Sui fondi strutturali ci sono due possibilità: si può accettare l’incapacità di spesa delle amministrazioni e riprogrammare le risorse destinate a coesione e sviluppo. Oppure si possono mettere in atto vari strumenti che riescano almeno migliorare la situazione. Cosa prevede la Legge di stabilità.
PERCHÉ SI RIDUCONO I COFINANZIAMENTI
Proprio mentre si cercano risorse per rilanciare politiche economiche per la crescita, il disegno di Legge di stabilità riduce le somme destinate al cofinanziamento nazionale dei fondi strutturali europei.
Le misure sono sostanzialmente due. La prima destina risorse (3.500 milioni nel periodo 2015-2018) derivanti dai cofinanziamenti nazionali dei fondi strutturali europei al finanziamento di sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato (art. 12). La seconda (contenuta in un emendamento governativo) riduce la quota nazionale di cofinanziamento (500 milioni) che avrebbe consentito alle regioni di superare per lo stesso importo i limiti posti dal patto di stabilità interno (art. 36). Si tratta di una scelta meditata oppure della prevalenza delle esigenze di risanamento dei conti pubblici su quelle di sviluppo oppure di uno strano modo di intendere la spending review? Prima di entrare nel merito dei provvedimenti bisogna vedere come il Governo intende, in generale, questa riduzione di spesa. Il ridimensionamento della quota di cofinanziamento nasce da un esplicito invito della Commissione europea in seguito ai notevoli ritardi di spesa registrati nel recente passato da parte di quasi tutte le amministrazioni italiane. La pratica di ridurre il cofinanziamento lasciando al tempo stesso inalterati i finanziamenti comunitari risale al 2011 e permette di svincolare una parte delle risorse nazionali da regole e tempistiche proprie della programmazione comunitaria. L’obiettivo è ovviamente quello di evitare di perdere risorse che non possono essere spese con le modalità prescritte nell’orizzonte temporale previsto. Le risorse risparmiate vengono accantonate in un apposito fondo destinato a una programmazione parallela (Piano di azione e coesione), i cui interventi vengono progressivamente approvati dal Cipe seguendo unicamente regole nazionali, ma mantenendo le stesse finalità e la stessa destinazione territoriale precedentemente stabilita. La misura prevista dall’articolo 12 della Legge di stabilità nasce dalla constatazione che, nonostante la riduzione del tasso di cofinanziamento nazionale e la creazione del Piano di azione e coesione, le risorse non sono state utilizzate e sono state oggetto di varie riprogrammazioni. Proprio l’eccesso di risorse rispetto al loro uso ha indotto il Governo a prevederne un utilizzo anomalo per la copertura parziale degli oneri relativi agli sgravi contributivi per assunzioni a tempo indeterminato (1 miliardo per ciascun anno del triennio 2015-2017 e di 500 milioni per il 2018). Per quanto riguarda la mancata esclusione dal patto di stabilità interno delle spese sostenute dalle regioni per il cofinanziamento dei fondi comunitari, le motivazioni sono molto diverse. In questo caso, la riduzione di spesa (che permette un miglioramento di indebitamento netto e fabbisogno) determina un reale rischio di perdita di finanziamenti europei. Infatti, le regole contabili relative al patto di stabilità interno, se non modificate o superate, costituiscono un limite di spesa invalicabile anche quando le regioni dispongono di ampie disponibilità finanziarie in cassa.
Siamo dunque in presenza di un trade off tra esigenze di risanamento di bilancio e politica di sviluppo. E la misura ha un significato esattamente opposto alla riduzione del tasso di cofinanziamento nazionale (che ha lo scopo di salvaguardare le risorse assegnate dalla Commissione europea).
UN’INCAPACITÀ DA AFFRONTARE
Chiarito quanto sopra, resta da esaminare se una politica di riduzione dei cofinanziamenti nazionali e la successiva riallocazione delle risorse sia la migliore o unica soluzione al problema del ritardo di spesa. Per il ciclo 2014-2020, è stata concordata con la Commissione europea e con le amministrazioni di spesa una quota di cofinanziamento pari al minimo ammissibile (25 per cento) relativamente a quasi tutti i programmi nazionali e ragionali. Ciò permetterebbe, almeno in teoria, di evitare il rischio di perdita di fondi comunitari.
