I problemi dell’università italiana si risolvono solo delineando senza ipocrisie un mercato della formazione. Dove le tasse universitarie rappresentano la quota più significativa del bilancio degli atenei, ridimensionando il ruolo dei fondi pubblici. Per i meritevoli, sostanziose borse di studio.
La differenza tra teoria e realtà
Si parla spesso, anche su questo sito, della crisi dell’università italiana. Non mancano certo alcune eccellenze, ma la situazione generale non è entusiasmante. La riforma Gelmini ha luci e ombre, però occorre riflettere sulla combinazione tra abilitazione scientifica nazionale e selezione dei candidati idonei nei singoli atenei, come ci ha invitati a fare Francesco Pastore.
Nelle sue aspirazioni ideali, il sistema italiano ha una sua logica. Si basa sull’idea di una “garanzia di qualità minima” attestata dallo Stato tramite valutatori in linea di principio indipendenti e qualificati, rappresentata dalla abilitazione nazionale e basata, almeno in parte e in alcuni settori più che in altri, su misure “bibliometriche” di produttività e qualità accademica. Dovrebbe poi seguire una (ulteriore) selezione nei singoli atenei dei docenti più adatti tra gli abilitati.
Tutto bello, ma questa, appunto, è la teoria. La realtà è un’altra, e i meccanismi virtuosi sui quali il modello dovrebbe alimentarsi si inceppano troppo spesso e per ragioni “umane, ahi troppo umane”.
Come promuovere una sana competizione
Certamente il sistema dell’abilitazione nazionale non è perfetto e alcune commissioni hanno lavorato meglio di altre, ma l’idea di un filtro di massima è condivisibile.
Vorrei però soffermarmi qui sul secondo passaggio, ossia le scelte di atenei e dipartimenti dal gruppo degli abilitati. Giustamente Francesco Pastore ha lamentato come non sempre seguano criteri meritocratici e trasparenti. Tuttavia, se a livello dell’abilitazione indici bibliometrici e misure di produttività e visibilità accademica, se ben comprese e applicate, possono rivelarsi utili, in questo secondo passaggio difficilmente si può trovare rimedio al problema attraverso criteri aprioristici rigidi o coinvolgendo nelle decisioni soggetti estranei ai componenti dei dipartimenti interessati. Troppo diverse sono le legittime esigenze delle singole università così come è incerta la definizione di criteri di valutazione della ricerca che non si limitino a una prima “scrematura”.
Il problema vero è quello degli incentivi e solo una sana ma effettiva competizione tra atenei può contribuire a risolverlo. Il “sogno” dell’università finanziata quasi interamente dallo Stato e a costi bassissimi per gli studenti era molto bello, ma temo sia finito, o quantomeno non sia compatibile con il proliferare degli atenei degli ultimi anni e il condivisibile desiderio di un’educazione superiore di massa.
Parlare di “mercato della formazione” è forse poco elegante, ma non farlo è ipocrita. Le università offrono essenzialmente servizi formativi ai propri studenti (e di ricerca al mondo delle imprese e delle istituzioni). Chi meglio degli studenti può valutarli, premiare i migliori e sanzionare i peggiori? Nessuno ignora i problemi di un’università troppo asservita ai desideri degli studenti, il pericolo di esamifici incapaci di chiedere i sacrifici che l’acquisizione di conoscenze e competenze comporta. Ma come ha ben spiegato Roberto Perotti nel suo libro L’università truccata, un’istruzione universitaria a costo quasi nullo è un modo perché i poveri sovvenzionino i ricchi. A parità di condizioni, ricevendo la stessa formazione allo stesso prezzo, i rampolli di famiglie influenti e ben connesse possono più facilmente mettere a frutto la propria laurea.
Si deve pensare senza ipocrisie a un sistema in cui le tasse universitarie rappresentino una percentuale più significativa del budget degli atenei rispetto ai fondi pubblici, corretto da un efficace sistema di vere borse di studio, anche imposto per legge, che garantisca i meno abbienti meritevoli.
Facciamo un esempio numerico. Se cento studenti pagano ciascuno 1 euro di tasse, vi sono 100 euro da dividere tra dieci università, integrati dallo Stato con 500 euro, per un totale di 600 euro. Meglio sarebbe invece che lo Stato contribuisse con soli 100 euro e ottanta dei cento studenti pagassero, in parte in proporzione alle capacità contributive, una media di 8 euro a testa. A disposizione delle università ci sarebbero allora 740 euro, 140 dei quali potrebbero essere utilizzati per assegnare congrue borse di studio a venti studenti davvero bravi ma non abbienti.
Con questo sistema, gli studenti selezionerebbero dove iscriversi e probabilmente si svilupperebbero spontaneamente ranking delle università al servizio dei veri interessati, ossia studenti e datori di lavoro. Limitandosi a regolare il “mercato”, lo Stato potrebbe assicurare che siano gli stessi atenei a fare una selezione virtuosa dei docenti, cercare di offrire servizi migliori e dunque attrarre più risorse.
Questo approccio ha dei costi. Alcuni atenei potrebbero risultare economicamente non sostenibili e alcuni docenti potrebbero non trovare una cattedra. Ma l’idea che ogni provincia debba avere una sua università (con la finzione che siano in qualche misura tutte equivalenti) e ogni abilitato un ufficio è ancor più irrazionale e costosa, tanto per cominciare per i troppi laureati che finiscono in un call center con in mano un pezzo di carta poco spendibile. Se ciò significa abolire il “valore legale” del titolo, pazienza: è già così per quelle università straniere alle quali tutti i nostri migliori giovani aspirano, da Yale a Oxford, da Harvard a Cambridge.
Certo lo Stato dovrebbe intervenire per correggere possibili fallimenti del mercato, ad esempio sovvenzionando maggiormente aree di ricerca e formazione meno “popolari”, ma importantissime per lo sviluppo culturale e scientifico del paese.
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Nicolò
Bravo !
Luciano Munari
Idee molto valide e di buon senso, peccato che l’istruzione sia un prodotto a qualità di fede e che non sia valutabile ex ante (e nemmeno ex post per molti anni) dal consumatore, almeno con riferimento al risultato utile per lui e per la società. In un contesto del genere la disciplina del mercato non può funzionare correttamente e quindi la concorrenza non è la soluzione del problema.
Marco Ventoruzzo
Ringrazio del commento. Certo, per valutare la qualità della formazione occorre tempo, e meccanismi di valutazione basati su un “mercato regolato”, o comunque più competitivi, necessitano di tempo per svilupparsi. Ma la cosa non è impossibile e, con adeguati correttivi, forse ci si può fidare maggiormente che questa valutazione la diano i diretti interessati, piuttosto che meccanismi un poco dirigisti dall’alto, con pretese di valutazione basate su parametri opinabili e rigidi, e valutatori la cui “skin in the game” e interessi non sono sempre chiari.
giliberto capano
Non condivido nulla di questa proposta.
Assume una visione di università ottocentesca mentre oggi l’istruzione superiore non deve formare solo le élites ovvero fare ricerca di eccellenza: siamo nella società di massa! Non è un caso che nei sistemi avanzati vi sia un numero elevatissimo di istituzioni di istruzione superiore (una università in ogni provincia come direbbe l’autore dell’articolo ed anche di più!)
Non esiste alcun paese in cui funzioni un mercato puro della conoscenza. L’esempio americano spesso portato ad esempio è assolutamente incompreso (studiare un po’ di più per favore).
Una proposta lunare, empiricamente infondata e anche un pò irresponsabile.
Marco Ventoruzzo
Ringrazio del commento. L’oviettivo non è affatto che si formino solo le élite, al contrario: l’idea è proprio quella di far pagare una somma ragionevole a chi ha maggiori risorse per un servizio uguale a quello offerto anche – a costi anche inferiori a quanto accade oggi e con più incentivi – a chi merita ma fatica. Un prezzo sostanzialmente uguale per tutti rappresenta una discriminazione a favore dei ricchi. La realtà è che il sistema attuale rischia (anzi, è già) il collasso, e rischia, almeno in alcuni casi, di offrire una formazione solo formalmente utile. Aggiungo solo che molti (non tutti) sistemi all’estero, che francamente conosco per averci sia studiato che insegnato a lungo, sono proprio così. Non sono la panacea di tutti i mali, anzi, e naturalmente il mio è solo un abbozzo di proposta che andrebbe attentamente studiato e contemperato con sacrosante esigenze solidaristiche, ma far finta che vada tutto bene così è sbagliato.
giliberto capano
Caro collega,
assumere che poiché si è studiato all’estero oppure si ha svolto alcuni periodi di visiting all’estero si abbia una visione approfondita del funzionamento di quei sistemi vale l’assunto che, se sono andato per 4 volte a Singapore conosco perfettamente il funzionamento di quel sistema politico.
La tassazione differenziata esiste anche nel nostro sistema. Nei paesi in cui sei andato esiste una strutturazione sistemica degli assetti di istruzione superiore. Negli Usa, ad esempio, ogni stato ha tre filiere pubbliche di istruzione superiore, ad esempio, mica solo le grandi private oppure i college privati e via dicendo. Ti suggerirei di prendere qualche testo di Higher eductaion comparata. Senza contare che sull’utilità dell’istruzione superiore esistono biblioteche. Parafrasando quanto scrisse Sabino Cassese venti anni fa: nessun professore universitario scriverebbe un rigo sul proprio argomento di ricerca senza essersi documentato con attenzione, mentre ogni professore universitario pensa di poter dire la sua sull’università solo sulla base della sua esperienza personale. Un male diffuso.
giliberto capano
Trovo questo articolo lunare, empiricamente infondato e un po’ irresponsabile
Lunare perché assume una visione del ruolo dell’università quasi ottocentesca, mentre viviamo nella società di massa, dove l’università non deve formare solo le élites ma contribuire ad aumentare strutturalmente la qualità del capitale umano (ed è per questo che in tutti i paesi a noi comparabili hanno un elevato numero di università e di istituzioni di istruzione superiore….a volte più di una nella stessa provincia….).
Empiricamente infondato perché non vi è alcun sistema nazionale che funziona come proposto dall’autore. Nemmeno quello statunitense (studiare di più…..)
Irresponsabile perché partecipa al gioco della semplificazione cioè a quel gioco, che piace a molti colleghi e a troppi politici, che esistano soluzioni semplici a problemi complessi.
serlio
tutto bello e tutto corretto, ma allora cosa serve pagare le tasse in proporzione al proprio reddito? più guadagno e più pago e allora perchè ripetere il medesimo meccanismo anche per la erogazione di un servizio? così si estorce altro denaro a chi produce ricchezza, in nome certamente di un buon principio (ma avete mai trovato qualcuno interessato al vs denaro che lo dichiari apertamente?). Per cui la soluzione potrebbe essere abbassare le tasse per tutti e ripartire il minore carico fiscale sui servizi erogati, ma tasse alte (a livello di estorsione malavitosa) e tassazione indiretta furibonda non stanno assieme. un articolo così dichiara la impronta ideologica del suo estensore, non proprio liberista.
Marco Ventoruzzo
Ringrazio del commento. Come ho scritto, la proposta include anche una riduzione della spesa pubblica a favore delle università, o quanto meno una riduzione di finanziamenti a pioggia concentrandone meno su corsi e dipartimenti meno attraenti per il mercato, ma importanti per lo sviluppo. Questo potrebbe comportare una riduzione del fabbisogno statale e riflettersi, sebbene marginalmente, sulle imposte di tutti. Il principio, in realtà, è quello di far pagare di più ai ricchi per i servizi che ottengono, e con queste risorse far studiare i bisognosi meritevoli non però con decisioni stataliste, ma in una sana competizione.
Gabriele
“Meglio sarebbe invece che lo Stato contribuisse con soli 100 euro e ottanta dei cento studenti pagassero, in parte in proporzione alle capacità contributive, una media di 8 euro a testa. A disposizione delle università ci sarebbero allora 740 euro, 140 dei quali potrebbero essere utilizzati per assegnare congrue borse di studio a venti studenti davvero bravi ma non abbienti.”
Certo ma questo ragionamento non si scontra sempre con le statistiche che vedono l’Italia sempre ai primi posti (almeno tra i paesi sviluppati) per evasione fiscale? Non si rischierebbe di regalare borse di studio ai figli degli evasori e far pagare più tasse a coloro che evadere non possono ma che secondo i criteri reddituali son sempre troppo ricchi per accedere alle borse.
Altra cosa che trovo un po’ folle del nostro sistema è il sistema dell’abilitazione per quale più o meno tutti i giovani ricercatori risultano ben oltre alle mediane ma subiscono i maggiori tagli in quanto le università non hanno i mezzi per chiamarli in servizio mentre in servizio rimangono coloro che sono al di sotto di quelle mediane. L’unica vera riforma è forse invertire la precarietà, ovvero rendere precario chi sta al vertice del sistema e quindi responsabilizzarlo, e non la base. Eliminerei anche i concorsi per ricercatori e permetterei ai professori di scegliere il proprio staff in base alle loro necessità ma poi siano disposti a pagarne le conseguenze in prima persona.
marcello
In quale paese del globo terraqueo esistono sistemi universitari finanziati residualmente dal settore pubblico? Il sistema dei prestiti d’onore negli USA ha generato mostri ed è considerato uno dei settori più problematii del mercato finanziario. L’Italia spende poco, prima che male, per il sistema universitario forse le sfugge che fatta 100 al 2009 la spesa pubblica italiana, quella della Francia è 171, come la Spagna, la Germania 201 e a Svezia 230. Come può verificare consultando “Education at glance 2015” l’Italia è penultima tra i Paesi OCSE per spesa per istruzione universitaria rispetto al PIL (0,9%) a fronte del 2,8% degli USA, 1,8% del RU, 1,4 Francia e 1,3% della Germania. La popolazione laureata tra 24 e 35 anni in Italia è del 24% (la più bassa dei paesi Ocse) a fronte di una media del 41%. Aumentare di otto volte le tasse universitarie, come suggerisce l’esempio, in un paese in cui il 47% dei manager ha la licenza media e il 28% il diploma di scuola secondaria, non credo che risolverebbe il problema, vista la struttura economico sociale del paese.
Marco Ventoruzzo
Ringrazio del commento. Ha ragione: lo Stato italiano spende poco per la ricerca, ma il problema a mio avviso maggiore è che, in alcuni casi, spende male. Qui mi interessa soprattutto concentrarmi su “come” spende, non “quanto” spende. Riterrei preferibile che concentrasse le ricerche su pochi centri di eccellenza, tenendo anche conto di quei settori importanti per cultura e progresso che strutturalmente sono meno in grado di finanziarsi attraendo risorse, lasciando alle tasse universitarie pagate dai più abbienti una fetta maggiore e autoselezionata. Un solo esempio: prendiamo da un lato il figlio di una famiglia con un reddito annuale di 200.000 euro e assets per 600.000, con genitori importanti e ben connessi manager di una multinazionale e primari in un grande ospedale, zii professionisti e politici, in una grande città; e dall’altro la figlia di una famiglia di operai di un piccolo paese della Basilicata, la prima nella sua famiglia ad andare all’università. Le pare corretto che il primo, poniamo, paghi come tasse universitarie 2.000 euro all’anno, senza spese di trasferta, e la seconda, diciamo, 1.000, per la stessa identica formazione? Ipotizziamo che il primo si laurei con 106, la seconda con 108. Quale dei due sarebbe meglio in grado di sfruttare il titolo di studio? Per quale dei due è più verosimile un primo impiego prestigioso e interessante? Io forse troverei più giusto che, per questo importante investimento, il primo paghi 17.000 euro e la seconda nulla.
