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Prezzo del petrolio: non decide solo l’Opec

I repentini cambiamenti nel prezzo del petrolio hanno riportato l’attenzione alle politiche dell’Opec. L’organizzazione dei paesi esportatori ha certamente perso visione e coesione. Benché resti comunque uno dei protagonisti del mercato, ci sono oggi molti altri attori. E non tutti comprimari.
LA DOMANDA MONDIALE DI PETROLIO
Nelle ultime settimane l’andamento del prezzo del petrolio è sulle prime pagine dei giornali. Ci troviamo di fronte a una riduzione repentina del prezzo, sceso di quasi 25 dollari al barile in soli tre mesi. In termini percentuali, si tratta di una delle cadute più brusche sperimentate negli ultimi anni (figura 1)
In questo contesto, le politiche dell’Opec sembrano essere meno incisive rispetto al passato e nel recente meeting di Vienna è risultata evidente la mancanza di coesione fra i paesi che ne fanno parte. Dunque ogni tentativo di negoziare una riduzione dell’offerta complessiva dei paesi Opec sembra, in questa fase, abbastanza difficile da raggiungere.
Diversi analisti hanno cercato di spiegare quanto sia accaduto e sui giornali non mancano ricostruzioni, più o meno condivisibili, di quello che è stato o che sarà il prevedibile comportamento dei principali protagonisti della vicenda.
La spiegazione più ricorrente è legata a un eccesso di offerta di petrolio sul mercato internazionale. Questo fenomeno dipende a sua volta da due questioni non necessariamente legate.
Il primo tema importante riguarda la domanda mondiale di petrolio che fatica a riprendersi dopo la crisi degli ultimi tre anni. I paesi non-Oecd – che per molti trimestri di fila sono cresciuti con tassi percentuali a due cifre – negli ultimi due anni hanno registrato un più modesto incremento, pari a circa il 3 per cento a trimestre. D’altro canto, per i paesi Oecd le prospettive sono ancora meno brillanti: 2011, 2012 e 2014 hanno segnato riduzioni della domanda di petrolio. Il risultato complessivo dal punto di vista della crescita della domanda mondiale è presto detto: secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia, il 2014 potrebbe chiudersi con un incremento della domanda di 700mila barili/giorno, ovvero una crescita percentuale molto vicina allo zero.
A livello globale i consumi di petrolio sono circa 92 milioni di barili/giorno, mentre l’offerta nel corso del 2014 è stata superiore strutturalmente di circa 1 milione di barili/giorno.
Le ragioni dello sbilanciamento sono molteplici: gli Stati Uniti, che rappresentano ormai circa il 10 per cento dell’offerta complessiva, hanno registrato un livello di produzione che non conoscevano da trenta anni. Anche alcune aree ritenute critiche hanno contribuito a formare l’eccesso di offerta. La Libia – nonostante la guerra civile – ha quasi raggiunto 1 milione di barili/giorno, mentre l’Iraq ha realizzato un livello di produzione (circa 3,3 milioni di barili/giorno), che non vedeva dai tempi della prima guerra del Golfo.
Un quadro davvero molto complesso, il cui risultato atteso ed evidente è un importante incremento delle scorte petrolifere: in queste settimane gli Stati Uniti – solo per fare un esempio – hanno riportato quelle più importanti mai registrate negli ultimi ottanta anni.
LE STRATEGIE AZIENDALI NELL’UPSTREAM
La seconda questione riguarda la strategia che è stata adottata nell’ultimo quinquennio dalle aziende che operano nel mercato dell’upstream petrolifero.
Secondo gli analisti le compagnie petrolifere hanno infatti investito moltissimo negli ultimi quattro anni: 2.500 miliardi dollari – dice Leonardo Maugeri – destinati a finanziare la ricerca e la produzione di nuovo petrolio.
Contestualmente un ambiente molto competitivo ha portato le principali aziende petrolifere a contendersi ogni area e ogni campo disponibile al mondo.
Questo ha comportato che il numero dei campi esplorati è cresciuto a dismisura negli ultimi anni in condizioni sempre più complesse e, per varie ragioni, potenzialmente portatrici di escalation sui lato dei costi. I progetti a lungo termine sono infatti più vulnerabili per loro natura, in quanto maggiormente esposti a incrementi di costo (per esempio, l’acciaio o il costo del lavoro specializzato o eventi meteorologici estremi o un qualche tipo di intervento giuridico o politico). E d’altra parte, il settore petrolifero è sempre stato soggetto a oscillazioni di costo repentine e particolarmente imprevedibili anche a causa dell’enorme influenza della politica sulle forniture e sui prezzi.