Ma la ridotta capacità di spesa è una caratteristica estendibile alle stesse risorse nazionali destinate a politiche di sviluppo territoriale. Ciò vuol dire che riducendo il cofinanziamento nazionale preserviamo le risorse che altrimenti si sarebbero perse, ma utilizziamo comunque in maniera insufficiente o in certi casi nulla i fondi disponibili nella programmazione nazionale (Fondo del piano azione e coesione, Fondo sviluppo e coesione, eccetera). Da fonti governative risulta che attualmente:
– Dobbiamo spendere 20,2 miliardi di risorse comunitarie e cofinanziamenti nazionali del ciclo 2007-2013 entro il 2015;
– La dotazione del fondo del Piano azione e coesione (relativa al periodo 2007-2013) ammonta a 9,8 miliardi e è destinata a crescere rapidamente con i trasferimenti relativi al periodo 2014-2020;
– Le disponibilità attuali del Fondo sviluppo e coesione per il periodo 2014-2020 sono pari a 39 miliardi, mentre risulterebbero di 28,8 miliardi residui per il periodo 2007-2013;
– I fondi comunitari assegnati all’Italia per il periodo 2014-2020 sono dell’ordine di 44 miliardi;
– Il cofinanziamento statale finora assicurato per il ciclo 2014-2020 è dell’ordine di 24 miliardi.
In questa situazione si può affermare a ragion veduta che la capacità di assorbimento di queste risorse è di gran lunga inferiore al loro ammontare. Cambiare nome da “cofinanziamenti nazionali” a “piano azione coesione” può servire per salvare finanziamenti europei altrimenti persi, ma non serve certo ad attivare nuovi investimenti (e tanto meno ad assicurare la qualità della spesa). Gli investimenti non si faranno fino a quando non si interverrà massicciamente sulle cause dell’incapacità di spendere, che vanno in gran parte ricercate nell’assoluta incapacità di fare programmazione e valutazione e di gestire progettazione e appalti.
Ne segue una domanda legittima: perché non usare risorse finanziarie e umane per risolvere queste problematiche? E perché viceversa accettare come una fatalità la situazione esistente? Mi sembra che nulla possa giustificare la rinuncia ad azioni mirate per rendere più efficiente la gestione di tali risorse, compre la creazione di task force apposite per assicurarne l’utilizzo per le finalità originarie in tempi e modalità accettabili.
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Francesco
Ma visto che non si riesce proprio a spendere, perché queste risorse (ingenti) non possono essere usate con programmi di riduzione delle tasse attraverso crediti d’imposta ad imprese che si localizzino in specifiche aree geografiche o che investano in particolari aree (ad esempio ricerca o innovazione di processo?). In sostanza sarebbero le imprese a individuare gli investimenti ed il tutto sarebbe certamente più efficiente.
Francesco
L’incapacità di spesa va ricondotta sì all’incapacità di fare programmazione, ma a mio parere è in buona parte connessa all’inadeguatezza delle competenze e delle strutture dei soggetti a vario titolo incaricati di gestire opere pubbliche (uffici tecnici degli enti pubblici, gli stessi provveditorati alle OOPP, ecc.) cui vengono destinate la stragrande maggioranza dei fondi strutturali. Tali carenze abbinate ad una normativa troppo complicata (D.Lgs163/2006 e dPR 207/2010) e soggetta negli anni a numerosissime modifiche rende quasi impossibile il rispetto delle tempistiche attuative e di spesa degli interventi finanziati. Anche in presenza quindi di una programmazione efficace sarebbe allo stato quasi impossibile rispettare gli impegni di spesa. Il vero problema non è nella programmazione – in relazione a molti Programmi Operativi la maggior parte delle risorse infatti sono state interamente allocate, ovvero assegnate per la realizzazione di progetti – ma nella capacità attuativa da parte di chi beneficia dei finanziamenti.