Il mercato del lavoro italiano ha imboccato la direzione giusta, ma la strada per la creazione sostenuta di posti di lavoro di qualità è ancora lontana. Perché restano alcuni problemi strutturali. Come la produttività che non cresce da quindici anni. Importanti passi avanti con il Jobs act.
Il mercato del lavoro in Italia
Dopo anni di crisi, il mercato del lavoro italiano sembra aver imboccato la direzione giusta, seppure lentamente. Gli ultimi dati Istat sul primo trimestre 2016 pubblicati lo scorso venerdì sono quasi tutti di segno positivo: rispetto all’ultimo trimestre 2015, aumentano gli occupati e le ore lavorate, calano i posti a tempo determinato, aumentano quelli a tempo indeterminato e diminuiscono gli inattivi. Tra le ombre, la crescita dell’occupazione si concentra tra gli uomini, nelle regioni settentrionali, tra gli over 50 (a fronte di diminuzioni per i 15-49enni), tra i laureati. In altre parole, si rafforzano i divari territoriali, di genere e di età del nostro paese. Inoltre, la crescita occupazionale rispetto ai partner europei è ancora lenta, soprattutto se si pensa che il ritardo da recuperare non è solo rispetto alla crisi cominciata nel 2008, ma rispetto a tre lustri di stagnazione, caso unico tra i paesi Ocse. I dati italiani si adeguano a quelli riscontrati nell’area Ocse: il tasso di occupazione è ancora inferiore ai livelli pre-crisi in molti paesi ma, secondo le ultime previsioni Ocse (figura 1), il “jobs gap”, cioè la differenza tra il tasso di occupazione attuale e quello dell’ultimo trimestre 2007, è destinato a chiudersi per l’area Ocse nel 2017. Non in Italia dove sarà ancora 1.9 punti inferiore. A questo punto sembra ormai chiaro che l’obiettivo del 67 per cento di tasso d’occupazione fissato nella strategia Europa 2020 per l’Italia, a tre anni e mezzo dalla scadenza e con gli attuali tassi di crescita, sia impossibile da raggiungere, nonostante fosse quello più basso tra i paesi europei dopo la Grecia.
Figura 1 – Il “Jobs gap” oggi e nel 2017
Differenza in punti percentuali del tasso di occupazione della popolazione 15-74 dall’inizio della crisi (quarto trimestre 2007)
Fonte: Elaborazioni OCSE a partire dall’OECD Economic Outlook e United Nations, World Population Prospects: The 2015 Revision
I numeri del rapporto Istat sembrano anche indicare un miglioramento nella tipologia dei posti di lavoro creati, con un aumento dei contratti a tempo indeterminato, il nuovo contratto a tutele crescenti. Se è vero che un ruolo chiave lo ha giocato la generosa decontribuzione del 2015, il primo semestre 2016 sembra mostrare che nonostante i ritmi più bassi rispetto ai trimestri precedenti, il processo di ricomposizione dell’occupazione verso contratti a tempo indeterminato continui, anche se gli incentivi sono stati dimezzati. Una simile dinamica è riscontrabile in altri paesi europei che hanno introdotto riforme del mercato del lavoro volte a ridurne la segmentazione tra lavoratori con contratti a tempo indeterminato e a tempo determinato (figura 2). La ripresa dell’occupazione in Italia, rispetto a paesi come il Portogallo e in particolare la Spagna, è più timida, ma gli effetti del Jobs act, probabilmente richiedono ancora del tempo per consolidarsi.
Figura 2 – Andamento dell’occupazione in Portogallo, Spagna e Italia
Variazione percentuale annuale, 15-64 anni, 2000 – primo trimestre 2016
Fonte: Elaborazioni OCSE su dati Eurostat data e OECD Short-Term Labour Market Statistics Database
Ripresa senza prodotto
I dati sul mercato del lavoro italiano, quindi, mostrano un quadro che volge, seppur lentamente, al positivo, nonostante una crescita del Pil sempre tra le più basse dei paesi europei. E, infatti, come ha scritto Francesco Daveri, ciò che manca all’economia italiana è sì il lavoro, ma anche e soprattutto la produttività. Si parla spesso di “jobless recovery”, cioè una ripresa senza lavoro. Nel caso italiano sembra piuttosto una “productless recovery”, una ripresa senza prodotto. L’occupazione aumenta nonostante la crescita del Pil da “zero virgola”. Non sarebbe una notizia negativa se non fosse che, come mostra la figura 3, questo implica che la produttività oraria del lavoro sia intorno allo zero e negli ultimi trimestri mostri perfino una tendenza a rallentare ulteriormente. Una situazione simile al Regno Unito, che però ha raggiunto tassi di occupazione record, e ben lontana da Spagna, Portogallo o Francia. Se creiamo lavoro nonostante l’assenza di crescita, significa che i nuovi posti di lavoro sono di “scarsa qualità”. Ed è un trend che dura ormai da oltre quindici anni.