LE STRATEGIE DELL’OPEC
La terza questione riguarda il comportamento strategico dei paesi aderenti all’Opec, il cartello che controlla ormai poco più del 40 per cento del mercato. In questi giorni i vari paesi aderenti all’organizzazione comunicano il prezzo di riferimento rispetto al quale costruiscono il loro bilancio pubblico. Per esempio, l’Arabia Saudita lo ha indicato pari a 45 dollari Usa per barile. Benché il costo di produzione del paese sia pari a circa tre dollari, e dunque il margine per ogni barile prodotto resti ampio, è possibile che alcuni membri del cartello desiderino portare il prezzo ancora più in basso con l’obiettivo di spiazzare le produzioni marginali dei paesi non-Opec (figura 2). Naturalmente sarebbe un’operazione con un costo in termini di entrate che non tutti i paesi dell’Opec sono in condizione di potersi permettere in questo momento. E infatti sono stati vani i tentativi dell’Arabia Saudita di convincere anche Russia e Messico ad aderire a una coalizione tesa a ridurre l’offerta disponibile. Inutile quindi aggiungere che il protrarsi per un lasso di tempo significativo di prezzi più bassi di quelli attuali genererebbe una crisi molto seria in un paese come la Russia, crisi che, nonostante le tensioni in atto, anche gli Stati Uniti vorrebbero evitare.
L’EFFICIENZA ENERGETICA
La quarta e ultima questione riguarda il tema dell’incremento dell’efficienza energetica indotto dagli alti prezzi del petrolio.
Dal momento del primo embargo petrolifero (1973) la quantità di petrolio e di gas consumato negli Stati Uniti per generare 1 dollaro di prodotto interno lordo è diminuita del 64 per cento. Nonostante i risparmi, gli incrementi di prezzo del greggio che si sono succeduti hanno anche generato la (ri)nascita e lo sviluppo di un’industria del petrolio che negli Stati Uniti sembrava sul viale del tramonto. Di converso sono diminuite di molto le importazioni. Quest’anno gli Stati Uniti importeranno circa 4,5 milioni di barili al giorno di greggio con un calo del 24 per cento dal 1986, anno in cui il prezzo sotto i 10 dollari aveva dato un colpo mortale all’industria petrolifera americana e ai tentativi di guadagnare ulteriore efficienza.
L’altro prezzo del petrolio ha stimolato guadagni di efficienza e cambiamenti tecnologici anche in Europa: basti ricordare la crescita dell’industria nucleare francese, nata dopo il primo shock petrolifero. I primi provvedimenti legislativi varati dal Congresso degli Stati Uniti per incoraggiare la ricerca nel settore solare sono stati emanati nel 1974.
Anche in Italia ci sono state leggi specifiche per favorire il risparmio energetico e l’efficienza: la prima nel 1974, la seconda – molto importante – nel 1982, dopo il secondo shock petrolifero. La legge 308/82 attuava il piano energetico nazionale e dava un ruolo anche alle energie rinnovabili, al risparmio energetico e all’uso razionale dell’energia. Legislazione che è proseguita – non senza polemiche – con le leggi 9 e 10 del 1991.
E i guadagni nei termini di una maggiore efficienza svolgono un po’ la funzione delle ruote di un argano in cui l’efficienza energetica aumenta quando il prezzo del petrolio aumenta, ma non diminuisce in caso di riduzioni del prezzo. È quello che gli inglesi chiamano ratchet effect, i progressi della tecnologia in questo ambito non sono reversibili.
I BENEFICI PER I CONSUMATORI
Resta da capire come e in che misura i cali del prezzo del petrolio si trasformeranno in riduzioni del prezzo dell’energia nei vari paesi, a cominciare dal nostro. Nel caso dei prezzi amministrati, come il gas naturale o l’elettricità, l’Autorità per l’energia comunicherà la riduzione del prezzo al consumatore. Per i trasporti, che rappresentano la gran parte del consumo petrolifero dei paesi avanzati, bisognerà attendere le politiche delle diverse imprese operanti nel settore dei carburanti. E oltre all’entità della riduzione, sarà interessante osservare anche la rapidità con cui la diminuzione si trasmetterà ai prezzi finali.
Resta comunque evidente che il calo non potrà essere molto visibile per l’enorme peso fiscale che copre ogni variazione del prezzo della materia prima.

