Trump ha convinto milioni di americani a votare per lui promettendo di costruire un muro lungo il confine messicano e di deportare milioni di immigrati illegali. Ma tendenze simili, che contengono una matrice protezionista e localista, si manifestano anche altrove, fino a contagiare i paesi europei.

Chi ha votato per Trump

Anche se Donald Trump si è autoproclamato il paladino degli esclusi, il voto in suo favore non sembra essere stato determinato dal reddito, ma piuttosto da fattori come la razza, l’appartenenza religiosa e il luogo di residenza. Secondo i dati dettagliati delle elezioni presidenziali del 2016 basati sugli exit poll ufficiali, in tutte le fasce di reddito – da meno di 30mila dollari a più di 250mila l’anno pro-capite – il voto è ripartito tra Trump e Hillary Clinton con differenze non significative.
Sono altre le variabili che hanno inciso di più. Il colore della pelle è sicuramente una di queste: il 58 per cento dei bianchi ha votato Trump, e fra i bianchi senza laurea il dato sale al 68 per cento. Per contro, l’88 per cento dei neri e il 65 per cento di ispanici e asiatici hanno votato per Clinton. L’appartenenza religiosa è un altro fattore importante: il 52 per cento dei cattolici, il 58 per cento dei protestanti e l’88 per cento degli evangelisti (bianchi) hanno preferito Trump.
Un’altra indicazione importante ci viene data dal luogo di residenza degli elettori: il 62 per cento di chi risiede nelle aree rurali ha scelto Trump, mentre in tutte le città con più di 50mila abitanti il 60 per cento del voto è andato a Hilary Clinton.
Emergono poi altre tendenze: i giovani dai 18-29 anni (55 per cento), le donne (54 per cento) e le persone con un titolo di studio equivalente a master o dottorato (58 per cento) hanno favorito in prevalenza la candidata democratica. Ma con scarti relativamente ridotti. Insomma, l’identikit del sostenitore tipico di Trump non è così omogeneo: basti pensare che il 30 per cento degli ispanici e il 42 per cento delle donne statunitensi hanno dato la loro preferenza proprio al candidato repubblicano, nonostante questi gruppi siano stati il bersaglio di duri attacchi durante la campagna elettorale. Una base importantissima per Trump è stata comunque la classe operaia bianca nella cosiddetta “cintura della ruggine”, specialmente in Michigan, Ohio, Pennsylvania, Wisconsin e Iowa – gli “stati-pendolo” dove si giocano le sorti delle elezioni presidenziali americane. Insieme alla Florida, tutti questi stati sono passati dai democratici ai repubblicani tra il 2012 e il 2016.

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Un’amministrazione che “vale” miliardi

Due considerazioni in particolare meritano di essere sottolineate. La prima è che Trump, uno degli uomini più ricchi d’America, è diventato il portavoce degli sconfitti. Il suo messaggio ha fatto abilmente perno sulla retorica anti-sistema (e anti-globalizzazione) e sulla tesi che l’apparato economico americano è ‘truccato’ in favore dei ricchi e dei banchieri di Wall Street. È vero che in America la disuguaglianza è aumentata considerevolmente negli ultimi trent’anni; è anche vero che il mito americano dell’uomo che si fa da solo non trova riscontro nei dati. La povertà e la ricchezza si tramandano sempre di più di generazione in generazione e la mobilità sociale ha subito una forte frenata. In questo contesto, però, potrebbe sembrare curioso che, secondo alcune stime, il patrimonio privato di coloro che fino a oggi sono stati nominati nel gabinetto di Trump oscilli tra i 5 e i 15 miliardi di dollari. Queste persone saranno novelli Robin Hood o faranno invece gli interessi delle classi più abbienti?
Il secondo dato è che molti analisti hanno interpretato il voto pro-Trump non solo in chiave etnica, ma anche nazionalista. Trump ha convinto 61 milioni di americani a votare per lui promettendo di costruire un muro lungo il confine messicano e di deportare milioni di immigrati illegali, la maggior parte ispanici. In un recente editoriale, l’Economist sostiene che il nazionalismo di stampo etnico è un fenomeno in crescita: in Russia, Vladimir Putin ha promosso un’ideologia che mischia le tradizioni slave con l’ortodossia cristiana; in Turchia Recep Erdogan ha tagliato i ponti con l’Unione europea e sospeso il dialogo con i curdi, ripiegandosi su un nazionalismo di impronta islamica; in India e Cina esiste una crescente intolleranza contro coloro che non sono ritenuti ‘veri’ Indù o ‘veri’ Han.
Queste tendenze contengono anche una matrice protezionista e localista: dopotutto, lo slogan di Trump è stato quello di “fare di nuovo grande l’America” promettendo di ripudiare una serie di trattati internazionali e di punire le imprese che delocalizzano all’estero i loro posti di lavoro. Il neo-presidente ha infatti già attaccato – via Twitter – colossi come General Motors e Toyota, colpevoli di voler produrre i loro veicoli in Messico, minacciando “grossi dazi” nei confronti di queste aziende.
L’ondata protezionista (e nazionalista) sta contagiando anche i paesi europei. Ma i costi di una ritirata dalla globalizzazione sono certamente più alti per paesi piccoli e aperti al commercio internazionale come quelli nostrani, almeno che quest’ultimi non rispondano all’unisono rafforzando la propria unità sotto la bandiera europea, un’opzione che sembra poco popolare di questi tempi.

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* Il testo riflette le opinioni personali dell’autore e non è attribuibile alla Banca Mondiale, ai paesi che la costituiscono o ai direttori esecutivi che li rappresentano.

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