marcello
In Italia esiste un sistema di tassazione progressivo, sicuramente da riformare, ma che nel metodo e nel merito si pone finalità redistributive. Evasione elusione ecc. vanificano questo disegno. E allora cosa proponete? Azzeriamo lo stato socilae. Poco importa se il modello che propone è quello di una società spietata come quella americana, che ha dovuto attendere un presidente come Obama, al secondo mandato, per avere una parvenza di assistenza sanitaria generalizzata, poco importa se stiamo parlando del paese con una delle più alte concentrazioni del reddito, se una pletora di premi nobel si schierano per un aumento del salario minimo ecc. Moti anni fa si spinse per l’autonomia impositiva degli enti locali, sulla base di quanto sperimentato oltre oceano: vedo-pago-voto, ricorda? Come è finita? A parità di beni e servizi forniti, la riforma del Titolo V, è costata agli Italiani oltre 600 mld di euro in più che se gli stessi beni e servizi fossero stati forniti dalle amministrazioni centrali (30% del debito pubblico del paese!). L’Italia spende poco e soprattutto ha una struttura economico industriale arretrata, dove le imprese sono troppo piccole e sottosviluppate da tutti i punti di vista: da quello finanziario alla governance. La selezione dei manager e dei quadri, come i fatti recenti dimostrano, è uno dei problemi del paese, non l’università che riesce a funzionare anche grazie all’abnegazione di quei docenti e che per euro speso sono tra i più produttivi del globo!
stefano delbene
Rispondo a Ventoruzzo: certo facciamo spendere 17.000 euri al ricco, però nel contempo, con la riduzione della spesa statale nell’istruzione, faremo scndere la tassazione: oggi la famiglia del Giovin Signore paga, con le cifre che ha detto lei circa il 40% del reddito vale a dire 80000 €, ma se riduzìciamo le tasse, per cui paghi, facciamo un esempio, il 35%, risparmierà 10000 €. Quindi l’aumento di 15000 € di tasse sarà in realtà di 5000, ossia del 2,5 % del proprio reddito. La Povera Studentessa Lucana, invece, si troverà magari ad avere un aumento delle tasse a 2000 € (l’Università si finanzia con le tasse, quindi bisogna aumentarle un po’ a tutti), con prevedibili modeste diminuzioni della tassazione, e con un reddito di circa 20000 € ha quindi un aumento delle tasse pari al 5 % del reddito. Dove veda l’equità in tutto ciò devo ancora capirlo.
Claudio Bellavita
la mia esperienza di un’associazione di studenti brillanti di UniTO è che molti di loro si sistemano in università straniere dove vanno a fare il dottorato di ricerca: in quelle università gli italiani preparati sono i benvenuti, perchè gli studenti locali, dovendo restituire il costo degli studi, trovano insufficenti le retribuzioni universitarie. Se li vogliamo indietro, basta dare adeguato punteggio all’esperienza internazionale.
Marco Antoniotti
Detto fuori dai denti, uno dei problemi principali dell’Università italiana sono “certi” ricercatori della Bocconi.
Ora, so benissimo che il collega Ventoruzzo saprà rispondere con garbo e con le appropriate parafrasi a questa mi a asserzione.
Ma, sinceramente, io – e ritengo di non essere il solo – ne ho veramente abbastanza di “soluzioni” siffatte, che hanno ampiamente generato mostri nei “paesi di riferimento” (student debt and “intern economy” in the good ole USA, anyone?)
BTW. Non c’è niente che non si possa risolvere del finanziamento pubblico al sistema universitario con adeguate aliquote eisenhoweriane. In questo modo “i ricchi” contribuirebbero ampiamente al bene comune. Ma, si sa, alzare le tasse a Donald Trump è l’unico argomento sempre al di fuori della discussione. Invece, sparlare di “capitale umano” e “investimento nel futuro” è moneta corrente in “certi” ambiti.
A presto
Marco Antoniotti
PS Da “diretto interessato”, la mia “valutazione” di una buona parte di “produzione” bocconiana a questo punto l’ho già data. Inclusi i grafici per quartili e la candida ammissione (credo a pg. 174) ne “L
Università Truccata” di Perotti, che proposte siffatte “danneggerebbero la classe media”. Ma per favore!
PPS. Naturalmente il fatto che il PRIN corrente sia di 91 milioni (dopo 3 anni di siccità) quando a 75km da Via Sarfatti ogni anno spendono almeno 500 milioni all’anno in ricerca non conta un bel niente nel “mercato della formazione”. Ma ri-pre favore!
Sergio
Quella di far pagare in modo differenziato l’università a ricchi e poveri è un’ottima idea. Lo stesso vale per sanitá e ospedali, sicurezza, trasporti pubblici (oggi Lapo Elkann paga il bus come il disoccupato ecc. ecc.).
Un ottima idea. Ma esiste giá e si chiama tassazione progressiva.
Chi piú ha (redditi assets ecc.) piú contribuisce a pagare i servizi pubblici a sua disposizione.
Inoltre la tassazione risolve un secondo problema e cioé differenziare il prelievo in base al ritorno economico ottenuto dall istruzione superiore. Il chirurgo estetico delle dive, l avvocato di successo ecc. che guadagnano 500,000 € / anno contribuiranno di più alle spese universitarie delle prossime generazioni di quanto non faranno il medico di Emergency o l avvocato di una onlus che difende gratis gli immigrati.
Risolto il problema di dove trovare i fondi per l università in modo equo (aumentare le tasse ai ricchi), basta aumentare il finanziamento ai livelli tedeschi (in % al PIL se non per studente), e se si pensa che le Università spendano male assumendo una nuova tornata di professori e amministratori di provato successo dall’estero.
Altri paesi come Singapore lo hanno giá fatto 20 anni fa e oltre. Ma hanno speso e spendono tuttora molti soldi pubblici, circa 2-3 volte l Italia in rapporto a PIL e popolazione (6 milioni rispetto a 60).
Ah un’ultima cosa: se migliaia di laureati che non trovano lavoro in Italia lo trovano facilmente all’estero, forse il problema sono le aziende?
Amegighi
Sono daccordo con l’abolizione del valore legale del titolo di laurea. Metterebbe in competizione le varie Università. Non sono per niente daccordo con i criteri bibliometrici per la valutazione del “docente”: 1. questi sono (stati) progressivamente abbandonati anche dalle Agenzie di Funding statali della sola Ricerca (DFG http://www.dfg.de/en/service/press/press_releases/2010/pressemitteilung_nr_07/index.html, NSF) 2. non valutano per niente la capacità didattica del candidato.
Il punto 2 è particolarmente importante, se vogliamo avere un’Università eccellente nella formazione.
Inoltre, se si vuole mettere in competizione le Università, allora diventa ancora più importante la scelta finale, al di fuori di ogni logica concorsuale. L’Università che sceglie bene, avrà tanti studenti, quella che sceglie male, pochi. Come in un’azienda, e come succede fuori dall’Italia. Ma, purtroppo, in Italia, le opzioni più semplici vengono sempre evitate.
Un’ultima questione è questa idea del costo universitario. Concordo che esso c’è ed esiste. Concordo che, per quanto malissimo, spendiamo comunque dei soldi per preparare uno studente. Ma anche ora, lo studente non spende poi proprio niente, e quindi in parte compartecipa alla spesa per la preparazione.
Ma, allora, come mai in Germania, il costo delle Università pubbliche è nullo o max di 1000 euro l’anno (Bayern) ?
Giuseppe Mingione
Possono le università essere valutate da un (fanta)mercato della conoscenza stabilito soltanto da studenti e datori di lavori? La risposta è no, e la cosa fa un po’ sorridere a vederla scritta così candidamente. Le università non sono solo scuole di formazione aziendali, ma sono luoghi di istruzione superiore e di produzione di ricerca. Queste cose, sorry, studenti e datori di lavoro le sanno valutare poco (e i secondi, in Italia, quasi nulla, non a caso abbiamo un’imprenditoria tecnologicamente assai poco avanzata). Istruzione e ricerca hanno tempi davvero troppo lunghi per essere valutati correttamente, e soprattutto, sono cose eccessivamente complicate per non essere valutate da esperti. Un esempio è dato dalle cosiddette valutazioni della didattica fatte dagli studenti, che salgono inevitabilmente quando si fanno corsi facili e scendono quando si alza il livello del corso. Cose note a chi in aula va a fare lezione, su discipline dure e non discorsistiche. Cose assai meno note ai teorici della gestione e del marketing. Capisco, in certi ambienti usare certe paroline magiche permette di ovviare alla mancanza di argomenti solidi, e “mercato” è una di queste; è l’infallibile toccasana ideologico/terminologico. Dietro si esse, però, il nulla o poco più quando le si usa in certi contesti.
