Lavoce.info

Impatto sociale: per misurarlo serve l’aiuto delle fondazioni

La misurazione dell’impatto sociale è un tema sempre più attuale. Ma non è un’impresa facile, come dimostrano alcune esperienze internazionali. In Italia, a indicare un percorso di studio e condivisione potrebbero essere le fondazioni erogative, grazie alle loro particolari caratteristiche.
Impatto sociale: tutti ne parlano
Due anni fa, in Gran Bretagna, si era provato a inserire la misurazione del valore sociale nella definizione dei contratti tra pubblico e privato, attraverso il cosiddetto Social Value Act. Ora, la sperimentazione su cui il provvedimento si basava non verrà rinnovata per ragioni che risiedono nella mancata risoluzione di questioni di fondo.
Anche nel nostro paese il tema della creazione di valore sociale è tutt’altro che nuovo, ma riceve ora particolare attenzione in virtù della riforma del terzo settore, che ha promosso la discussione sull’“impatto sociale misurabile” (senza definirlo) come criterio per la definizione di impresa sociale. Il vasto mondo del non profit è coinvolto in prima linea nel dibattito, per via dei progetti che finanzia o gestisce e anche perché “impatto sociale” sembra essere diventata una sorta di parola magica nel mondo della finanza sociale.
Quante sono le fondazioni italiane
Poco si parla, invece, del ruolo che la filantropia istituzionale può ricoprire in questo ambito. Il panorama filantropico italiano è dei più vari e frammentati: dai più recenti dati Istat si ricava che nel 2011 esistevano 6.220 fondazioni attive, delle quali però si sa poco o nulla. Molte sono “enti di erogazione” di cui non si conoscono attività, governance e destinazione dei finanziamenti. Sotto il cappello di “fondazioni” si raccolgono numerose organizzazioni che variano per dimensioni, natura (bancarie, di comunità, di impresa, familiari, individuali) e funzioni (erogative e operative).
Le fondazioni erogative hanno vantaggi comparativi specifici rispetto ad altre organizzazioni, sia pubbliche che private. Da un lato, libere da vincoli politico-elettorali, possono operare con una visione a lungo termine; dall’altro, libere da logiche di profitto, possono permettersi di utilizzare – e rischiare – il proprio capitale in ottica sperimentale, evocativa, anticipatoria. Ciò che in particolare distingue le fondazioni erogative è proprio la presenza di capitale accumulato, che tuttavia le porta a dover difendere sempre di più gli spazi di legittimità e autonomia legati alla propria attività, finanche la propria ragione di esistere, sotto la crescente pressione di accountability sull’impatto sociale dei progetti finanziati e sulle modalità con cui vengono selezionati e comunicati alla comunità.
La misurazione dell’impatto
Alcune tra le maggiori fondazioni nordamericane investono già da tempo nella misurazione dell’impatto dei progetti finanziati, come la fondazione Bill & Melinda Gates, che ne fa un elemento fondante della propria theory of change, o la Fondazione Rockefeller, che la include nel processo di identificazione dei propri tipping points. Il modello britannico del Wellcome Trust, la più grande fondazione europea e la seconda fondazione erogativa al mondo, si basa in larga misura sugli stessi beneficiari degli investimenti, considerati i primi interlocutori nella conoscenza e nella misurazione di ciò che si intende per impatto.
Per il nostro paese, una recente ricerca del Cergas Bocconi mostra come solo dodici delle novantasette fondazioni italiane  – tra fondazioni d’impresa, familiari e di comunità – citino almeno una delle parole “bisogni”, “valutazione” o “impatto” nei loro documenti programmatici o nei regolamenti per l’erogazione dei finanziamenti. Sette affermano invece di avere una metodologia per la valutazione di impatto dei progetti finanziati, una propone un sofisticato modello di misurazione, mentre altre rimandano a principi come “sostenibilità” o “sussidiarietà” senza definirli ulteriormente. Dal campione della ricerca, tuttavia, sono escluse le fondazioni bancarie, che invece hanno avviato alcuni tentativi in tema di misurazione di impatto .
Misurare l’impatto sociale dei progetti finanziati è un esercizio oneroso, possibile solo con una visione a lungo termine, che ancora necessita di sperimentazione. Qui non si vuole sostenere che tutte le fondazioni erogative, senza distinzioni di sorta, debbano investire in questo percorso, i loro vantaggi comparativi fanno però sperare in un loro ruolo più attivo, che possa andare ben oltre quello di “banche filantropiche”. Poiché sono in grado di promuovere approcci sperimentali, basati su una visione forte della partecipazione e della condivisione con i territori del concetto stesso di impatto e delle metodologie di misurazione, perché non pensare alle fondazioni come principale partner del settore pubblico nella promozione di questo “lungo viaggio”?

Leggi anche:  Povertà assoluta: aggiornato il metodo di calcolo*

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Vale la pena rimpiangere il Reddito di cittadinanza?

Precedente

Vocecomics 26 maggio

Successivo

Le elezioni regionali dimenticano i tagli alla sanità

  1. davide445

    Gli americani sono come sempre fantastici nella loro concretezza e capacità di comunicazione, il che secondo me non significa necessariamente il loro approccio sia quello più corretto.
    Avevo letto un articolo di HBR in cui Kaplan & Co invitavano le fondazioni ed in generale gli enti no profit a migliorare l’accountability delle loro iniziative, pur evidenziando come rispetto agli altri paesi gli USA siano notevolmente più avanti. Il concetto di fondo è che applicando al no profit la metodologia che tanto successo da al for profit (sopratutto secondo il modello USA) è garanzia di successo.
    La cosa che mi risulta stonata è confrontare il numero di posti di lavoro creati negli USA negli ultimi 10 anni dal no profit e for profit e scoprire che i primi superano i secondi. Sinceramente faccio fatica a giudicare di successo un modello che non solo sta impoverendo il ceto medio, ma addiruttira non riesce nemmeno a garantirgli un lavoro.
    Ribaltando allora il ragionamento forse bisognerebbe iniziare a considerare il for profit ed in generale lo scopo del mercato non solo alla luce dei numeri che genera (pur con la necessità di una accountability soprattutto per evitare utilizzi elusivi e di riciclaggio) ma soprattutto per gli aspetti sociali che NON sono quantiativi, come il benessere delle persone, la cultura, la coesione sociale. Provengo da una laurea scientifica, un master in gestione aziendale ed una specializzazione in finanza, non mi faccio più incantare dai numeri e modelli.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén