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Risparmiatori traditi: e il governo ci mette una pezza

Il decreto del governo ha trovato una soluzione di compromesso per gli obbligazionisti coinvolti nelle vicende delle quattro banche locali. Ma occorre anche definire una coerente strategia di nuove regole e nuove prassi che contribuiscano a innalzare il livello di consapevolezza degli investitori.

Il decreto “salva banche”

Alla fine, per gli obbligazionisti coinvolti nelle vicende delle banche oggetto del bail-in è stata trovata una soluzione di compromesso, che segna un innegabile passo avanti rispetto alle originarie proposte, ma nello stesso tempo impone per il futuro qualche riflessione.
Il decreto legge 3 maggio 2016 n. 59 aumenta le risorse a disposizione per i rimborsi (originariamente lo stanziamento era di 100 milioni di euro) e supera l’obbligo di ricorrere all’arbitrato, introducendo il rimborso automatico e forfettario, nella misura dell’80 per cento, per chi ha sottoscritto obbligazioni subordinate prima del 12 giugno 2014 e rientra in determinati limiti (patrimonio mobiliare inferiore a 100mila euro e reddito inferiore a 35mila euro nel 2015) che dovrebbero segnalare condizioni di particolare bisogno e vulnerabilità dell’investitore. Per chi non rientra in questa categoria, invece, rimane la soluzione già prevista dell’arbitrato presso l’Autorità nazionale anti corruzione.
In sostanza, la vera novità consiste nell’introduzione di una forma di tutela che, pur con i dovuti temperamenti, di fatto equipara l’obbligazionista al piccolo depositante, garantendogli comunque il ristoro del proprio investimento. Sicuramente è un intervento in grado di fronteggiare situazioni di allarme sociale e di soddisfare sacrosante esigenze di protezione delle fasce più deboli, coinvolte in una patologia che ha riguardato una parte minima del ricco e ampio marcato delle obbligazioni subordinate – ed è bene sottolinearlo perché qualche volta lo si dimentica.

Non esistono pasti gratis

Nel contempo, proprio restringendo con criteri selettivi il perimetro dei ristori automatici, il decreto cerca di non rinnegare il principio secondo il quale non esistono pasti gratis. In altre parole se vogliamo investire i nostri soldi in attività finanziarie ricavandone qualcosa, al netto ovviamente del doveroso rispetto delle regole di correttezza e trasparenza che l’ordinamento prevede e disciplina, un po’ di rischio dobbiamo assumerlo. Pretendere di avere sempre i soldi indietro quando le cose vanno male rappresenta la negazione dell’esistenza stessa dei mercati finanziari, dei quali qualsiasi economia, che ci piaccia o meno, ha grande bisogno.

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Nuove tutele per il futuro

Il decreto è quindi una soluzione di compromesso che tuttavia induce due riflessioni, soprattutto per il futuro.
La prima è sulla adeguatezza delle procedure di bail-in e sulla loro reale capacità di garantire la stabilità del sistema creditizio, sulla opportunità di una loro maggiore gradualità e di una riconsiderazione delle rigide maglie delle regole in materia di aiuti di stato.
È un tema da tempo sui tavoli di autorità e decisorio politici e su lavoce.info l’ho affrontato più volte (Papa, il popolo e le banche; Quel pensiero negativo utile per risolvere le crisi bancarie), sostenendo la tesi che comunque alla fine, come sempre nella storia è avvenuto, è il popolo che deve farsi carico dei salvataggi bancari.
La seconda riflessione, più di prospettiva, ma assolutamente prioritaria, è sulla necessità di definire una coerente strategia di nuove regole e nuove prassi che, come sottolinea Salvatore Rossi, contribuiscano a innalzare il livello di consapevolezza degli investitori.
Al posto della solite, a volte pletoriche e fumose, commissioni parlamentari d’inchiesta sul sistema bancario evocate in questo periodo, molto più utile potrebbe essere la strada di elaborare un modesto, ma lungimirante pacchetto di misure sul terreno delle tutele dell’investitore
Lo si potrebbe realizzare, facendo tesoro in primo luogo delle proposte finora emerse e degli orientamenti già adottati dalle autorità di vigilanza, senza farsi prendere da una sorta di voracità ossessiva di riforme. E si dovrebbe guardare ai risultati, verificati anche sul campo, di innovative tecniche di regolazione – ad esempio quelle ispirate all’economia comportamentale – per introdurre presidi di tutela più attenti alla realtà dei comportamenti e delle condizioni nelle quali noi decidiamo di investire.
In questo quadro, potrebbe essere utile anche chiedersi se la necessaria diffusione dell’educazione finanziaria, per ottenere concreti risultati, non debba coniugarsi e integrarsi (e forse in questo modo essere anche meno noiosa per gli studenti) con programmi più generali di educazione all’esercizio dei propri diritti. Si potrebbero studiare programmi destinati a target diversificati: dalle persone in età scolare agli adulti e, perché no, a chi lavora in banca e gli investimenti li suggerisce.
Insomma, e con tutto il doveroso rispetto delle nostre istituzioni, più che di commissioni parlamentari, abbiamo bisogno di una buona circolazione di nuove idee.

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  1. Michele

    Perché chi ha un reddito annuo di 35.000 € è in “condizioni di particolare vulnerabilità e bisogno” e chi invece ha un reddito di €36.000 non lo è?

  2. Henri Schmit

    L’approccio per via di decreto emanato ex post, tipicamente italiano, anzi bizantino, è del tutto sbagliato, come lo era l’incarico a Cantone, un arbitro ad hoc, quindi al di fuori di tutte le norme. L’unica soluzione equa è quella della procura di Arezzo che indaga per truffa e condannerà, mi auguro, non dipendenti subalterni, ma i vertici dell’istituto (e con loro Banca d’Italia) di aver organizzato (e permesso) in tempi di difficoltà dell’istituto l’emissione di titoli subordinati, prezzati a valori di titoli sicuri, e piazzati presso la propria clientela indistinta e indifesa. Questo è criminale, SE al momento dell’emissione la solidità della banca era già dubbia. La soluzione deve essere giudiziaria, non solo sul penale, ma soprattutto sul civile; servono sentenze di risarcimento dei danni causati da pratiche truffaldine. La Consob si atteggia da Ponzio Pilato, e forse non aveva mezzi per proibire; ma forse li ha per sanzionare ex post? Banca d’Italia invece invece aveva l’obbligo e i mezzi di vietare a una banca in difficoltà, non dal 2013, ma da prima del 2010, di collocare questi titoli in questo modo presso la sua clientela. Non sono gli investitori che devono imparare, ma i professori e gli esperti, gli organi di controllo e i politici, che non si accorgono dov’è la falla: la legge c’è, ma viene utilizzata (i documenti Mifid) per creare garanzie formali per le banche invece di creare obblighi di sostanza. Solo i tribunali possono ristabilire la legalità e l’equità.

  3. paolo

    Educazione finanziaria? Pagata da chi? Non certo da banche ed avvoltoi finanziari. Basterebbe proibire il collocamento al pubblico dei prodotti a rischio. Non farlo vuol dire predicar bene ma poi ammiccare ipocritamente agli imbroglioni.

  4. Massimo G

    Totalmente d’accordo sulla parte finale: problema non secondario è l’educazione finanziaria\economica delle persone. Quando mi sono diplomato al liceo, la gran maggioranza dei coetanei non sapeva ricavare la percentuale di un tasso di interesse (anche a 40 anni la situazione non è molto migliorata..); e a 18 anni si ha la capacità di agire e firmare ogni tipo di carta.

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