Marco Ventoruzzo
Grazie del commento. Avrà notato che sia nel testo, che in diverse risposte, ho parlato della necessità che lo Stato riservi le risorse che potrebbe risparmiare da finanziamenti a pioggia e sostanzialmente indiscriminati (o allocati con criteri quantomeno discutibili), e forse anche altre, proprio a quei settori di ricerca e insegnamento meno in grado di finanziarsi attraendo studenti, ma fondamentali per lo sviluppo di un paese, come la ricerca di base (ad esempio in matematica), o in materie umanistiche. Ciò proprio perché non ritengo che l’istruzione e la ricerca siano “aziende” e so bene che i meccanismi di valutazione, soprattutto quando chi valuta investe e rischia poco (che gli studenti o la VQR), sono spesso poco attendibili. Ma ritenere che studenti e datori di lavoro non siano mai in grado di valutare i servizi offerti, e che non sia corretto creare maggiori incentivi per far “internalizzare” queste preferenze, almeno in parte, a chi offre formazione è un po’ paternalistico, ed è quanto è sostanzialmente stato fatto sino ad ora. Se vi pare che l’Università italiana sia perfetta così, e che non si possano migliorare le motivazioni che incidono su hiring e promotion, benissimo, non tocchiamo nulla. Ma evitiamo di fare classifiche di materie di serie A e B, e magari anche di scandalizzarci solo perché si usa la parola “mercato” (peraltro “regolato”): se qualcuno si eccita (superficialmente?) al suo suono, altrettanti si irritano (emotivamente?).
Giuseppe Mingione
Una delle risposte classiche alle critiche è: “Stai allora dicendo che tutto è perfetto”. A me pare di aver detto una cosa diversa e semplice: valutare la qualità dei corsi e della ricerca non può essere fatto in modo corretto dallo studente/cliente o dal datore di lavoro. Specialmente se lo studente medio è un (post-)adolescente ancora fresco di scuola o se il datore di lavoro cerca soltanto manodopera immediatamente pronta. Non si tratta di paternalismo. Si tratta di evitare truffe intellettuali, e di fare confusione tra cose rilevanti e cose irrilevanti (chi era quel brillante economista che scriveva “…per attrarre bravi studenti, si comincerà dall’offrire stanze singole nelle residenze studentesche, poi la Tv via cavo gratuita, poi la Jacuzzi privata e l’abbonamento annuale alla palestra”?). Si rischia pure di andare in direzioni pericolose: che succede quando l’economia è arretrata? Si asseconda la tendenza? Al limite, se una nazione ha un’economia basata sul turismo che succede? Si fa alta formazione sul turismo? (come auspicava un altro brillante economista in tv). No, non funziona riservare quote a discipline di base, non funziona già adesso, basta entrare in una qualsiasi università pubblica (ma anche in USA) per vedere che succede. Infine, io non mi scandalizzo affatto quando sento la parola “mercato” (usata spesso in contesti in cui non mi pare molto pertinente). Più semplicemente, mi annoio.
Marco Ventoruzzo
Adesso mi è chiaro, forse ho capito. Il mio errore è di proporre la jacuzzi per attrarre gli studenti e un prolifrare di corsi da maitre d’hotel. Perché naturalmente gli studenti che (a 17 anni) fanno domanda a Princeton o Science Po o LSE lo fanno appunto per avere la TV via cavo e imparare dove mettere il coltello del pesce, e i datori di lavoro li assuomo (forse in misura maggiore che i nostri più brillanti studenti) lo fanno per assicurarsi che abbiano visto Downtown Abbey e sappiano come aprire uno Chateau Margaut. E’ proprio quello che ho detto. E naturalmente dire che chi viene da una famiglia con 10 volte le disponibilità del suo collega di corso magari dovrebbe pagare per la stessa education un po’ più del secondo è noioso. Meglio seguire i criteri attuali di distribuzione dei fondi, a livello centrale e dei singoli atenei, o attribuire queste scelte a persone e procedure migliori, finalmente scelti correttamente.
marcello
Visto che si fa riferimento a Francia e USA, forse una contestualizzazione non sarebbe chiedere troppo.Negli USA la selezione inizia non dall’università ma dalle scuole elementari. Il problema dei genitori, come credo sappia, è quello di scegliere da subito un circuito che sappia dare maggiori chance ai propri figli. Quindi l’università è solo la fase finale del problema. I costi sono stellari e i debiti pure. Il rapporto del Senato degli SU del 2012 ( Sen. Tom Harkin) sul “for profit higher education industry” denunciava “detailed high rates of loan default, aggressive recruiting, higher than average tuition, low retention rates, and little job placement assistance”. Debito mediano con cui si laureano gli studenti $32.700. 20% of students who completed bachelor’s degree within four years at for-profit schools, matriculating in 2004. 31% percent of students who completed bachelor’s degree within four years at public institutions, matriculating in 2004 . 52% percent of students who completed bachelor’s degree within four years atNon mi sembra una performance stellare!
La Francia ha una spesa sociale del 54% del PIL, la struttura economico-industriale è molto diversa da quella italiana.Un aspirante professsore francese dopo l’habilitation, fa domanda (ogni anno) per la qualification nazionale, che non è nemmeno comparabile all’ASN, quindi un concorso locale, cioè gestito da ciascuna università. Ma di cosa si sta parlando? Parliamo di finanziamento all’università che è più serio
Giuseppe Mingione
Ventoruzzo, mi perdoni, ma al contrario di quello che scrive, le cose le risultano sempre meno chiare. Quello che intendevo dire è seguendo l’idea che dice lei, poi si va inevitabilmente verso certe direzioni, come già adesso d’altra parte. Elementi del sistema che auspica sono già implementati oggi e le università non puntano ad accaparrarsi studenti potenziando la qualità, ma il marketing, dando sovente origine a iniziative assai grottesche. Inoltre, prima di parlare di altri sistemi universitari, consiglierei una ancora maggiore riflessione. Se guardiamo agli UK, vediamo che certamente, molti studenti tentano di iscriversi alle università migliori, come Oxford o Cambridge, e si sottopongono ad una dura selezione per essere ammessi ai college. Ma l’eccellenza di queste università viene stabilità da varie agenzie di valutazione specializzate, che poi stilano, in un modo o nell’altro, dei ranking. In altre parole, è una valutazione endogena alla comunità scientifica che crea la competitività. (Se poi vogliamo approfondire la cosa, vediamo che in queste università ci sono moltissimi studenti provenienti da famiglie abbienti, quelli che hanno potuto frequentare una buona scuola. E le buone scuole si sa, sono private, un 15mila euro l’anno, diciamo così). Consiglierei in ogni caso di fare una prova, implementando il sistema che propone lei, per quello che riguarda le tasse, in Bocconi.
Marco Ventoruzzo
Caro Mingione, noto che parlare di mercato e formazione non è forse così noioso, dato che basta accostare i termini per suscitare un dibattito che non la vede indifferente. Ci sarebbe da aggiungere su quei sistemi stranieri ai quali fa riferimento, ma evito. Fatichiamo a capirci: non ho detto di trapiantare i sistemi anglosassoni in Italia, né che essi siano perfetti. Ho detto solo di introdurre qualche elemento, con correttivi, di correlazione tra tasse universitarie e servizio offerto, in proporzione al reddito, dando maggior rilievo alle scelte degli “utenti”. Tra chi si oppone recisamente a questo vi sono spesso (alcuni) docenti universitari, che affermano che valutazioni e distribuzione delle risorse devono essere pressoché interamente decise dallo loro stessa comunità: altri non potrebbero capire, è troppo difficile. Ignorando che se lo Stato anziché dover finanziare 10 facoltà di economia del turismo (con tutto il rispetto, ma visto che ha fatto questo esempio), ne potesse finanziare solo 2, forse ci sarebbero più risorse per chi fa ricerca di altro tipo (e queste, sì, da dividere in base a peers’ evaluations). Infine, non diamo consigli sugli economics di specifiche università che si conoscono meno: si potrebbe restare sorpresi.