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Figura 1

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Figura 2

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  1. EMILIO SILETTI

    Nulla è detto sul fatto probabile che è in corso una guerra dell’ Arabia Saudita e altri paesi contro gli U.S.A. nel senso che se il prezzo del petrolio scende sotto un certo livello (ca 60$/barile) diventa poco economico l’estrazione del cosidetto Shale Gas.

    • Orso

      Più che altro, realmente senza intento polemico, non vi sono risposte alle domande che lo stesso autore si pone (e che lavoce.info ha lanciato su twitter), ma solo considerazioni sui (alcuni dei) vari fattori che impattano sulle oscillazioni del prezzo del petrolio.

      • alessandro Lanza

        Più che altro, realmente senza intento polemico, se avessi risposte alle domande sarei in mago Otelma. 🙂

  2. EzioP1

    L’energia si dimostra essere sempre più un problema politico prima e tecnico-commerciale poi. Il prezzo sembra non essere più determinato dal rapporto tra domanda ed offerta ma da soli scopi politici – ridurre gli introiti della Russia e dell’ISIS – e mettere in crisi gli USA per lo shale gas. L’offerta non intende calare poiché ciò significherebbe per i paesi produttori perdere clienti con gravi ripercussioni alla ripresa della domanda e dei prezzi. L’Europa poi per la parte politica deve considerare che la situazione geografica è più logicamente favorevole ai rapporti Russia e UE che non quelli USA e UE (attraversamento degli USA e dell’Oceano Atlantico e capacità di fornitura da sviluppare). Si presenta quindi una situazione molto critica per la UE che a seguito dei buoni rapporti e in parte anche dei vincoli con gli USA (vedi NATO, FMI, WTO e quant’altro) non può, pena una regressione socio-economica molto grave, girare le spalle agli USA. Siamo in un dilemma di difficile gestione nel quale ci dibattiamo ma senza avere una valida soluzione in vista.

  3. DomenicoC

    Assolutamente falso che l’Arabia Saudita abbia cercato di convincere Messico e Russia a ridurre la produzione. E’ stato l’iran a spingere per questa ipotesi, sostenuto dal Venzuela. Anche se poi si è adeguato, assieme alla Russia, ad accettare la produzione invariata. Il principale responsabile di tale decisione è il saudita Ali Al Naimi.

  4. LUIGI lUPO

    Il petrolio si quota in dollari ma quando si dice che calato/aumentato di tot non si tiene mai conto anche del cambio euro/dollaro. In questi giorni l’euro ha perso valore, quindi il petrolio, per noi europei, è aumentato, mentre invece sui media si guarda se la benzina è calata.Quando si pubblicano i dati storici sul prezzo del petrolio sarebbe interessante, e di più facile comprensione, evidenziare il controvalore in euro.

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