È la legge che ci consegna la definizione di consigliere indipendente nel cda delle società quotate. E a quella bisogna rifarsi per evitare giudizi sommari, perché non si tratta di una patente che rende alcuni amministratori più affidabili di altri da guardare con sospetto. Il caso Unicredit.
Indipendenza secondo il Testo unico della finanza
La discussione sulla corporate governance, fortunatamente, si estende ben oltre i tecnici e gli addetti ai lavori, è perciò utile una puntualizzazione sul concetto di “indipendenza” applicato agli amministratori (e ai sindaci) di società quotate, sul quale vi è indubbiamente confusione, anche in relazione alle considerazioni di Francesco Daveri sulla vicenda Unicredit pubblicate su lavoce.info.
Perché la critica al sistema normativo o alle prassi sia efficace e non cada nel populismo occorre comprenderne bene i fondamenti.
Nel nostro ordinamento, la definizione di indipendenza è contenuta nell’articolo 148 del Testo unico della finanza. Prevede che non sono indipendenti gli amministratori in rapporto di parentela con altri amministratori e, soprattutto, coloro che sono legati alla società o al gruppo da “da rapporti di lavoro autonomo o subordinato ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale o professionale che ne compromettano l’indipendenza”. È una definizione generale e sintetica e deve essere interpretata in modo sostanziale evitando sia letture annacquate, sia atteggiamenti da Torquemada.
Subito una precisazione: non è che gli amministratori “indipendenti” sono più affidabili di altri e i “non indipendenti” sono da guardare con sospetto. Semplicemente, la legge vuole che un numero minimo di amministratori non abbia con la società legami che potrebbero incidere sulle loro priorità.
Ad esempio, non è indipendente l’avvocato storico della società, quello che da anni la assiste, i cui redditi derivano in buona parte dalle fatture fatte all’emittente. Peraltro, anche in questo caso, la valutazione è sul caso concreto: un professionista che occasionalmente ha dato un parere di limitata incidenza sul suo giro d’affari potrebbe benissimo essere indipendente. Ma, soprattutto, ciò non significa affatto, per restare all’esempio, che sia un male che nel consiglio di amministrazione vi sia (anche) l’avvocato storico della società. Non sarà qualificato come indipendente (che, ripeto, non è un distintivo di merito), ma le sue conoscenze e competenze potrebbero essere preziose. Senza contare che, benché questi siano elementi che la legge non può valutare, l’indipendenza è una condizione dello spirito, che spesso dipende più da valori etici personali che dal bilancino dei rapporti professionali.
Anni addietro, un anziano giurista austriaco mi disse con una battuta: “Spesso l’unico amministratore veramente indipendente è quello che è stato quindici anni l’amministratore delegato della società, magari con una significativa retribuzione: l’unico che ha le informazioni per capire a fondo le cose e la sicurezza personale ed economica per dire davvero come la pensa”. Era una provocazione, ma fa riflettere. In fondo, l’amministratore più rigorosamente “indipendente” per legge, ossia quello che ha come unico incarico quello che svolge, a cui dedica tutto il suo tempo senza altre attività professionali, può essere molto “dipendente” da quell’unica posizione, da cui derivano interamente il suo reddito e prestigio.
Il caso Unicredit
Veniamo così al “caso” Unicredit. È legittimo da parte dei commentatori auspicare ricambi, ma occorre chiarire un paio di punti. Primo, il presidente di un consiglio di amministrazione può essere o non essere qualificato come indipendente (non essendolo se ha deleghe esecutive). Da questo punto di vista, non è di per sé né problematico né inusuale che un ex manager, che conosce bene la macchina, sia nominato presidente quando, per diverse ragioni, termina di svolgere le precedenti funzioni esecutive. La scelta può essere più o meno opportuna, ma la valutazione spetta soprattutto al mercato. Secondo, la funzione principale del presidente del cda è di coordinare i lavori del consiglio, assicurare flussi informativi adeguati e coinvolgere tutti i membri nella discussione. Un ruolo, insomma, di garanzia, tanto è vero che si suggerisce che la stessa persona non sia al tempo stesso presidente e amministratore delegato. In questa prospettiva, che un amministratore indipendente, eventualmente espressione degli investitori istituzionali, presieda il cda può essere desiderabile.
Il problema, se mai, è un altro: il sistema italiano prevede il voto di lista per la nomina sia dell’organo di gestione (cda) che di controllo (collegio sindacale), ma le regole sono disegnate in modo che il presidente dei due organi sia espressione di liste diverse: in linea di principio, della lista di minoranza il presidente del collegio sindacale e di quella di maggioranza il presidente del consiglio di amministrazione. L’eventualità che entrambi siano tratti da liste espressione dello stesso gruppo di soci, ad esempio gli investitori istituzionali, non è espressamente regolata e non pare vietata. E se solleva alcune domande circa il ruolo dei fondi (vedi il mio contributo qui), potrebbe anche ritenersi utile soprattutto quando, come in Unicredit, la lista da questi proposta ha in realtà ottenuto la maggioranza dei voti in assemblea.
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Henri Schmit
Ringrazio l’autore delle precisazioni illuminanti, precise e convincenti. Ci sono comunque due definizioni dell’indipendenza di un consigliere che inevitabilmente coesistono; si confondono, si contrappongono o si sovrappongono. La prima è di diritto positivo (art. 148 TUF), formale e assoluta, la seconda di valutazione esterna, sostanziale e relativa. Bella la provocazione dell’anziano giurista austriaco! riassume la mia osservazione. Per quanto riguarda la seconda banca del paese quello che manca non sono consiglieri indipendenti nel senso formale, ma un AD e un presidente che siano individui forti e capaci, espressione di interessi forti e (per coalizione) dominanti presenti in assemblea, continuamente controllati dagli altri consiglieri e periodicamente dall’assemblea. Francamente non capisco da chi dovrebbero essere indipendenti, se non da interessi occulti ufficialmente non presenti in assemblea, e quindi un criterio non gestibile con l’indipendenza formale.
AM
Un commento su come il legislatore italiano vede l’indipendenza di amministratori e sindaci..In Italia ci si accanisce contro “parenti ed affini entro il quarto grado” ignorando che oggi i pericoli di interferenze e condizionamenti non devono essere ricercati nell’affinità entro il 4° grado, ma nei legami personali informali di varia natura, dalla comune appartenenza a sodalizi, palesi e occulti, di molteplici tipologie o nella militanza politica