La compatibilità con il dettato costituzionale del finanziamento statale alle scuole paritarie è una questione annosa. Ora il Consiglio di Stato ha stabilito che la sola condizione che permette di escludere il carattere commerciale dell’attività è quella della gratuità del servizio offerto.
La Costituzione e le scuole paritarie
La questione della natura giuridica pubblica o privata di un ente che si trova oggettivamente in una condizione “di confine” è tanto complessa quanto delicata.
È complessa perché sia la giurisprudenza che la dottrina, e ancora peggio il legislatore, non si ritrovano in posizioni univoche, optando ora per il modello formale, ora per quello sostanziale. È delicata perché all’individuazione della natura giuridica seguono numerose conseguenze che, qualora non adeguatamente preventivate, possono seriamente mettere a repentaglio sia la visione che la missione dell’ente medesimo.
Nel campo dell’istruzione, un problema affrontato tante volte, ma mai del tutto risolto concerne l’annosa questione del finanziamento statale delle scuole paritarie e della sua compatibilità con l’articolo 33 della Costituzione, comma 3° secondo il quale “enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. La Costituzione sembra quindi, laicamente, riconoscere alle istituzioni private il diritto di offrire servizi educativi e formativi al pari di quelli offerti dallo Stato, a condizione che la loro attività non gravi sulla spesa pubblica.
Finora, nonostante dottrina e giurisprudenza suggeriscano allo Stato di sostenere i fruitori del servizio e non direttamente gli istituti scolastici, il ministero dell’Istruzione e dell’Università ha continuato a finanziare annualmente scuole paritarie e libere università non statali di diritto privato senza discriminare, all’interno del medesimo ambito privatistico, tra enti a carattere commerciale e enti a carattere non-profit. Il numero elevato di scuole paritarie (13mila circa) interessate al finanziamento statale ha inevitabilmente finito per politicizzare la vicenda e per impallidirne la riflessione giuridica. Diversa e meno invasiva è la pressione esercitata sullo Stato dalle libere università non statali di diritto privato, se non altro per l’enorme differenza di numeri (non sono più di trenta).
Sentenza del Consiglio di Stato
La questione è stata recentemente affrontata dal Consiglio di Stato che, entrando nel merito della natura giuridica delle scuole paritarie ai fini dell’ammissibilità al finanziamento ministeriale e richiamando quanto già statuito dalla Commissione europea, ha chiarito che non è di per sé sufficiente a escludere la natura economica dell’attività il fatto che gli eventuali avanzi di gestione non siano distribuiti tra i soci e siano reinvestiti nell’attività didattica (che è appunto la caratteristica degli enti non-profit), mentre la sola condizione in presenza della quale è lecito escludere il carattere commerciale dell’attività è quella della gratuità o quasi gratuità del servizio offerto. In assenza di quest’ultima condizione, da valutare in termini rigorosamente oggettivi del servizio, il vantaggio selettivo concesso ad alcune imprese operanti nel settore costituisce aiuto di Stato, incorrendo perciò nel divieto e nel regime di illiceità sancito dal citato articolo 107 del Trattato che istituisce la Comunità europea.
Quanto al rilievo da dare all’elemento oggettivo attinente alle modalità di svolgimento dell’attività, va rilevato che già la giurisprudenza tributaria, nel definire una controversia sulla (non) esenzione dall’Ici, ha stabilito che nella gestione di una scuola paritaria di un ente religioso il pagamento di una retta da parte degli alunni è indice rivelatore dell’esercizio dell’attività con modalità commerciali. In particolare, le attività didattiche si considerano effettuate con modalità non commerciali se, tra gli altri requisiti, sono svolte a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di una retta d’importo simbolico.
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Amegighi
Ovviamente la sentenza scatenerà l’ennesima bufera di critiche, plausi e demagogia, che caratterizzano la nostra politica.
Mi interessa sottolineare, da inesperto e quindi non conoscitore della materia giuridica, il fatto che si ponga l’attenzione sul “fruitore”; cioè, in poche parole, sul “cliente” o “consumatore” del servizio in questione. Troppo spesso questa figura, che dovrebbe essere centrale in un libero mercato, diventa marginale nelle leggi civili (vedi la legge annacquata sulla class-action), salvo rientrare fondamentale nelle varie esternazioni politiche.
Chiaramente le varie “lobbies” di potere riescono a “regolare” a loro piacimento la stesura finale delle leggi, pur sempre svolta dai cittadini che abbiamo eletto, cioè dai Parlamentari, sollevando la questione fondamentale, che non mi pare sia così al centro dell’attenzione, sul rapporto di responsabilità tra elettori di un Collegio elettorale e i/il loro rappresentanti/e nel Parlamento. Un rapporto di “responsabilità diretta” che nè le liste bloccate, nè quelle libere, nè un sistema uninominale maggioritario come quello americano, sembrano in grado di imporre.
Con il risultato che, come Lei scrive nel suo articolo, si può andare avanti per anni, tra contenziosi e piccole modifiche introdotte, per raggiungere una, anzi LA CHIAREZZA, che è espressa, nel caso in questione, nella nostra Carta Costituzionale.
massimo greco
Esattamente, risalendo, risalendo, la responsabilità politica emerge inevitabilmente sia nella fase del nobile esercizio del potere legislativo sia in quello – meno discrezionale – applicativo/esecutivo.