L’allegato Infrastrutture al Def dichiara per la prima volta la volontà di valutare tutte le opere in modo omogeneo. E anche di procedere a una revisione di scelte già fatte in funzione di mutate condizioni di mercato. Un grande potenziale innovativo che potrebbe essere limitato da pre-giudizi.
Le infrastrutture nel Def
L’allegato “Infrastrutture” al Documento di economia e finanza 2016 pubblicato negli scorsi giorni contiene un importante elemento di discontinuità rispetto al passato. Per la prima volta si esplicita la volontà di “valutare tutte le opere in modo omogeneo e selezionarle in modo trasparente”. Viene inoltre delineata con forza la volontà di procedere a una “project review” delle scelte pregresse in funzione delle mutate condizioni di mercato. Sembrano però emergere anche alcuni pre-giudizi che potrebbero essere usati strumentalmente per limitare il grande il potenziale innovativo del nuovo approccio.
Dalla lettura del documento pare di capire che le grandi opere ferroviarie di valico che fanno parte del “core network” Ten-T – tra le quali il terzo valico dei Giovi e il tunnel di base Torino-Lione – dovrebbero essere realizzate a prescindere da una valutazione economica (le valutazioni “terze” che sono state effettuate in passato hanno portato a risultati negativi) in quanto “o la limitata capacità disponibile o le caratteristiche tecniche delle linee esistenti non rendono sufficientemente competitivo il trasporto delle merci via ferro”.
Come è stato illustrato su queste pagine in passato, per entrambe le opere non sussistono veri limiti di capacità e, comunque, la loro realizzazione modificherebbe in modo marginale i costi e i tempi di inoltro del trasporto su ferro, la cui competitività rispetto alla gomma rimarrebbe sostanzialmente immutata. Il nuovo approccio introdotto nell’allegato potrebbe consentire una riflessione anche su queste opere.
Sostenibilità e riequilibrio modale
Ritorna poi a più riprese nel testo il tema del riequilibrio modale da conseguire tramite la “cura del ferro” e quella “dell’acqua” ai fini del perseguimento della sostenibilità del settore.
Il confronto con altri paesi che nei decenni passati hanno già attuato tali terapie mostra però la ridotta efficacia dell’approccio: ingenti investimenti e sussidi a favore dei modi di trasporto a minore impatto ambientale hanno ricadute che possono essere quantificate in pochi punti percentuali di riduzione della quota di trasporto su gomma. Il livello di sostenibilità del settore dei trasporti – sia con riferimento alle emissioni di inquinanti locali che di gas serra – dipende quindi quasi esclusivamente dalla evoluzione tecnologica e dagli standard di emissione europei.
Non appare perciò coerente con il nuovo approccio del Def definire un “target di mobilità sostenibile” espressa come una ripartizione della mobilità urbana con il 40 per cento di trasporto pubblico, così come fissare un obiettivo di un aumento del 30 per cento dei chilometri di tram/metro per abitante entro il 2030. Un approccio simile a quello delineato nel Def è stato adottato nei decenni passati in Francia: gli esiti sembrano essere quantomeno dubbi. Per restare da noi, può essere utile guardare alla realtà di Torino, un’area metropolitana che nell’ultimo decennio ha sperimentato una massiccia “cura del ferro” con un investimento complessivo per la prima linea di metropolitana e per il passante ferroviario di 2,4 miliardi di euro. Ciononostante la quota modale degli spostamenti su mezzo pubblico è rimasta pressoché invariata, intorno al 18 per cento. Anche in questo caso le straordinarie innovazioni metodologiche del Def consentirebbero importanti approfondimenti.
Finanziamenti e sussidi
Appare inoltre discutibile l’opportunità che infrastrutture urbane di cui trarranno beneficio esclusivamente coloro che risiedono nelle aree interessate debbano essere finanziate a livello nazionale, per di più con una previa identificazione del modo di trasporto su cui puntare (una identificazione “previa” contraddice il concetto di valutazioni comparative). Sarebbe forse auspicabile che ogni singola realtà si assumesse oneri e onori delle scelte, sempre utilizzando gli strumenti proposti dal Def.
È poi la stessa logica del “sostegno” ai modi di trasporto a minore impatto sull’ambiente che potrebbe essere ora finalmente verificata caso per caso sulla base di specifiche valutazioni.
In termini più generali, per l’efficienza e l’equità delle scelte, sarebbe preferibile – e oggi è tecnicamente fattibile – una politica volta ad applicare il principio, teoricamente sostenuto dalla Ue, del “chi inquina, paga”. È possibile che con tale approccio le scelte in termini di infrastrutture da realizzare (e le ricadute sulla finanza pubblica) differiscano in alcuni casi da quelle che emergono dall’allegato al Def.
In ogni caso, definire scelte modali o progettuali a priori in alcuni casi potrebbe contraddire il concetto di valutazione, perfettamente consolidato a livello europeo anche per la dimensione ambientale (i “costi esterni”), e oggi pienamente promosso dai contenuti metodologici innovativi proposti dall’allegato infrastrutture del Def.
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Mario Rossi
Il ponte sullo stretto di messina lo facciamo o no?
Claudio Virno
L’articolo è totalmente condivisibile. C’è solo un problema. Dopo la recente stipula del “patto per la Campania” non sono più sicuro che il governo intenda realmente attivare procedure di valutazione economica degli interventi. Questa modalità di “accordo” tra le parti (che si è già dimostrata fallimentare in passato) è infatti in netto contrasto con un processo di selezione basato su metodi di valutazione rigorosi e riconosciuti a livello internazionale. Questo dubbio si aggiunge perciò a quelli già espressi da Marco Ponti.
luciano
Sono certamente d’accordo sul fatto che le opere debbano essere valutate in modo omogeneo. Spero che questo si traduca nella pubblicazione di linee guida cogenti e non con la costituzione di un soggetto unico a cui demandare la valutazione, che sarebbe di fatto un monopolio.
Mario Rossi
un esempio vissuto: una regione italiana spenderà parecchi soldini per ristrutturare un ala di un grande ospedale. L’appalto viene affidato ad una multinazionale straniera (francese) non se con appalto oppure no, ma questo è un altro discorso, questa multinazionale si trattiene una parte dei soldi e poi, senza alcun investimento in lavoro e produzione affida i lavori ad un consorzio costituito in una regione diversa da quella che deve fare i lavori. A questo punto il consorzio, di cui fanno parte anche persone con fallimenti sulle spalle (fallimenti che hanno fatto danni nella medesima regione in cui si fanno i lavori) prende il sub appalto dei lavori trattenedo una percentuale senza a sua volta investire nulla. A questo punto è il momento di trovare chi lavorerà per davvero e lì si che vengono contattate le imprese locali che lavoreranno e falliranno ma che sono le uniche che dovrebbero pagare le tasse nella regione che svolgerà i cantieri. Proprio un bel giretto che di sicuro arricchisce i politici tangentari ma di certo lascia vuote le casse della regione.