La domanda di petrolio non cresce più come un tempo. E oggi Arabia Saudita e paesi Opec accettano prezzi più bassi pur di mantenere la loro quota di mercato. La strategia serve a scoraggiare lo sviluppo di iniziative alternative. Ma tutto ciò cambia anche le prospettive delle imprese petrolifere.

La strategia dell’Opec

Nei recenti incontri di Algeri, i paesi Opec sembrano aver trovato maggiore coesione su una comune strategia per il mercato petrolifero. La risposta è tuttavia stata altalenante a riprova del fatto che spesso il rumore causato dagli aspetti congiunturali, unito al nervosismo degli operatori, impedisce di interpretarne i segnali di fondo, quelli che ci permettano di comprendere l’evoluzione del mercato nei prossimi venti anni.
Una prima chiave di lettura è guardare al comportamento dei grandi produttori di greggio come l’Arabia Saudita, un paese che possiede circa un quarto delle riserve mondiali di petrolio note e ha un costo di produzione che, in media, non supera i 4 dollari a barile.
La monarchia saudita ha abbandonato la difesa a oltranza del prezzo preferendo il mantenimento della propria produzione e dunque la propria fetta di mercato. Secondo l’Oil Market Report della Iea – International Energy Agency (settembre 2016) la domanda dei paesi Oecd tra il 2013 e il 2017 cresce da 46,1 a 46,5 Mbd. Non basta l’incremento dei consumi dei paesi non Oecd (da 45,9 a 50,9) a dare vitalità a un mercato molto debole, la cui dinamica, con il rallentamento del ciclo degli investimenti in paesi grandi consumatori come la Cina, potrebbe non essere molto diversa per i prossimi venti anni.
La difesa saudita della quota a svantaggio del prezzo consente a un tempo di tenere lontano dal mercato i produttori marginali, convenzionali o meno, e di scoraggiare la nascita e lo sviluppo di nuove iniziative. Chi investirebbe oggi su progetti finanziariamente sostenibili solo se il prezzo del petrolio è superiore a 80 dollari? La “strategia di Erode” – uccidere il bambino nella culla per evitare che diventi un ragazzo, poi un uomo che poi magari uccide te – per quanto cinica si applica con scientificità e metodo a questa fase del mercato petrolifero.

Leggi anche:  Come cambia il mondo del lavoro con la transizione energetica *

Conseguenze di un nuovo modello di business

Attuare una politica rigorosa che privilegi la quantità sul prezzo ha riflessi evidenti anche sul modello di business dei grandi paesi produttori. Poiché non sono interessati di per sé né al prezzo né alle quantità, quanto al ricavo complessivo, possono accettare e sostenere un prezzo più basso se mantengono la quota e se contestualmente avviano iniziative per diversificare la loro economia e la loro presenza sul mercato.
Un grande paese produttore che avesse bisogno di 100 dollari/anno di entrate petrolifere per poter mantenere l’equilibrio dei conti pubblici ieri avrebbe dato battaglia per evitare un eccesso di offerta. Oggi invece accetta un prezzo più basso, difende la quota e magari copre solo l’80 per cento delle proprie esigenze di bilancio, se contestualmente ha lavorato per recuperare 20 dollari da altre iniziative o ha effettuato risparmi.
Si possono leggere così le politiche in atto, per esempio, in Arabia Saudita tese a imporre un tetto ai salari per le posizioni di vertice nell’amministrazione (settore petrolifero incluso). Oppure a riformare, magari ancora troppo timidamente, la struttura dei prezzi interni dell’energia. Oppure ancora a sostenere le diverse politiche contenute nel documento Saudi Vision 2030 (per esempio l’Obiettivo n. 4: “Incrementare le entrate statali non dovute al petrolio da 163 miliardi a un trilione di ryal sauditi”).
La politica di contenimento del prezzo del petrolio caratterizzerà probabilmente l’andamento del mercato petrolifero per i prossimi venti anni. Fasi di congiuntura diversa saranno certamente possibili, ma il trend nel lungo termine sarà di un prezzo intorno ai 60 dollari.
Questo scenario sfida in modo cruciale anche le imprese petrolifere e in particolare quelle che hanno una presenza decisiva nel mercato azionario. Tutte queste aziende, in modo diversificato a seconda delle specifiche situazioni, affrontano il problema dei cosiddetti stranded assets. Il termine si riferisce alla valutazione di quelle risorse energetiche (petrolio, gas o carbone) per la cui scoperta sono stati fatti ingenti investimenti, ma che per le mutate condizioni non arriveranno mai al mercato. Le aziende che hanno queste riserve nel loro stato patrimoniale dovranno cancellarle dai bilanci trasformandole in perdite. È stato stimato che complessivamente si tratti di oltre mille miliardi di dollari di investimenti. A cui vanno aggiunti quasi 500 miliardi nel gas e oltre 200 miliardi nell’industria del carbone.
È evidente come i due temi sono collegati fra loro. È altrettanto evidente come le conseguenze per quelle società siano potenzialmente esiziali. In questa ottica potrebbe essere letta la recente apertura alle energie rinnovabili del gigante di casa nostra, l’Eni, e la politica di un gigante mondiale del petrolio come l’Arabia Saudita, che ha ben compreso come sia meglio produrre greggio oggi, per evitare che resti sottoterra in un prossimo futuro.

Leggi anche:  Comunità energetiche rinnovabili, un puzzle ancora da comporre

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Terre rare: solo l'economia circolare ci rende indipendenti