commento ci sembra un po’ superficiale. I dati li abbiamo presentati nell’articolo pubblicato su International Business Review che abbiamo citato all’inizio del pezzo. Come spiegato è un caso studio basato su interviste ad un campione di imprese. Ci dispiace che i casi studio siano, generalmente e spesso superficialmente, considerati delle chiacchierate. A noi – cosi come credo ad alcuni (non molti) altri colleghi che s’impegnano a cercare di intervistare le imprese invece di fare affidamento solo sui dati secondari – è sembrata un’esperienza molto dura (molte delle imprese da paesi emergenti, in particolare quelle cinesi non concedono facilmente interviste), difficile (per motivi anche di distanza linguistica e culturale) ma significativa e crediamo di aver imparato qualcosa. Se avete esperienza con questo tipo di imprese, contattateci via email (vedete le bio in basso) siamo senz’altro interessate ad un confronto costruttivo. Grazie.

    • Roberta Rabellotti e Elisa Giuliani

      Le domande di Xeno sono interessanti, anche se la questione delle policy è controversa e aperta. Non ci risulta che la UE abbia meccanismi né politiche di selezione degli IDE in entrata, quindi, al momento attuale, negli International Investment Agreements (o trattati di commercio) non sono previste misure per arginare gli investimenti ‘predatori’.Potrebbe essere utile introdurli (cosi come ci sono es. negli Stati Uniti), per evitare investimenti in settori ritenuti strategici sia per le tecnologie specifiche, che per questioni di sicurezza. Questa discussione – che pure esiste a livello EU – non ha per ora portato ad alcuna policy definita (per vari motivi sui cui non ci dilunghiamo).

    • Roberta Rabellotti e Elisa Giuliani

      Sulle implicazioni di management ovviamente ci siamo tenute ‘larghe’, nel senso che non abbiamo fatto prescrizioni precise, perché, trattandosi di uno specifico caso studio, ci sembrava inappropriato. Tuttavia, se vogliamo entrare nello specifico qui, e ci fa davvero piacere poterne discutere con altri studiosi o esperti del tema, certamente non sono necessariamente i manager delle imprese locali acquisite a poter/dover cercare le opportunità esistenti all’interno dell’impresa acquirente (quindi ripercorrendo un canale interno, che comunque può essere difficile, come peraltro documentato in numerosi studi di International Business). I canali di collaborazioni con le case madri nei paesi emergenti possono essere cercati e creati anche dalle imprese che sono nella rete (di fornitura o altro tipo di rete) dell’impresa acquisita, e non si esclude che ci siano altri modi per far tesoro di queste connessioni.

  2. Piero Fornoni

    Vorrei aggiungere all’ articolo i seguenti punti :
    A) Investire in Europa per certe ditte cinesi vuol dire ridurre i costi di produzione : ormai i costi degli operai cinesi sono equivalenti a quelli di certi paesi europei con la differenza che gli stipendi medio bassi europei crescono dello 0.5-1.5% all’anno mentre quelli cinesi dal 5-10% : Vedi http://online.barrons.com/articles/the-new-china-1416029988?tesla=y&mod=BOL_twm_ls
    “A key attraction for manufacturers is the region’s low wages, especially compared with those in China, where factory pay has soared 14% a year in the past decade. The typical factory worker in China gets about $700 a month, versus $250 in Vietnam, $130 in Cambodia, $110 in Myanmar, and $140 in Laos. “
    700$ al mese (700:1.24 = 565euro) contro i 540 euro ( da giugno 2015) al mese del salario minimo portoghese
    B) Secondo OECD ormai molte industrie dei paesi emergenti risparmiati dalla crisi investono in ricerca piu’ delle imprese dei paesi sviluppati .
    Vedi come esempio http://www.oecd.org/newsroom/china-headed-to-overtake-eu-us-in-science-technology-spending.htm
    “China headed to overtake EU, US in science & technology spending, OECD says
     12/11/14 – Squeezed R&D budgets in the EU, Japan and US are reducing the weight of advanced economies in science and technology research, patent applications and scientific publications and leaving China on track to be the world’s top R&D spender by around 2019, according to a new OECD report.”

    • Roberta Rabellotti e Elisa Giuliani

      Grazie Piero Fornoni per i tuoi suggerimenti, molto interessanti e anche per i promettenti spunti di riflessione per chi fa ricerca su questi temi.

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