L’Arabia Saudita si sente economicamente debole e politicamente isolata. Ma la crisi potrebbe essere foriera di un vero cambiamento. Le prime avvisaglie sarebbero nei tagli a spesa pubblica e sussidi alla benzina e in alcune parziali privatizzazioni. Buone notizie per il futuro della regione?

L’isolamento di Ryad

Molti commentatori hanno interpretato le recenti esecuzioni di massa in Arabia Saudita, e in particolare quella dello ayatollah sciita Nimr al-Nimr, come un atto di disperata debolezza del regime. Altri vi hanno letto un tentativo di rivincita, se non di provocazione, del neo-incoronato Salman bin Abdulaziz Saud. Altri ancora fanno semplicemente notare come l’Arabia Saudita sia al terzo posto al mondo in termini di esecuzioni capitali dopo la Cina e l’Iran. In realtà, è probabile che ognuna di queste spiegazioni contenga un fondo di verità.
Mai come in questo momento Ryad si sente economicamente debole e politicamente isolata.
In primo luogo isolata dagli Stati Uniti, suo tradizionale alleato, specialmente dopo che l’accordo nucleare di Vienna libera da un isolamento decennale l’Iran, suo principale antagonista nella regione. In secondo luogo dalla Russia che è pesantemente ricomparsa sullo scacchiere mediorientale a fianco del siriano Assad e dell’odiato Iran. Poi dalla Cina, suo principale partner commerciale, che col solito pragmatismo non ha voglia di schierarsi senza un preciso interesse nazionale. Inoltre dalla Turchia, che da sempre spalleggia i Fratelli mussulmani, tradizionale avversario politico della famiglia Saud. Per non parlare delle crescenti difficoltà militari che i miliziani vicini ai sauditi incontrano in Yemen e Siria. Infine, non possiamo dimenticare i crescenti problemi economici che l’Egitto di al-Sisi, sinora sostenuto dai petrodollari del Golfo, sta affrontando dopo gli attentati terroristici del Sinai e di Hurghada.
Non inferiori sono le conseguenze che la caduta verticale del prezzo del petrolio provoca sull’economia saudita: le enormi riserve valutarie si riducono drasticamente e secondo un recente studio del Fondo monetario internazionale, a questi ritmi potrebbero azzerarsi entro cinque anni; la crescita economica è velocemente rallentata, mentre la disoccupazione giovanile sale rapidamente; molti giovani, mandati a studiare all’estero con generose borse di studio, faticano a rientrare nel paese; il bilancio pubblico, le cui entrate per oltre il 90 per cento dipendono dal petrolio (praticamente non esistono tasse nel paese), ha registrato un deficit vicino al 20 per cento. Qualcuno addirittura pronostica la fine della parità fissa in vigore da decenni fra la moneta saudita (Riyal) e il dollaro americano. Tutto ciò mette in discussione il vasto sistema di welfare e di sussidi, con il quale le élite vicine alla monarchia hanno per decenni comprato il consenso sociale di un ampio strato della popolazione. I petrodollari hanno anche abbondantemente finanziato Stati amici, gruppi politici e religiosi più o meno vicini a frange terroristiche. Nel mondo, i sauditi hanno costruito e finanziato oltre mille monumentali moschee, spesso seguaci del wahhabismo, corrente ortodossa sunnita, particolarmente vicina alla casa reale.

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La svolta possibile

Tuttavia, vi è anche chi ritiene – o meglio auspica (vedi l’Economist del 9 gennaio) – che la recente crisi possa essere foriera di un vero cambiamento politico ed economico del regno. Nel 2015 la spesa pubblica è stata tagliata del 12,6 per cento, con una prima riduzione dei sussidi alla benzina, all’acqua e all’elettricità, mentre il 28 dicembre il governo ha annunciato un ulteriore pacchetto di austerità che include una parziale privatizzazione di porti, compagnie aeree e persino dell’Aramco, la prima compagnia petrolifera mondiale, che potrebbe venire quotata. In questo contesto, il nuovo attivismo politico nella regione, incluso l’intervento armato in Yemen, non sarebbe altro che un segno del nuovo corso che la dinastia dei Saudi cerca di dare.
Ancora è presto per dire se l’Arabia Saudita diventerà un paese “normale”, dove a lavorare non siano soprattutto stranieri, che non godono di alcun diritto (la schiavitù è stata abolita solo nel 1962 ma ancora oggi moltissimi asiatici e africani vivono in regime di semi-schiavitù). Tuttavia, è probabilmente vero che il futuro della regione sia più legato a un positivo sviluppo del regno che alla sconfitta dell’Isis, che non può pensare di vincere una guerra contro tutto il mondo.

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