Giuseppe Mingione
Caro Ventoruzzo, mi perdoni l’ardire, ma credo invece che prima di parlare di ricerca e sua valutazione le gioverebbe ampliare ancora di più i suoi orizzonti, magari a quei campi della ricerca scientifica, dura, in cui il confine tra ricerca seria e affidabile e truffa scientifica (e quanta ne conosciamo) è esattamente quello determinato dal giudizio degli esperti. Settori in cui i contributi di ricerca non sono neanche leggibili da chi non si occupa esattamente di quelle branche del settore specifico, figuriamoci dai non esperti. Senza questo tipo di valutazione specifica, si corre il rischio di sprofondare negli abissi pericolosi e imprevedibili della tuttologia (nella quale inciampano, devo dire a volte senza più rendersene conto, non pochi economisti) o peggio ancora, della demagogia. Ma mi creda, la realtà è altra, il meccanismo della soddisfazione del cliente in certi casi è solo una semplificazione ideologica assai ingenua. Quello che però mi pare sfuggirle è una cosa molto semplice: l’utente finale (lo studente, il datore di lavoro) sta in realtà già valutando, e lo fa proprio attraverso la comunità scientifica, espressione della società, e selezionata secondo meccanismi meritocratici rigorosi. Esattamente come nei paesi democratici moderni, le sentenze vengono scritte ed emesse da giudici, espressione del popolo, ma al contempo esperti di giurisprudenza, rinunciando all’arcaico voto della piazza. Buon anno!
Marco Ventoruzzo
Una sola precisazione sulla giurisprudenza, materia certo meno “dura” e forse prona a truffe intellettuali, ma di cui, per quanto imperefetta e inelegante, haimé i mortali hanno bisogno non meno che della matematica. Forse tutti e due ci aiutiamo così a espandere i reciproci orizzonti. Nelle democrazie le sentenze, almeno nei casi più gravi e rilevanti in materia penale in Italia e anche altri all’estero, sono in genere emanate integrando la decisione di giurati popolari non togati e scelti a caso, e giudici togati (da noi non espressione del popolo, bensì selezionati da altri giuristi con concorso in una limitata fascia della popolazione). Sono cioè il frutto di un giudizio (sui fatti) frutto anche del buon senso di non specialisti, e (sulla legge) di esperti che hanno studiato. Così non mi parrebbe spaventevole l’idea che le università siano almeno in parte giudicate e incentivate da una virtuosa combinazione del giudizio di chi sicuramente non è (ancora?) un esperto della materia con una medaglia Fields (studenti, mercato del lavoro), e professionisti ed esperti (i famosi peers che, soli, sanno leggere certi contributi). Fare sempre e solo e per tutto affidamento unicamente ai secondi mi pare poco saggio e un poco incestuoso, sia che siano tuttologi, come mi pare ritenga siano molti colleghi; sia che siano cultori dei campi di ricerca scientifica dura e seria, come il Suo.
Alessandro
Non sembra ci sia niente di lunare nell’incoraggiare la competizione tra atenei, nel pensare che la valutazione non possa essere solo endogena, vale a dire della classe dei docenti, universitari, nel ritenere che l’università di massa a costo quasi zero non ha prodotto I risultati sperati e che il valore legale del titolo di studio sia un ostacolo all’emergere di un mercato concorrenziale della conoscenza, Concorrenza che, appunto, è il maggior strumento di diffusione della conoscenza. Inoltre che l’ “equità” sia una mera redistribuzione di risorse dai più abbienti ai meno abbienti credo che sia un concetto rivelatosi fallace con il crollo del muro: le società oltrecortina erano le più eque di tutte (salvo per chi deteneva il potere politico, ma questo è un altro discorso)!
Alberto Rotondi
L’articolo parte da un assunto non verificato dai fatati, e cioè che le università più efficienti stanno nei paesi dove le tasse sono più alte.
Non sembra esistereinvece nessuna correlazione positiva fra i paesi dove l’Università è completamente gratuita (Svezia, Austria, Finlandia, Danimarca, Germania, Norvegia) o dove le tasse sono molto più basse che in Italia (Svizzera e tutti i grandi paesi UE) e la qualità del sistema universitario. Anzi, i sistemi dove le tasse non ci sono e gli studenti sono addirittura pagati sono quelli dove la selezione dei docenti e ricercatori è più dura e la qualità e migliore. Voglio proprio vedere chi è in grado di elaborare un modello dove assenza di tasse e inefficienza sono in relazione di causa-effetto e i dati sperimentali mostrano una anticorrelazione tra i due fenomeni.
L’Italia è il paese europeo, dopo l’Olanda e pochi altri, con le tasse più alte e i benefits più bassi. In Inghilterra le tasse sono più alte ma, dal 2012, è abbastanza facile ottenere prestiti che si pagano dopo la fine degli studi e dopo che si ha un lavoro.
La filosofia sottostante alla gestione del sistema universitario a spese della comunità è quella di considerare una buona università come un patrimonio pubblico e la diffusione dell’istruzione di elevato livello un bene per tutte le classi sociali. Utilizzare il sistema universitario per redistribuire il reddito, in alternativa ad altri metodi, è considerato da questi paesi una via da non percorrere.
Marco Ventoruzzo
Grazie. Non ho scritto che elevate tasse universitarie corrispondono necessariamente a buona qualità (o tasse basse a cattiva qualità), né che l’università debba costare tanto per tutti, bensì che una quota maggiore di finanziamento legata alle tuitions, in proporzione a indici di capacità contributiva e con correttivi, sarebbe più equa (chiedere sostanzialmente lo stesso prezzo a ricchi e poveri è antiprogressivo) e stimolerebbe maggiore attenzione alle esigenze degli studenti (quanto è facile trovare a ricevimento il proprio docente in molte università?). Peraltro, se anche fosse vero che l’Italia è tra i Paesi europei con tasse universitarie più alte (non mi sembra i dati lo indichino univocamnte), posto che certo – in media – non è tra quelli con il sistema universitario più competitivo né per studenti né per docenti, si confermerebbe che nel sistema attuale c’è qualcoda che non va. Penso che modelli quali quello sul quale si interroga siano difficili da elaborare, e non ne conosco. Tuttavia si vedano ad esempio i rankings di QS o Thompson Reuter (facilmente trovabili on line): con l’eccezione di ETH, il politecnico di Zurigo, non mi pare proprio vi siano università svedesi, austriache, norvegesi, finlandesi o danesi tra le prime 50. Al contrario ve ne sono moltissime (MIT, Yale, Harvard, Cambridge, Oxford, UCL, Singapore…) per le quali le tuitions sono una fonte finanziaria importante. Si dirà che questi rankings non sono affidabili e sono biased. Forse sì, forse no.
Alberto Rotondi
Ho tratto le mie affermazioni dalla mia esperienza (molti dei miei studenti dopo la triennale vanno all’estero, tra la’ltro perché tra benefit e tasse ci guadagnano, e da quest pubblicazione eurostat
http://eacea.ec.europa.eu/education/eurydice/documents/facts_and_figures/fees_support.pdf
da cui si vede che l’Italia in Europoa è prima (o tra i primi con l’Olanda) per tasse e ultima come assistenza agli studenti.
