Le prossime elezioni politiche in Grecia sono un passaggio delicato per tutta l’Unione. Si aprono scenari diversi, che potrebbero condurre a una nuova politica economica per l’euro, con l’interpretazione meno restrittiva dei vincoli di bilancio. Oppure al rinnovarsi dei rischi di crisi finanziaria.
LE ELEZIONI IN GRECIA
Ma che succederà con la nuova crisi greca? Nel dicembre scorso mercati e cancellerie europee sono entrate in fibrillazione, perché un possibile fallimento nell’elezione del presidente della Repubblica greca avrebbe comportato automaticamente nuove elezioni politiche e dunque la possibile vittoria di Syriza e della sua agenda politica volta alla ristrutturazione del debito. Ora che il peggio si è avverato, il presidente non è stato eletto, e le elezioni politiche in Grecia sono già fissate per il 25 di gennaio, tutto appare stranamente calmo. La borsa di Atene, comprensibilmente, ha perso l’11 per cento, con qualche rimbalzo negativo sulle altre piazze europee; ma le quotazione dei titoli pubblici degli altri paesi, anche di quelli più nei guai, come il nostro, non si sono quasi mossi e lo spread tra Bund e Btp non è aumentato.
Tutto bene allora: i sistemi di protezione introdotti a livello europeo dopo la prima crisi greca — i prodomi dell’unione bancaria, il fondo di stabilità europeo (Esm) e le Outright Market Transaction (Omt) — funzionano e non c’è nessun rischio di contagio in vista? Non necessariamente. Anzi, è molto probabile che così come è avvenuto nel 2010, la crisi greca rappresenti un altro salto di qualità nella vita dell’unione monetaria, quasi un rito di passaggio verso approdi che, però, ancora non sono chiari.
I DILEMMI GRECI
Ma anche ammesso che Alexis Tsipras alla fine le elezioni le vinca davvero e con margine sufficiente da poter imporre la propria agenda (tutto da vedersi, naturalmente), la sua politica è sensata? Dipende. Dalla sua ha il fatto che, a prezzo di una recessione che dal 2007 ha distrutto il 22 per cento del suo Pil (il 14 per cento dal 2010) e portato il tasso di disoccupazione al 27 per cento, la Grecia ha ora raggiunto un avanzo pubblico primario, riequilibrato il bilancio esterno e ci sono perfino modeste prospettive di crescita in futuro, grazie anche alle riforme realizzate sotto tutela della Troika. In altre parole, la Grecia non ha più bisogno di prestiti esterni per pagare stipendi pubblici o pensioni. Di più, il debito pubblico greco, pari a 330 miliardi, oltre il 175 per cento del Pil, è per circa l’80 per cento nelle mani di istituzioni finanziarie straniere: il 60 per cento sotto forma di prestiti da Efsm o Esm, il 12 per cento dell’Fmi, il restante della Bce. Se dunque la Grecia ripudiasse unilateralmente il debito o si impegnasse a pagarlo solo ai residenti, gli effetti sull’economia interna sarebbero limitati e i risparmi sugli interessi, pari a circa il 5 per cento del Pil, coprirebbe in qualche misura le politiche sociali che la stessa Syriza annuncia.
Qui però finiscono le buone notizie. Con il ripudio, la Grecia perderebbe l’accesso ai mercati internazionali dei capitali per un tempo sicuramente considerevole, e si innesterebbero complessi processi legali (il debito greco, dopo la ristrutturazione del 2012 è ora sottoposto al diritto internazionale) che porterebbero probabilmente all’esproprio delle attività greche detenute all’estero. Di più, sicuramente gli altri paesi europei troverebbero il modo di punirla sul piano economico, anche se non è ovvio da un punto di vista legale come (blocco dei fondi strutturali europei? Perdita di diritti di voto nel consiglio? Perdita di accesso al mercato comune?). Certo, non si capisce come le banche greche si finanzierebbero in futuro, non potendo più accedere ai finanziamenti della Bce. Anche se non è questo l’obiettivo dichiarato da Syriza, è dunque probabile che il ripudio unilaterale del debito pubblico porterebbe inevitabilmente a una fuoriuscita della Grecia dall’euro, con il vantaggio per il paese di un recupero di autonomia monetaria e della possibilità di svalutare il cambio, ma anche con tutti i problemi che comporterebbe stare fuori dall’Unione europea e non aver più accesso ai mercati internazionali dei capitali.
