Riusciranno le regioni a decidere come spartirsi 480 milioni di tagli, dopo aver trovato l’accordo su 3 miliardi e mezzo? La vicenda spiega bene come il sistema delle relazioni tra stato e regioni abbia urgente bisogno di chiarezza. E un nodo chiave è il significato da attribuire ai Lea.

Scontro su 480 milioni

Ma come? Le regioni si devono accordare per tagliare qualche miliardo di euro? Non si era detto che la legge di bilancio per il 2017 aveva messo sul piatto della sanità 2 miliardi in più? L’ennesima presa in giro per i cittadini? L’impossibilità di garantire i livelli essenziali di assistenza? La fine della sanità pubblica, come qualche commediante di lungo corso si è affrettato a dire?
Per quanto strano possa sembrare, le prime due affermazioni sono entrambe vere; e non comportano grandi novità sul versante del servizio sanitario nazionale. Da un lato, con la legge di stabilità per il 2016 il governo ha richiesto al sistema delle regioni un contributo alla finanza pubblica di 3,980 miliardi di euro per il 2017 e di 5,480 miliardi sia per il 2018 sia per il 2019. Dall’altro, la legge di stabilità per il 2017 ha fissato il finanziamento a 113 miliardi di euro per l’anno in corso, effettivamente 2 in più rispetto al 2016.
Il punto del contendere – che spiega l’agitazione di questi giorni – è come si dividono fra le regioni i 15 miliardi di contributi alla finanza pubblica. La nota del ministero della Salute richiama l’intesa stato-regioni dell’11 febbraio 2016, esattamente un anno fa, che stabilisce le modalità generali di riparto di 3,5 miliardi per il 2017 e di 5 miliardi per il 2018 e per il 2019. In realtà, nell’intesa si rimanda ad altri accordi da definirsi entro il 31 gennaio di ciascun anno; in assenza dei quali, trascorsi venti giorni, ci dovrebbe pensare il governo, tenendo conto della popolazione residente e del Pil. Si noti che rispetto alle cifre del 2016 ballano 480 milioni, che l’intesa dell’11 febbraio 2016 scarica anche in questo caso su quelle successive che devono essere raggiunte entro il 31 gennaio di ogni anno; ma per questi 480 milioni non ci sono coperture previste. È ragionevole pensare che siano i denari sui quali Friuli e Sardegna si sono rifiutate di offrire un contributo, ventilando un ulteriore ricorso alla Corte costituzionale contro la legge di bilancio per il 2017. Ulteriore perché contro i “tagli” della legge di stabilità 2016 pendono già i ricorsi di Valle d’Aosta, Friuli, Sicilia e Sardegna, e non sappiamo come andrà a finire.

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I Lea e il rapporto stato-regioni

La storia è l’ennesimo pasticcio delle relazioni tra lo Stato e le regioni, dove ciascuno può dire la sua senza tema di essere smentito. Ed è illustrativa di come il sistema delle relazioni (finanziarie e non) tra stato e regioni abbia urgente bisogno di chiarezza.
Fra i tanti temi (i bilanci separati della sanità, le risorse proprie, il numero delle regioni, le autonomie speciali), un nodo chiave è il significato da attribuire ai livelli essenziali di assistenza. Oggi si dice che i soldi per la sanità servono per garantire a tutti i cittadini lo stesso pacchetto di servizi; e si è sbandierato l’aggiornamento dei Lea come un obiettivo importante raggiunto dal governo, finanziato con 800 milioni di euro vincolati a questo scopo sui 2 miliardi di aumento del finanziamento. Per carità, dopo anni di inattività, l’elenco dei Lea andava aggiornato. Ma è assurdo continuare a dire che i soldi servono per finanziare i livelli essenziali di assistenza; cosa che consente al coordinatore della commissione Affari finanziari della Conferenza delle regioni di dichiarare che se le regioni a statuto speciale non concorrono a coprire i 480 milioni di euro che ancora mancano, le altre non sono in grado di erogare i Lea.
Siamo passati in mezzo alla più profonda e duratura crisi economica del dopoguerra, con riduzioni sensibili del finanziamento tendenziale, e il sistema ha tenuto: la soddisfazione dei pazienti non sembra essersi sostanzialmente modificata; certamente è stabile o in miglioramento per l’assistenza medica in ospedale, dato per il quale abbiamo una serie storica sufficientemente lunga (figura 1). Dobbiamo anche registrare successi sul versante finanziario, perché sono andati azzerandosi i disavanzi. Non si è modificata invece la distanza del Mezzogiorno dal resto del paese in termini di servizi, che emerge chiara dai dati sulla soddisfazione e da quelli di monitoraggio dei Lea (che premiano la sola Basilicata). E sono aumentate le diseguaglianze nell’accesso alle cure, segno che non c’è attenzione adeguata per i più deboli. I numeri ci dicono che il ministero dell’Economia e Finanza ha fatto la sua parte, mentre quello della Salute ha fatto solo in parte la sua; e che non sono i soldi a fare la differenza, quanto le modalità con cui vengono gestiti e come viene governata la sanità.
Smettiamola poi con la mancata riforma del Titolo V e la storia del federalismo che avrebbe acuito il divario Nord-Sud nelle risorse: dalle figure 2a e 2b è evidente come a un aumento delle risorse pro-capite, dalla fine degli anni Novanta all’inizio della crisi, sia corrisposta una riduzione delle differenze tra regioni (misurate dal coefficiente di variazione) nella spesa, sia considerando tutte le regioni, sia considerando solo quelle a statuto ordinario. Dar la colpa al federalismo è solo un modo per creare ulteriori alibi e continuare a guardare il dito invece della luna.

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Figura 1 – Percentuale di persone molto soddisfatte dell’assistenza medica ospedaliera

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Fonte: Istat-Hfa, 2016

Figura 2a. Spesa media pro-capite (euro) e coefficiente di variazione (tutte le regioni)

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Fonte: elaborazioni su Istat-HFA, 2016

Figura 2b. Spesa media pro-capite (euro) e coefficiente di variazione (solo Rso)

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Fonte: elaborazioni su Istat-HFA, 2016

 

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