Alberto Rotondi
… il link finisce con
figures/fees_support.pdf
Marco Ventoruzzo
Ringrazio delle informazioni. Può essere utile anche questo dato, tratto da uno studio della European University Association: http://www.roars.it/online/wp-content/uploads/2011/11/Figura-3.jpg. Osservando i dati delle entrate dal “settore privato”, che includono le tasse universitarie degli studenti e le donazioni private, si vede che le Università italiane, pur avendo recentemente fatto uno sforzo per diversificare, traggono proporzionalmente meno da questa fonte rispetto sia alla media europea, che americana (e ricevono proporzionalmente anche meno dallo Stato). Ciò, lo ripeto ancora, non significa necessariamente né che i fondi pubblici siano adeguati quanto ad ammontare, né tantomeno che si debbano aumentare le tasse universitarie a chi non ha mezzi ma merita. Ma che vi sia lo spazio per tasse più in linea con i servizi, da parte di chi può, e quindi articolate progressivamente, forse sì. Certo è difficile misurare correttamente la capacità contributiva di uno studente e/o della sua famiglia di provenienza, ma non impossibile, e le difficoltà applicative devono essere considerate, ma non paralizzare la discussione su possibili riforme.
Giuseppe Mingione
Prima di citare facilmente i ranking, bisognerebbe ricordare come vengono fatti e cosa misurano. In particolare, impossibile fare confronti con sistemi nati per concentrare le eccellenze, come quelli USA e UK, e altri dove invece le eccellenze vengono distribuite, come la maggior parte di quelli europei. Inoltre, gioca in tali una forte componente storica e/o reputazionale. Ad esempio, il mio dipartimento in termini bibliometrici, è classificato meglio dei migliori dipartimenti di matematica UK (viene fuori leggendo gli indicatori specifici, molto più informativi dei dati aggregati; vedere shanghai 2015, mathematica, top publications). Tuttavia nel ranking complessivo viene messo dietro. Come mai? Il risultato viene mediato con una componente storica/reputazionale (non specificata) che è un fattore poco trasparente. In altre parole, è come se partecipando ad al campionato di serie A chi ha già vinto un certo numero di campionati partisse avvantaggiato. Per poi non parlare che questi ranking vanno rinormalizzati ai finanziamenti (mi sbaglio o su lavoce.info di questi aspetti si tace?). Come le dicevo, parlare di ranking senza inquadrarli nella realtà, è un’altra pericolosa concessione alla tuttologia, alla sbrigatività, che è implicita anche nella proposta di far valutare la qualità al (fanta)mercato degli utenti finali. Buon anno!!!
Marco Ventoruzzo
Caro Mingione, mi pare che abbiamo esaurito lo spazio che è qui concesso e espresso una sana pluralità di opinioni, quindi dopo questo mi taccierò in questa sede. Solo tre proposte (la ultima è la pù importante). Primo: avevo anticipato che si sarebbe detto che i ranking sono inaffidabili. Lo so, spesso contengono elementi eterogenei, e se interessa ho scritto questo in proposito (sebbene per il poco “duro” settore del diritto: http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2696217). Ma anche dire che nulla conta mi pare autoreferenziale. Secondo: ho tanti cari amici matematici, e ammiro la difficoltà di quello che fanno e il loro orgoglio. Ma penso sarebbe più efficace (vedi altro post sotto), per non dire altro, rinunciando a fare classifiche di materie più o meno serie e accusare di tuttologia. Il mondo è bello perché vario: forse Kelsen sarebbe stato un pessimo matematico, e forse Nash non sarebbe stato un grande giurista. Terzo e più importante: se vorrà, la prossima volta che sarà a Milano, le offrirò da bere per continuare la discussione, sono certo ci divertiremo. Se una birra o un caffè faciliteranno lo scambio, lo lascio decidere a Lei. Auguri di buon 2016!
Marco Ventoruzzo
Tra i commenti si è citato, come esempio virtuoso di paese con un sistema universitario gratuito, quello della Finlandia (insieme ad altri, anche in realtà non gratuiti). Ebbene, fanno riflettere le recenti notizie sulla profondissima crisi economica proprio delle università finlandesi, i cui fondi sono stati tagliati costringendole a pesanti licenziamenti anche di docenti, e che dovranno introdurre tuitions per gli studenti. Questo non per negare l’opportunità che il governo investa, e anche molto (e bene, in modo selettivo) sulle università, ma per ricordare che se le università sperano di potersi solo affidare alle risorse pubbliche, e non accettano, almeno nei settori in cui è possibile, di perseguire l’equilibrio economico anche confrontandosi con il “mercato”, parola tanto sgradita ad alcuni accademici, la “wake up call” potrebbe essere durissima: http://www.universityworldnews.com/article.php?story=20160121113257753
marcello
A conferma che forse i problemi sono altrove e non nell’assenza di un mercato della formazione come sostenuto dall’autore, riporto quanto contenuto nell’articolo “I dottori di ricerca che nessuno assume” del CdS di oggi 29 dicembre. A luglio 2014 Italia Lavoro pubblica il bando per un bonus di 8.000 euro per le aziende che assumano un dottore di ricerca tra i 30 e i 35 anni, con una dotazione di 1 milione di euro. Nonostante sia stato più volte reiterato (il bando scade il 31 dicembre) a fronte di potenziali 125 assunzioni, al 28 agosto i beneficiari del provvedimento risultano essere meno di 50. Ricapitolando: lo stato finanzia il 25% dello stipendio di un neo assunto in possesso di un dottorato a condizione che sia impiegato per almeno 12 mesi, circa i 2/3 delle risorse disponibili non sono utilizzate dalle imprese, destinatarie del provvedimento. E’ un problema della formazione o della struttura economico-sociale del Paese? Chi mi spiega cosa accade con parole semplici?
marcello
Rapporto Fondazione RES sull’università Italiana dal 2010: gli studenti immatricolati si sono ridotti di oltre 66mila (-20%); i docenti sono scesi a meno di 52mila (-17%); il personale tecnico amministrativo a 59mila (-18%)”. In un recente articolo pubblicato su VOX si associa la scarsa crescita economica dell’Italia a partire dalla metà degli anni 90 alla caduta della produttività totale dei fattori, che ancora a livelli tedeschi nel 2000 (1,2), precipita all’attuale 0,95 (USA 1,17, Francia e Germania 1,10). Gli autori osservano: “Italy has the lowest share of population with tertiary education and the fourth highest share of
population with only basic education in the EU….the difference between the average skills of 16-25 year-olds and the average
skills of 45-54 year-olds is smaller than in other countries with similar levels of skills in the whole
adult population, indicating that the gap is set to grow over time…Italy’s capital markets remain underdeveloped, which may also hinder innovation and structural
change…The slow pace of technology innovation and absorption is also shown in
the persistency of the country’s specialisation in low-to-medium technology sectors”. Quanto alla qualità dei docenti reclutati il Rapporto RES riporta che sulla base della VQR la qualità è migliore degli altri docenti. Vi sembra che il problema sia quello dell’articolo? Oppure si tratta di ridisegnare la struttura economica del paese a partire da alcune priorità stategiche?
