Nell’impossibilità di formare un governo, la Spagna torna al voto dopo appena sei mesi. Troppo frantumato il parlamento perché i tentativi di creare coalizioni più o meno grandi potessero avere successo. Prima delle elezioni la probabile apertura di una procedura di infrazione per deficit elevato.
Perché Pp e Psoe hanno gettato la spugna
Alla fine dell’ultimo giro di consultazioni di questi giorni, sembra proprio che re Felipe VI di Spagna sia costretto a indire nuove elezioni (si parla del 26 giugno), nella speranza che dal voto esca un parlamento più incline al compromesso (per sensibilità o per diversa distribuzione dei pesi elettorali).
Saranno così passati sei mesi dall’“inutile” voto del 20 dicembre, quando dalle urne uscì un parlamento frantumato. Nonostante la legge elettorale spagnola, soprattutto attraverso il meccanismo dei collegi elettorali piccoli, assegni un leggero premio di maggioranza ai partiti più grandi, essa rimane sostanzialmente una legge proporzionale. Difatti, il primo partito (Partido popular, Pp) ha ottenuto il 28,72 per cento dei consensi e 123 seggi su 350; il Partido socialista obrero espanol ha ottenuto il 22 per cento dei voti e 90 seggi, Podemos il 20,7 per cento (69 seggi) e Ciudadanos il 13,9 per cento (40 seggi).
Parlare di voto inutile è ovviamente una forzatura e una provocazione. La democrazia passa anche attraverso esperienze di questo tipo. Certo, un secondo turno o un premio di maggioranza avrebbero permesso la formazione di un governo legittimo molto più velocemente e a costi sicuramente inferiori. Quello che sarebbe potuto durare solo un paio di settimane (contrattazioni, affiliazioni, trattative), si è invece spalmato su quattro mesi e il clima tra le forze politiche, oggi, sembra tutt’altro che l’ideale per affrontare una campagna elettorale di ben due mesi.
Il primo tentativo di formare un governo fu quello di Mariano Rajoy, premier uscente e leader del Pp, che però a fine gennaio rinunciò per mancanza del sostegno necessario. Nel frattempo, il Partido popular era stato investito da una serie di scandali che avevano portato all’azzeramento di numerose cariche locali e reso di fatto politicamente impossibile il sostegno a un governo guidato dal Pp anche per il più vicino tra i nuovi partiti del rinnovamento, vale a dire Ciudadanos.
Falliti dunque sia il tentativo di una grande coalizione tra Psoe e Pp sia quello di coinvolgere partiti (relativamente) più piccoli, l’incarico di formare il governo fu affidato a Pedro Sanchez, leader del Psoe, che a sua volta non è riuscito a trovare una maggioranza. Inizialmente, Sanchez tentò una coalizione tra le forze di sinistra (Psoe, Podemos, nonché Izquierda Unida) per poi presentarsi alla Camera a marzo, per ben due volte, per ottenere la fiducia proponendo una coalizione tra Psoe e Ciudadanos. Risultato: 130 voti, deputato più deputato meno, sui 176 necessari e palla di nuovo al centro. Ulteriori tentativi di coinvolgere Podemos nella coalizione vennero spazzati via da un referendum online tra i sostenitori del movimento, che a stragrande maggioranza si dichiararono contrari. Il primo voto di fiducia ebbe peraltro la funzione di innescare un automatismo istituzionale, una specie di “timer per l’autodistruzione” del parlamento stesso, costretto a sciogliersi entro 60 giorni da un voto negativo di fiducia senza soluzioni alternative (articolo 99, comma 5 della Costituzione; i 60 giorni sono scaduti il 2 di maggio).
Verso le nuove elezioni
In tutto questo, il presidente del Consiglio uscente Rajoy si trova a dover gestire, senza forza politica e senza il consenso popolare necessario, la probabile apertura di una procedura di infrazione per deficit elevato da parte della Commissione europea, con relativa multa.
Di che cosa si parlerà, dunque, durante la campagna elettorale? Forse di Europa, di indipendenza, di riforme, di economia e di crescita. Più probabilmente, però, di responsabilità politiche e personali per la più lunga impasse istituzionale nella storia della democrazia spagnola.
Vedremo se gli elettori spagnoli terranno conto degli eventi quando decideranno se e chi votare di nuovo.
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Toscano
Speriamo sia una lezione che i sostenitori del no al referendum costituzionale apprendano
Lorenzo
Argomentazione del tutto forzata e tecnicamente scorretta; la informo che la legge elettorale non è parte della costituzione e dunque non è oggetto del referendum confermativo.
Si potrebbe avere uno stallo con sistema proporzionale alla camera anche se passasse la riforma (ad esempio se l’italicum viene dicharata incostituzionale) o viceversa si potrebbe avere una maggioranza netta anche a costituzione vigente estendendo l’italicum al senato.
Corrado Tizzoni
Gentile sig. Lorenzo, dovrebbe rivolgere la sua osservazione a Settis, Onida, Zagrebelsky, D’Attorre, Fassina, ecc. ecc. in quanto sono i sostenitori del no al referendum costituzionale i primi ad associare le ragioni del no al referendum al no all’ Italicum.