IL BARGAINING
Per questo, è molto probabile che l’atteggiamento di Syriza sia soprattutto un “bargaining chip”, una minaccia posta sul tavolo per contrattare da una posizione di forza relativa una qualche ristrutturazione del debito. Se la Grecia denunciasse il debito o congelasse il pagamento degli interessi ci sarebbero infatti costi su tutti i paesi creditori, direttamente per i prestiti bilaterali o tramite l’Esm, e indirettamente attraverso le perdite sopportate dalla Bce che verrebbero spalmate tra tutti i paesi partecipanti al suo capitale. L’Italia, per dire, ci rimetterebbe fino a 20 miliardi.
Ma oltre ai costi finanziari, ci sarebbero quelli politici; la dimostrazione che le politiche seguite finora dell’UE non funzionano, almeno non dappertutto, oltre a rappresentare la prova provata che l’euro non è davvero lì per star lì per sempre o almeno non per tutti, con le inevitabili conseguenze negative per la credibilità della costruzione monetaria europea.
I DILEMMI EUROPEI
E qui si innestano i dilemmi europei. Di per sé, la richiesta di una ristrutturazione non è irragionevole, oltre che finanziariamente sostenibile, data la dimensione sostanzialmente limitata del debito greco rispetto al Pil complessivo dei paesi dell’euro. In realtà, nessuno capisce bene come con i tassi di crescita nominale prevedibili per il futuro prossimo venturo, la Grecia riuscirà mai a restituire un debito pari al 177 per cento del suo Pil, per quanto (artificialmente) bassi possono essere i tassi di interesse richiesti (ora attorno all’1,5 per cento). E se a una ristrutturazione si deve comunque arrivare, meglio farla prima che dopo, perché permetterebbe al paese di ripartire ed eliminerebbe una fonte di incertezza per tutti gli altri. Ma cedere alle richieste greche, anche solo in parte, rimetterebbe in discussione l’intera politica economica europea seguita dopo la crisi, con possibili effetti di contagio su altri paesi. Per esempio, rafforzerebbe Podemos in Spagna per le elezioni politiche del prossimo anno e in generale, tutti i partiti critici nei confronti della politica economica imposta sui paesi del sud d’Europa, il nostro incluso.
E qui si aprono due possibilità. Ottimisticamente, l’esperienza greca potrebbe convincere la Germania e i suoi alleati del Nord che le politiche di austerità a tutti i costi non pagano: alla fine, le opinioni pubbliche dei paesi trattati si ribellano, e l’intera unione monetaria viene messa a rischio, con enormi costi per tutti. Il contrario della dottrina del “tenere i paesi continuamente sull’orlo del baratro o non fanno le riforme” teorizzata dai tedeschi per sfuggire ai rischi dell’azzardo morale. Questo potrebbe condurre a un’ulteriore revisione della politica economica europea, rafforzando i primi timidi cenni (tipo il piano Juncker o il dibattitto sulla “flessibilità”) a favore di una interpretazione meno restrittiva dei vincoli di bilancio e verso una politica fiscale più favorevole alla crescita.
Ma al contrario, la vicenda greca potrebbe convincere definitivamente l’opinione pubblica tedesca che aiutare i Piigs è solo una perdita di tempo e denaro, perché sono inaffidabili e il loro vero e unico obiettivo è fregarsi i soldi degli altri. Se passa questa interpretazione, il caso greco moltiplicherà le critiche e i possibili ricorsi costituzionali contro l’Omt, e renderà più difficile portare avanti le politiche di quantitative easing promesse dalla Bce, che al momento significano di fatto, come l’Omt, acquistare ingenti quantità dei debiti pubblici dei paesi in crisi, a cominciare dal nostro. Per esempio, la politica del Qe dovrebbe essere ufficialmente varata alla riunione del consiglio direttivo della Bce del 22 gennaio, cioè solo tre giorni prima delle elezioni greche, e a questo punto non è ovvio che ciò avvenga davvero. Ma qualunque percezione di un rallentamento dei programmi potrebbe innestare una nuova crisi finanziaria dagli esiti imprevedibili.
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Massimo Matteoli
Secondo l’autore dell’articolo, e non si può che concordare, l’unica soluzione razionale sarebbe discutere in Europa del debito (non solo di quello greco) e pensare ad una politica di sviluppo vera, ben più seria di quella promessa da Juncker.
Come è purtroppo prevedibile la soluzione più razionale è quella che ha meno probabilità di essere scelta.
Quello che mi impressiona maggiormente è la cecità delle classi dirigenti tedesche che per la terza volta in un secolo rischiano di far deflagare gli equilibri dell’Europa.
I costi saranno enormi per tutti e l’esperienza storica ci ricorda che Berlino non ne pagherà meno degli altri, anzi, anche se mal comune in questo caso non è mezzo gaudio.
Piero
“tenere i paesi continuamente sull’orlo del baratro o non fanno le riforme” teorizzata dai tedeschi per sfuggire ai rischi dell’azzardo morale.
Finalmente si prende coscienza di ciò, aggiungo che tutto è stato pissibile con la collaborazione della Bce.
Non vorrei che i “finti litigi” tra la Bce è la Bundesbank servano ad effettuare un QE inutile.
Giuseppe Sansonna
La Germania dovrebbe ricordarsi gli aiuti che ha avuto alla conferenza di Londra del !953, quando i paesi vincitori della seconda guerra mondiale, preso atto dell’impossibilità pratica di restrituire l’ingento debito della prima e della seconda guerra mondiale, accettarono e primo fra questi gli Stati Uniti una drastica riduzione del suo debito. La vicenda della Grecia offre anche un altro spunto di riflessione. Non si può avere una moneta stabile europea se da un lato i Paesi membri non procedono alla cessione di importanti sfere, sia in economia che in politica, della loro sovranità nazionale; dall’altro la moneta europea sarà sempre soggetta a forti oscillazioni se non si procede all’unificazione delle legislazione tra i vari paesi. Giuseppe Sansonna
Piero
Alla fine il debito della Germania nel 1990 fu cancellato.
Poi la Germania e’ un’altro paese che non ha rispettato il trattato, non rispetto la regola del 3% e continuamente non ha rispettato la regola del 6% sul surplus.
Nessun paese ha il coraggio di attaccare la Germania, ha paura di ritorsioni finanziarie.
Questa non è l’Europa, e’ l’impero tedesco (comanda il paese più forte).
Maurizio Cocucci
Per chiarezza va ricordato che quando la Germania sforò il limite del 3% nel 2002 la Commissione Europea attivò la procedura di infrazione che fu poi sospesa in quanto il governo tedesco presentò un programma di rientro attraverso riforme strutturali. Presidente della Commissione all’epoca era Romano Prodi! Nel 2003 i dati mostravano come questo rientro non ebbe luogo e si aprì una seconda procedura che però venne fermata dai ministri finanziari UE con voto unanime, quindi anche da parte del nostro rappresentante. La Commissione Europea presentò quindi ricorso, in opposizione a tale decisione, presso la Corte di Giustizia Europea la quale sentenziò che non poteva accogliere il ricorso perché la decisione del Consiglio dell’unione Europea era legittimo. In quel periodo quasi tutti gli Stati, Italia inclusa, finirono per disattendere il limite del deficit imposto dal trattato di Maastricht. Per quanto riguarda il limite del 6% del surplus commerciale non è una regola, e difatti non lo troverà in alcun trattato, ma un parametro che la Commissione Europea ha previsto insieme ad altri per favorire uno sviluppo omogeneo delle economie dell’Eurozona. Anche qui in ogni modo è prevista una procedura di infrazione (diversa però da quelle che si assumono in violazione di norme contenute nei trattati) e il governo tedesco ha provveduto a prendere misure che però richiedono tempo e comunque anche una risposta da parte delle altre nazioni. Non si possono bloccare le esportazioni.
Piero
La solidarietà che ieri i paesi meridionali hanno mostrato nei confronti della Germania e’ la stessa che oggi la Germania sta mostrando nei nostri confronti!
La Germania sa solo prendere e non sa dare, vuole creare non l’Europa ma l’impero tedesco.
Amegighi
Ci sono molti fatti e dati che possono essere considerati dalla parte tedesca.