Marco Ventoruzzo
Sì: l’università italiana, salvo qualche “isola” eccellente, arranca. Studenti e docenti in calo (forse anche perché molti se ne vanno all’estero, guarda caso spesso in università in cui le tuitions sono una parte significativa del finanziamento), poca spesa in termini totali, poche donazioni private (anche perché fiscalmente poco incentivate), e tasse universitarie che secondo me sono troppo basse per i ricchi e troppo alte per i poveri. La VQR – fatta da italiani e in modo centralizzato, e almeno in parte da altri docenti – però ci dice che siamo bravi. La soluzione è solo dare più fondi e continuare così? Oppure pensare a incentivi – in parte, solo in parte! – anche diversi? Che magari impongano maggiore attenzione da parte di docenti, dipartimenti e amministrativi agli studenti, al mercato del lavoro, ai benefici anche concreti della formazione dei propri laureati? Di fronte invece al leggermente più ampio e certo utile compito di “ridisegnare la struttura economica del paese a partire da alcune priorità strategiche”, lascio la parola a chi se la sente.
marcello
Negli ultimi venti anni ho assistito ad almeno 5 risorme dell’Università i cui esiti sono ben sintetizzati dai dati del rapporto RES. Il dato ultimo d cui ripartire è che i finanziamenti al sistema universitario ammonta a meno di 7 mld, al netto dell’inflazione 4,7 mld, quanto nel 1996. L’università ha perso il 20% di fondi, più di ogni altro settore pubblico. La Grande Recessione ha devastato l’economia italiana e ogni ipotesi di riforma ulteriore non può non tener conto che il mercato del lavoro globale si è raddoppiato. L’Italia è ancora la seconda manifattura dell”UE ma deve riposizionarsi accrescendo il valore aggiunto nelle produzioni. L’obiettivo è ambizioso, ma non impossibile. Gli esempi ci sono a partire da quegli USA (spesa pubblica 50% del PIL) che lei ha come modello. L’elezione di R.Reagan avvenne nel segno della Difesa Prioritaria (Defense Priority) e della strategia della Superiorità Tecnologica: programma Space Shuttle (Space Transportation System), progetto dello Scudo Spaziale (Strategic Defense Initiative) e partnership tra governo, industrie e università, come il National Engineering Action Conference, per sviluppare gli studi di tipo tecnologico. La Danimarca ha puntato sulla green economy, in particolare sull’energia. A quale mercato dovrebbe funzionalizzarsi l’università italiana, quello de Censimento 2011? Dimensione media delle imprese 3,7 addetti, microimprese (con meno di 10 addetti) sono il 95,1% delle imprese attive con il 47,2% addetti!
STEFANO
Spesa pubblica USA al 50%?
Maurizio Fenati
L’articolo cita evidenti difficoltà, ma non è chiara la soluzione.
Non credo che il modello USA sia il migliore avendo lavorato 25 anni a contatto con colleghi (ingegneri, fisici, etc..) statunitensi (e stranieri) in 2 grandi aziende globali USA (con sedi in Italia).
Gli studenti americani si inedbitano (100-150 mila $) fortemente, hanno una formazione molto specialistica con difficoltà ad uscire dal contesto tecnico, con le dovute ecezioni, e trasversalità di pensiero. Gli USA hanno un’Università più vicina ai bisogni delle aziende e con maggior efficienza, ma anche un mercato molto più ampio; ma il sistema paese e la cultura che sono differenti. Importare un pezzo svincolato dal contesto socio-culturale non garantisce un miglioramento, vedasi le lauree brevi divenute un estensione dei Licei e quest’ultimi, con le debite ecezioni, scaduti rispetto a 30-40 anni fà.
Quando nel 1984 ero alla facoltà di Matematica e Fisica di Pisa, conobbi un ragazzo italo-americano (padre scienziato al CERN) che preferì il biennio di Fisica alla statale di Pisa all’Università negli USA o in Sivzzera, con la prospettiva di specializzazione al CERN. Da allora molte cose sono cambiate.
Il degrado della scuola italiana, imputabile sia all’appiattimento 68.no di sinistra che alla mercificazione di destra (proliferazione di sedi Universitarie insignificanti per posti e consensi), è anche legata al degrado (anche di valori) del sistema paese. Un paese che 20-25 anni non ha un piano strategico industriale e di sviluppo su cui investire le risorse e per puntare all’eccellenza. Insomma un circolo vizioso.
Maurizio Fenati
Bell’articolo, ma non è chiara la soluzione.
Non credo che il modello USA sia il migliore. Avendo lavorato 25 anni con colleghi (ingegneri, fisici, etc..) statunitensi (e stranieri) in 2 grandi aziende USA (con sedi in Italia).
Gli studenti americani si indebitano fortemente, hanno una formazione molto specialistica con difficoltà ad uscire dal contesto tecnico, con le dovute eccezioni, e scarsa trasversalità di pensiero. Gli USA hanno un’Università più vicina ai bisogni delle aziende e con maggior efficienza, ma anche un mercato molto più ampio; ma il sistema paese e la cultura sono differenti. Importare un pezzo svincolato dal contesto socio-culturale non garantisce un miglioramento, vedasi le lauree brevi estensione dei Licei e quest’ultimi, con le debite ecezioni, scaduti rispetto a 30-40 anni fà.
Nel 1984, studente alla facoltà di Matematica e Fisica di Pisa, conobbi un ragazzo italo-americano (padre scienziato al CERN) che preferì il biennio di Fisica alla statale di Pisa agli USA e Sivzzera, con la prospettiva di specializzazione al CERN. Molte cose sono cambiate.
Il degrado della scuola italiana, imputabile a sinistra e destra (appiattimento 68.no, mercificazione, inutili sedi universitarie per posti e consensi, non rispetto degli insenganti), è anche legata al degrado di valori dell’Italia. Un paese che da 20-25 anni non ha un piano strategico industriale e di sviluppo per investire le risorse coerentemente e puntare all’eccellenza.
Alberto Rotondi
Disaccoppiare la questione tasse da quella sull’efficienza del sistema credo che giovi alla discussione. Riguardo all’efficienza, non conosco altri metodi che quello di 1) assicurare un buon metabolismo di funzionamento del sistema, 2) valutare ricerche e ricercatori anche attraverso i progetti di eccellenza vinti e, infine, 3) utilizzare la parte premiale dei finanziamenti premiare i migliori e incentivare l’efficienza del sistema.
In Italia manca completamente il punto 1) e questo vanifica gli altri due punti. L’Italia è l’unico paese dove esiste l’ANVUR, Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca, ma non esiste l’ANR, Agenzia Nazionale per la ricerca. Di fatto i fondi per la ricerca sono assenti dal 4 anni. Quest’anno, in modo improvviso ed episodico, sono stati assegnati un centinaio di milioni ai progetti PRIN per la ricerca universitaria. Cifra da confrontare con i 6 miliardi degli istituti Max Planck e Frahunofher in Germania o con i 4.7 miliardi l’anno statali del sistema inglese. Senza nessuna discussione preliminare e stata assegnati di botto all’ITT per EXPO una somma pari a tutto il PRIN. Chiudo qui e rimando al documento che ho sottoscritto con gli altri 17 direttori di Dipartimento di Pavia. Scusate il riferimento ma spero che dal documento appaia come il primo problema sia il modo demenziale con cui viene trattata l’università.
https://drive.google.com/a/unipv.it/file/d/0B9g_R640IxFAMW84clJFTWJjbW8/view
Chiara Fabbri
In un sistema come quello italiano in cui l’evasione fiscale e’endemica la proposta di innalzare le tasse universitarie per i “ricchi”significa sostanzialmente innalzarle solo per la quota di popolazione – minima – che non puo’o non vuole evadere. Gia’ oggi nelle universita’ pubbliche le tasse sono teoricamente paramentrate al reddito familiare, con l’aberrante risultato che chi proviene da famiglie con due lavoratori dipendenti paga il massimo della retta mentre studenti provenienti da famiglie notoriamente ricchissime godono di finanziamenti per gli indigenti. E non parlo di casi isolati. Ignorare la realta’dei fatti nello sviluppare proposte di riforma del sistema di istruzione superiore e’naif o in malafede. Uno dei pochi modi per rendere trasparente per gli acquirenti di servizi di istruziuone il valore del bene che stanno comprando sarebbe quello di pubblicare, obbligatoriamente, i dati sullímipego degli studenti post laurea, includendo il tempo di ricerca di un impiego, il salario di entrata, il tipo di contratto (apprendistato, a termine etc) e il livello di aderenza rispetto alla formazione impartita. Con questi dati sarebbe possibile fornire agli studenti ed anche allo Stato un utile e limpido metro di valutazione della qualita’dellístruzione fornita dalláteneo, che potrebbe anche essere utilizzato per assegnare fondi pubblici a quagli atenei che in effetti sono in grado di assicurare unístruzione utile sul mercato del lavoro.