Figura 3 – Evoluzione della produttività oraria del lavoro dall’inizio della crisi
Fonte: Elaborazioni OCSE su dati dei Conti nazionali trimestrali
Le ragioni di questa “productless recovery” sono molteplici: nel 2015, i generosi incentivi alle assunzioni potrebbero aver contribuito a incentivare le assunzioni anche in un contesto di scarsa domanda per le imprese. Ma sono soprattutto fattori strutturali di lungo periodo a determinare questo trend ultradecennale, unico tra i paesi Ocse: la produttività italiana è al palo da più di quindici anni e né la crisi né le riforme sembrano averla smossa, almeno per il momento. Per spiegare l’apparente mistero è nato quasi un filone nuovo di ricerca (tra le diverse analisi, si veda Hassan e Ottaviano, 2013, Manasse, 2013 oppure Pinelli et al., 2015). In conclusione, il mercato del lavoro italiano ha imboccato la direzione giusta ma la strada per la creazione sostenuta di posti di lavoro di qualità è ancora lontana. Se il Jobs act è stato un passo importante, il cammino del riformatore è lungo e accidentato e richiede una forte determinazione.
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Claudio Treves
E se la scarsa produttività fosse una conseguenza di 15 anni di riforme che hanno reso più conveniente per e imprese assumere in condizioni di precariato anziché investire in innovazione? E se quindi il Jobs Act anziché un passo nella direzione giusta fosse un’ulteriore passo nella direzione sbagliata?
Cordialmente
Claudio Treves, NIdiL-Cgil
Andrea
Articolo molto interessante se dal Jobs Act arrivano segnali positivi ritengo che l’unico modo per far si che nel lungo periodo la crescita sia positiva dovrà essere agire sulla tassazione sulla flessibilità del mercato del lavoro e sulla corruzione.
Sono da un anno Irlanda dove a mio parere nessuno parla di Precariato ma la loro flessibilità del mercato del lavoro e in generale della loro economia fa si che a mio parere che si creano molti più posti di lavoro che in Italia e con un maggiore stipendio e ci sia un perdita massiccia di capitale umano dal nostro paese. Questa è la mia opinione non sostenuta da dati ma vorrei Gentilmente capire perchè non è possibile imitare modelli che a mio modesto parere stanno funzionando ?.
Andrea Argento Dott.re in Scienze Economiche.
Henri Schmit
Bravo Andrea! L’esperienza vissuta vale molto. Basterebbe copiare bene. Nell’UE si chiama anche convergenza. E i nostri geni, nemmeno per primi gli attuali governanti, stanno spingendo per un flat tax! Come in Russia, eldorado degli oligarchi! Roba da matti!
Pier
Elementare caro Watson, elementare !!!
Mario Rossi
Guarda che in Italia è tutto fermo perchè non ci sono più certezze di nessun genere. Nessun sano di mente si metterebbe a lavorare in Italia. Per fare cosa?
Michele
Gli effetti reali del jobact sono 3: 1) boom dei voucher = precariato massimo 2) regalo alle imprese di18-20 mld in cambio di pochissima occupazione aggiuntiva (che ci sarebbe stata in ogni caso) 3) tendenziale ulteriore precarizzazione del lavoro (con il finto contratto a tempo indeterminato) e tendenziale ulteriore riduzione di stpendi e salari. In sintesi: una netta redistribuzione di risorse dal lavoro al capitale
maria laura ruiz
se i lavoratori aumentano ed il prodotto no, possiamo escludere che si tratti di lavoratori emersi dal nero, e quindi producono come prima?