Molti scordano che la Germania, a cavallo del millennio, ha completamente ricostruito una nazione (ex DDR) dalle fondamenta. Chi è stato nella ex DDR, sa benissimo di cosa parlo. Ciò non ha inciso, o solo minimamente, sul suo rapporto deficit/PIL. Nello stesso periodo ha ristrutturato le proprie infrastrutture interne. Non è un caso che il movimento verde sia nato là, e che abbia determinato una serie di politiche per l’ambiente (“rottamazione” delle case, energia solare, sistemi di trasporto pubblico, piste ciclabili, sistemi ferroviari, ristrutturazione aeroporti, eccetera). Ancora, sono da ricordare, sempre a cavallo del millennio e nel momento in cui si apriva la competizione globale: la ristruttura delle Università e della ricerca (Max Plank Institutes) con la creazione di centri spinoff tra ricerca e industria (di nuovo i Max Plank), e l’aumento dei fondi per la ricerca (3% del PIL; in Italia 1% a malapena). Infine il mercato del lavoro, sempre molto più avanti rispetto alle idee dei nostri Sindacati e della nostra Confindustria.
Francamente, pur non apprezzando un certo grado di spocchiosa superiorità, devo dire che non ci rimane che ammirare e cercare di copiare. Siamo stati a guardare, incrociandoci le dita e pensando che l’immenso vantaggio dell’euro dai tassi bassissimi fosse sufficiente per tenerci in buonissimo stato. E abbiamo sbagliato, peccando di supponenza.
bob
Amegighi
negli stessi anni da lei citati riguardo la germania, in Italia si proponeva il dialetto nelle scuole, si aprivano 3 aereoporti per 21 Regioni, il sindacato andava a braccetto con la FIAT e ricattava la media e piccola azienda. Io ho l’impressione che i tedeschi hanno memoria storica e gli errori , duramente pagati del passato fanno loro terrore. L’ Italia è e rimane il Paese del ” Franza o Spagna purchè se magna”
marcello
Se raccontassimo la storia del debito greco diversamente? Si potrebbe raccontare che due paesi importanti (per esempio Francia e Germania), o meglio le banche di due paesi importanti, risultavano creditori di circa 200 miliardi di titoli di debito di un paese debole per esempio la Grecia. Queste banche avevano una leva inpsostenibile (40 o persino 50). La ristrutturazione del debito greco era la soluzione cooperativa che avrebbe garantito un rientro mobido dall’esposizione e invece, poichè il sistema finanziario di questi due paesi (la strana coppia Merkel Sarkosy, chi non ricorda i loro sorrisetti?) non sarebbe stato in grado di superare indenne la crisi, si pensò bene di imporre alla Grecia prestiti e condizioni impossibili. Dopo la prima trance di prestito le banche tedesche erano rientrate del 90%, quelle frencesi del 40%, dopo la seconda trance a cui si opposero in sede FMI Cina, Brasile, India, Canada ecc., ma il loro peso è ridicolo, tutte e due i sistemi erano al sicuro e il costo di un eventuale default spalmato sugli organismi internazionali e sui paesi UE. Ora l’insostenibilità e irrazionalità di quel piano, a proposito lo afferma anche la prof. Ardagna!, si parla di ristrutturare il debito greco. Quale che sia la soluzione per la Grecia saranno tempi durissimi: la ristrutturazione del debito o l’uscita dall’euro la espongonoe a ricorsi ai tribunali, che potrebbero rivelarsi un disastro si veda il caso Argentina. Non c’è che dire proprio un bel risultato!
Maurizio Cocucci
La situazione greca, anche se comprensibile politicamente, mi ricorda una vecchia barzelletta in cui due detenuti evadono da una prigione circondata da 100 mura e quando superano il penultimo uno chiede all’altro se si sente stanco, alla risposta affermativa il primo replica: “Beh, allora torniamo indietro!”. La Grecia sta attraversando un periodo non facile ma è in una fase iniziale di uscita e con queste prese di posizione, che hanno una valenza del tutto politica, non fanno altro che tornare indietro tant’è che oggi il rendimento del titolo decennale ha superato il 10%. Grazie ai prestiti pervenuti, che sono menzionati nell’articolo, la Grecia paga un tasso di interesse medio inferiore a quello che paga la Germania (2,4 contro il 2,7%) che pesa, come scritto nell’articolo, per circa il 5% del PIL in quanto il debito è attestato al 174% del PIL. Sta a loro scegliere se andare avanti o vanificare gli enormi sacrifici fatti sinora.