Con l’unione bancaria, Banca d’Italia è chiamata a condividere con la Bce la responsabilità della vigilanza sugli istituti di credito. Per evitare che le nostre banche e imprese siano penalizzate, occorre rafforzare la ricerca sugli strumenti di vigilanza e sulla loro applicazione.
Con il trasferimento della vigilanza bancaria alla Bce, sorge spontaneo domandarsi quali cambiamenti organizzativi debbano essere attuati dalla Banca d’Italia. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, tale trasferimento non implica un drastico alleggerimento della struttura. La nostra banca centrale resterà infatti coinvolta, insieme alla Bce, nella supervisione delle banche italiane di maggiore dimensione e continuerà a occuparsi direttamente delle altre banche italiane meno grandi. Da questo punto di vista, lo sforzo di “dimagrimento” che la Banca d’Italia sta attuando da anni sembra adeguato all’evolversi delle sue funzioni: la riforma introdotta nel 2008 ha portato alla chiusura di 39 filiali, e il piano di riassetto approvato il 30 marzo di quest’anno prevede ulteriori 19 chiusure entro il 2018.
Come difendersi nelle sedi internazionali
L’unione bancaria pone anzi alla nostra banca centrale nuove sfide, che richiedono una maggiore focalizzazione su temi legati alla vigilanza prudenziale. Gli strumenti di vigilanza sono divenuti sempre più complessi, a partire dai requisiti patrimoniali di Basilea III, ai coefficienti di liquidità e di leva, alla vigilanza macro-prudenziale che si aggiunge a quella micro-prudenziale, e via dicendo. Queste regole vengono definite in ambito internazionale, e d’ora in poi anche i criteri di applicazione nell’area euro sono stabiliti da una istituzione sovranazionale: la Bce. Tali regole non sono neutrali: possono favorire alcuni tipi di intermediari rispetto ad altri; possono avere effetti collaterali indesiderati – ad esempio sull’offerta di credito – che interessano di più un paese rispetto ad un altro. Un esempio in questo senso è costituito dall’esercizio di valutazione delle 130 banche significative (“comprehensive assessment”), che è stato il primo atto della nuova vigilanza europea. Questo esercizio è stato molto discusso: la Bce è stata accusata di avere applicato metodi che hanno posto le banche di alcuni paesi, a cominciare da quelle italiane, in una situazione di svantaggio rispetto alle altre. La stessa Banca d’Italia ha fatto trasparire qualche dissenso rispetto ad alcune scelte di metodo nel condurre i famosi stress test. Ma allora diventa cruciale che le nostre autorità siano in grado di fare sentire la loro voce nelle sedi internazionali (Bce, Eba, Comitato di Basilea, Commissione europea), affinché non si compiano scelte che comportino svantaggi competitivi per le nostre banche e, a valle, per le nostre imprese.
Più ricerca sulla vigilanza
Per svolgere bene questo compito, è necessario partire da una base di analisi adeguata. Bisogna dedicare sufficienti risorse allo studio degli strumenti di supervisione prudenziale: del loro disegno ottimale, del loro impatto sugli intermediari e sulle imprese, anche distinguendo tra diversi paesi e modelli di business. Sotto questo profilo, sorge qualche dubbio sull’attività svolta dalla Banca d’Italia, che pure è nota per la qualità della sua ricerca economica, che non si vuole mettere qui in discussione. Facendo scorrere la lista dei Working Papers della Banca d’Italia (Temi di Discussione), si nota che l’ultimo dedicato a questi temi risale al gennaio 2013 (Tema n. 894). Negli altri 113 numeri successivi non mancano analisi del mercato del credito e dei rischi ad esso relativi, ma nessuno è dedicato alla analisi e discussione degli strumenti di vigilanza. Le cose vanno un po’ meglio, ma non troppo, se si guarda all’altra collana di studi: gli Occasional papers (Quaderni di economia e finanza). Sempre a partire dal gennaio 2013, su 123 numeri solo 9 sono dedicati alla riflessione sugli strumenti di vigilanza (i numeri 151, 157, 158, 159, 195, 200, 204, 227, 259, peraltro concentrati nel 2013).
Naturalmente la rapida analisi appena esposta può avere trascurato qualcosa. Tuttavia, scorrendo la lista dei Working Papers e degli Occasional Papers, si ha l’impressione che manchi una focalizzazione sul tema della vigilanza, che pure rappresenta il core business della banca centrale, insieme alla politica monetaria. Tanto più che non vengono lesinate risorse per studiare i temi più svariati, quale quello affrontato del Tema n. 958, la cui analisi consente di concludere che “i bambini che osservano leggere uno dei loro genitori intraprendono anch’essi un’attività di lettura con una probabilità significativamente più elevata”. Il risultato è interessante, ma forse una banca centrale dovrebbe prima preoccuparsi di rispondere alla domanda: è vero che i requisiti di Basilea III, e la loro applicazione nel comprehensive assessment, premiano le banche tedesche e francesi piene di derivati e sfavoriscono quelle italiane che fanno prestiti alle imprese? Al di la della provocazione, una riflessione sulle priorità della sua ricerca da parte della Banca d’Italia (in piena autonomia) è auspicabile, visto che la Banca stessa non manca di esaminare la ricerca pubblica fatta dagli altri (Occasional Paper n.219), concludendo che “il sistema sconta la mancanza di una chiara strategia che stabilisca gli obiettivi da raggiungere”.
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titef
Gentile professore,
la guardi da un altro punto di vista: ma vuol mettere se, anzichè scoprire che i figli che vedono i genitori leggere hanno più probabilità di appassionarsi alla lettura, fosse venuta fuori l’evidenza contraria?
No, dico, un’intero sistema pedagogico sovvertito.
La portata della scoperta sarebbe stata rivoluzionaria e ben valeva il rischio di dire una banalità.
Altro che Basilea 3, 4 e 5 …
Aldo
i problemi delle nostre banche verranno risolti prosciugando i conti dei privati con la recente legge approvata da ambo gli schieramenti principali.
Dal 1 gennaio 2016 tutti i correntisti italiani saranno chiamati, per contratto, a contribuire con i loro soldi al risanamento del debito della banca in cui sono clienti