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Quando si legifera (troppo) per decreto*

I decreti legge sono diventati lo strumento usato dai governi per attuare il programma. Ne deriva una produzione legislativa poco coerente. Per rimediarvi si pensa ora di elevare a rango costituzionale principi di buona regolazione già previsti dalla legge ordinaria e mai applicati. Funzionerà?

Perché tanti decreti legge

L’attività normativa in Italia è ormai in buona parte prerogativa dell’esecutivo, come attestato di recente da Openpolis (“Premierato all’italiana”). Ciò è stato determinato nel tempo da una serie di fattori concorrenti. Da un lato, la dinamicità dei rapporti economici ha richiesto tempi di approvazione più spediti, pertanto non compatibili con l’articolato iter parlamentare; dall’altro, il governo, destinatario di molteplici istanze sociali che scaturiscono da un contesto in trasformazione, ha teso a garantire normativamente sempre più interessi. Questi elementi hanno determinato un utilizzo del decreto-legge non tanto per situazioni di emergenza, quanto per urgenze “politiche”, estranee quindi al disposto costituzionale: come rilevato dall’Osservatorio sulla legislazione, gli esecutivi hanno così fruito di “meccanismi comunicativi e procedurali più forti rispetto alle ordinarie iniziative legislative”. La frequenza, le dimensioni e la complessità dei decreti legge, usati “come strumento pressoché esclusivo per l’attuazione del programma di governo” e divenuti “atto ordinario di legislazione ad iter garantito”, hanno causato diverse conseguenze: in particolare, una produzione normativa “volatile, stratificata, spesso inattuata”, “sovrapposizioni (…) e intrecci fra disposizioni sostanzialmente identiche presenti in più provvedimenti d’urgenza” in corso di conversione,  “fughe e deroghe” dal sistema delle fonti “che denotano talora una buona dose di creatività e fantasia da parte del legislatore”, con buona pace delle “esigenze di semplificazione e di riordino della normativa vigente”, come rilevato dal Comitato per la legislazione. La Commissione per la semplificazione, a sua volta, ha richiamato la necessità di adottare “tutte le misure di semplificazione possibili per dare nuova energia – a costo zero, e anzi con evidenti risparmi – ai cittadini e alle imprese”: infatti “una legislazione ipertrofica e farraginosa impone un costo altrettanto insopportabile della elevata tassazione”. Varie misure sono state previste nel tempo al fine di ovviare a una normativa diventata sovrabbondante, mutevole e poco coerente, quali l’istituzione di un ministero per la Semplificazione nonché di organismi preposti allo stesso scopo, alcuni dei quali soppressi in breve tempo; una legge annuale di semplificazione, emanata sole cinque volte dal 1997 a oggi; una di queste prevedeva un meccanismo cosiddetto taglia-leggi per le disposizioni anteriori al 1970 (salvo quelle riguardanti determinate materie o escluse espressamente), dimostratosi “prevalentemente spettacolare, ma non di sostanza, riducendosi, per di più con una non indifferente quantità di errori, all’eliminazione di norme che, in quanto ormai esaurite, non risultavano in concreto più applicate”; una delega al governo (legge 69/2009), rimasta quasi del tutto inattuata, per la riorganizzazione delle normative settoriali in testi unici compilativi, atti a rendere più intellegibile la legislazione vigente.

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La riforma costituzionale

Oggi, potrebbero concorrere a una regolazione qualitativamente migliore non solo una serie di prescrizioni (in particolare, la legge n. 400/1988 e la Circolare sulle regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi), ma anche i pareri del Comitato per la legislazione sui requisiti di determinati testi normativi e sul loro rispetto di specifici parametri; le valutazioni delle commissioni parlamentari in sede referente, le quali hanno ad oggetto, tra l’altro, “la necessità di un intervento con legge”, “la definizione degli obiettivi dell’intervento e la valutazione di congruità dei mezzi per conseguirli”, “l’inequivocità del significato delle singole disposizioni”; l’analisi tecnico-normativa (Atn), nonché l’analisi e la verifica di impatto della regolamentazione (Air e Vir), importanti strumenti di migliore regolazione, oltre che di responsabilità dei decisori. Ma il pessimo stato della legislazione attuale rende palese che i regolatori non sono stati propensi ad avvalersi di questi mezzi, che operano da anni. Appare pertanto singolare che in occasione della riforma costituzionale, nell’apprezzabile intento di porre limiti al decreto legge, vengano inseriti nella Carta principi di buona regolazione già vigenti e sanciti dalla Consulta, ma finora lasciati spesso inosservati: ad esempio, il contenuto del decreto deve essere “specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”; nel corso dell’esame dei disegni di legge di conversione “non possono essere approvate disposizioni estranee all’oggetto o alle finalità del decreto”, né reiterate “disposizioni adottate con decreti non convertiti” (articolo 16, disegno di legge n. 1429-D). Il fine che si intende perseguire è evidentemente quello di indurre a una regolazione più virtuosa, confidando nell’effetto positivo della sindacabilità costituzionale delle norme emanate in violazione dei canoni. È dubbio, tuttavia, che il conferimento del rango più elevato a prescrizioni già esistenti, ma spesso ignorate, sia idoneo a incidere su qualità e metodo della regolazione, sì da evitare tra l’altro la produzione di normative “oscure”. Tali principi, una volta inseriti nella Carta, finiranno soltanto per determinare una rilevante quantità di richieste di giudizio costituzionale su disposizioni non conformi, ingolfando l’attività della Consulta. In attesa di una verifica a posteriori, si può solo auspicare che il cambiamento culturale che il governo intende attestare mediante la costituzionalizzazione dei principi sia attuato in modo concreto già prima dell’entrata in vigore della riforma: tra le intenzioni e le norme, l’unica certezza sono sempre i fatti.

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* Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono l’istituzione per cui lavora.

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Falso in bilancio: valutazioni che hanno bisogno di certezze

  1. Henri Schmit

    Bellissimo dossier! Tante iniziative e tanta carta mostrano quanto il paese sia inconcludente. La domanda è se la riforma costituzionale può contribuire a ridurre i vizi e le inefficienze denunciate. La risposta deve probabilmente essere differenziata: positiva per il titolo V, negativa per l’iter parlamentare con un senato meno potente ma con procedure più complesse; ci sarà la corsia preferenziale per i progetti governativi, ma il governo rimarrà troppo debole, nonostante i trucchi indecenti, antidemocratici della legge elettorale. A chi risponderanno i parlamentari? Sempre meno agli elettori! I deputati saranno prevalentemente nominati, i senatori saranno figure ibride di cui non si sa come saranno designate né quali interessi esattamente dovranno rappresentare. Rischio una scommessa: i senatori saranno uomini dei loro partiti, i veri padroni del paese!.Dietro tanti testi, tante leggi, si nasconde il vero vizio del paese, il bizantinismo, il cerimoniale, il formalismo, la messa in scena, l’inganno e l’arbitrario invece di poche regole chiare che comunque valgono a prescindere delle regolamentazioni di dettaglio e che sono fatte rispettare da giudici messi nelle condizioni di “fare giustizia” (in tempi ragionevoli) invece “celebrare processi” . Oggi si scherza sulle affermazioni di Padoa Schioppa relative al pagamento delle tasse mentre i riformatori di turno hanno dimenticato le sue coraggiose iniziative per riformare lo stato, rinforzando sia il governo sia la democrazia

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