marcello
A costo di ripetizioni vorrei ricordare quanto appena pubblicato da Eurostat sull’Italia:
“L’Italia quasi fanalino di coda in Europa sull’occupazione dei suoi laureati a 3 anni dal titolo accademico (peggio solo la Grecia): solo poco più della metà (il 52,9%) risulta lavorare, il dato peggiore nell’Unione europea dopo la Grecia. Lo dicono le statistiche Eurostat, per cui la media dello stesso dato nell’Ue a 28 nel 2014 è stata dell’80,5%. Per i diplomati italiani la situazione è ancora peggiore con solo il 30,5% che risulta occupato a 3 anni dal titolo (40,2% per i diplomi professionali)”. Forse bisognerebbe mettere in relazione (correlare?) questi dati con quelli del censimento Istat sulle imprese del 2011: Dimensione media delle imprese 3,7 addetti, microimprese (con meno di 10 addetti) sono il 95,1% delle imprese attive con il 47,2% addetti! e quelli della Fondazione RES: Rapporto Fondazione RES 2015 sull’università Italiana dal 2010: gli studenti immatricolati si sono ridotti di oltre 66mila (-20%); i docenti sono scesi a meno di 52mila (-17%); il personale tecnico amministrativo a 59mila (-18%)”. Investire nella formazine primaria, secondaria e terziaria per accrescere il capitale sociaòe e la produttività totale dei fattori, altro che induttivismo da quotidiano.
Fabrice
Premessa:
“Prima fate il necessario, poi fate il possibile e poi così facendo vi ritroverete a fare l’impossibile” by San Francesco d’Assisi.
Ergo, il necessario dovrebbe essere in primis ridare piena dignità ai diplomi della scuola media superiore in termini qualitativi e selettivi!!
Invece ormai da diverso tempo sono diventati solo dei diplomifici!!
Nel frattempo, fare il possibile a livello di istruzione universitaria significherebbe introdurre il numero cosidetto “chiuso” che sarebbe molto meglio definirlo numero programmato ( fatto come si deve, non alla carlona!! ) in tutte le facoltà, nessuna esclusa!!
Non ha alcun senso logico avere un esercito di laureati in legge, in scienze della formazione, in economia e commercio, ecc.. se poi molti di loro andranno a fare un lavoro per il quale bastava un semplice diploma!!
Ma poichè:
a) “Turkeys don’t vote for Christmas”
( turkeys = professori universitari! )
b) La maggior parte dei politici italiani sono solo dei politicanti, gente senza arte e nè parte.
( il colmo dei colmi: ministro della sanità, una col solo diploma di liceo classico!! )
e allora le due caste sopramenzionate si continueranno ad auto perpetuarsi, fino a quando un giorno..!!
Cordiali Saluti.
Fabrice
Alberto Rotondi
Il 23,9% dei giovani italiani fra i trenta e i trentaquattro anni possiede un titolo di laurea, rispetto alla media europea del 37,9% (fonte Eurostat 2015). Il problema è quello di avere troppo pochi laureati, non il contrario, soprattutto nelle discipline scientifiche. Non vedo poi perché il personale universitario dovrebbe opporsi a norme che ottimizzassero il sistema.
Fabrice
Non lo so lei in che mondo vive ma nel mondo pratico della realtà mi risulta che un sacco di ingegneri in Italia fanno lavori per il quale bastava un diploma tecnico specialistico e infatti gli stipendi degli ingegneri italiani sono molto bassi rispetto ai paesi come Francia, Germania, UK, mi risulta anche che gli architetti italiani sono in numero esorbitante rispetto alle reali esigenze dell’economia italiana e infatti pure in questo caso le retribuzioni medie sono molto inferiori rispetto agli altri paesi sopramenzionati, mi risulta anche che di tutti i laureati in economia e commercio ( con le varie specializzazioni ) in Italia quelli che poi vanno a fare lavori ad alto valore aggiunto come ad esempio: analista finanziario, controller di gestione, marketing manager in aziende di medio grandi dimensioni con stipendi davvero decenti, siano solo una nicchia molto ristretta e fra le altre cose in quei pochissimi casi dopo la laurea ci vuole anche un buon master di specializzazione, per tutto il resto bastava solo un diploma di perito commerciale preso come si deve e non regalato come invece avviene ai giorni nostri!
Alberto Rotondi
L’Italia è in una situazione drammatica, iniziata almeno 20 anni fa, quando abbiamo smesso di pensare in grande, ci siamo illusi che facendo maniglie, persiane, truciolari e sciacquoni per bagno avremmo potuto mantenere un posto di primo piano nel mondo globalizzato. Non parlo dei tanti industriali coraggiosi che hanno innovato, ma della maggior parte della classe dirigente e dei politici alla Bossi, Tremonti e Berlusconi che ci hanno fatto una testa così con il popolo dei capannoni e la piccola e media industria. La quale è fondamentale, ma in un contesto in cui la spina dorsale è fatta dalle grandi industrie che trainano il sistema e fanno ricerca. Il risultato è questo:
http://top100innovators.stateofinnovation.thomsonreuters.com/
Tra le prime 100 grandi industrie che hanno innovato non c’è nessuna industria italiana.
E abbiamo il numero di laureati più basso della UE. Una buona parte dei nostri pochi laureati trova lavori ben pagati all’estero. Gli imprenditori stranieri ringraziano sentitamente il contribuente italiano. Questo è il mondo dove vivo. Un mondo in cui l’Italia è in declino, grazie anche ai molti che la pensano come lei.
Fabrice
Senta Dott. Rotondi, per quanto riguarda la sua battuta finale:
“Questo è il mondo dove vivo. Un mondo in cui l’Italia è in declino, grazie anche ai molti che la pensano come lei.”
le ricordo che nel mio post successivo indirizzato a un certo “Marcello” che inizia dicendo:
“Aggiungo che per informazioni accurate e oggettive sull’argomento, digitare su google:…”
ho indicato ben quattro articoli che riportano fatti e non opinioni sull’argomento e se lei avesse avuto l’umiltà e la curiosità intellettuale di andarseli a leggere uno per uno avrebbe scoperto nella progredita e innovativa Svezia ( l’articolo segnalato al punto b) ) il seguente dato illuminante su tutta la faccenda:
In Svezia il 40 per cento degli adolescenti si aspetta, uno volta cresciuto, di svolgere un lavoro manuale. Questo accadrà per il 42 per cento di loro. Solo il 2 per cento, pertanto, svolgerà mansioni di questo tipo senza saperlo già oggi. In Italia, invece, il 48 per cento degli adolescenti svolgerà una professione manuale, ma solo il 5 per cento dichiara di prevederlo oggi. Ciò significa che il 43 per cento dei nostri ragazzi sta studiando e acquisendo competenze per un mestiere che, domani, non farà mai. È il dato offerto dall’Eurobarometro e recentemente ricordato in un incontro dal giuslavorista Pietro Ichino, che da un po’ di tempo sta girando nei licei e nelle scuole d’Italia per «spiegare il lavoro ai ragazzi»…
Vedasi anche “Il Futuro del Lavoro” by R. Donkin
Saluti.
Fabrice
marcello
Quindi la soluzione non è investire in istruzione e in un’idea di sviluppo ndustriale che accresca il valore aggiunto dei prodotti italiani (attualmente meno della metà di quello dei tedeschi), ma ridurre ancora il numero di laureati che, per inciso, sono già, per la fascia di età 25-34 anni, la percentuale più bassa tra tutti i paesi dell’Ocse. Quindi l’Italia (60 milioni di abitanti) dovrebbe tornare competitiva in questo modo in un mercato dell’offerta di lavoro di 3 miliardi di persone.
Fabrice
Aggiungo che per informazioni accurate e oggettive sull’argomento, digitare su google:
a) espresso inchieste fermate l’esodo dei laureati migliori
b) tempi laurea in lettere o scienze politiche forse era meglio iscriversi all’itis
c) today economia neolaurati italiani lavoro dati eurostat
d) today L’Ocse boccia l’Italia: “Troppi laureati malpagati”
Spesso e volentieri tre indizi fanno una prova, qui ne abbiamo ben più di tre!!!!
Cordiali saluti.
Fabrice