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Rimpatri impossibili senza accordi bilaterali

Il decreto Minniti vuole snellire le procedure sull’accoglienza dei richiedenti asilo e aumentare i rimpatri di chi non ha diritto alla protezione. Ma le espulsioni richiedono accordi bilaterali con i paesi di origine. E con le nazioni dell’Africa sub-sahariana non li abbiamo.

I principi cardine del decreto immigrazione

Il 17 febbraio il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge (il cosiddetto decreto Minniti sull’immigrazione) che introduce “disposizioni urgenti per l’accelerazione delle procedure amministrative e giurisdizionali in materia di protezione internazionale”.
Il primo obiettivo è snellire le procedure di identificazione dei migranti e di valutazione delle domande, in modo da ridurre i tempi di permanenza nei centri di accoglienza. Nei tribunali di quattordici città viene istituita una sezione specializzata in immigrazione e protezione internazionale, creando un canale preferenziale che non interferisca con le attività ordinarie. È poi previsto un nuovo modello processuale, più agile e veloce, per i procedimenti legati al riconoscimento della protezione internazionale, per i quali sarà di fatto eliminato un grado di giudizio (rimane solo il ricorso in Cassazione).
Il secondo principio riguarda l’impiego dei richiedenti asilo nello svolgimento di attività con finalità di carattere sociale a favore delle collettività dei territori in cui vengono ospitati. La misura risponde a un sentimento diffuso che vede nei “profughi” un costo per la collettività, ma può certamente rappresentare uno strumento per l’integrazione dei migranti nel tessuto sociale locale. Si tratta di un inserimento su base volontaria e gratuita, che può portare giovamento sia ai migranti che ai territori, favorendo al contempo una reciproca conoscenza.
Il decreto mira anche ad accelerare le procedure di identificazione dei migranti in fase di soccorso e prima accoglienza (fotosegnalamento, rilevamento delle impronte digitali e registrazione nel sistema comune europeo) e favorire l’effettività dei provvedimenti di espulsione e il potenziamento della rete dei centri di identificazione ed espulsione (Cie), ridenominati centri di permanenza per il rimpatrio, in modo da garantirne una distribuzione omogenea sul territorio nazionale. Il ministro ha già anticipato che saranno strutture di piccole dimensioni, una per ogni regione.

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L’efficacia dei rimpatri

Proprio la questione dei rimpatri è quella che presenta diverse criticità in termini di efficacia e gestione operativa. In primo luogo, va detto che nel 2016 in Italia il tasso di accoglimento delle domande d’asilo (39,4 per cento) è stato nettamente inferiore rispetto alla media UE (61,3 per cento) e a paesi come Svezia (69,4 per cento) e Germania (68,8 per cento), dove i richiedenti asilo provengono principalmente dalla Siria.
Dunque, se oltre il 60 per cento dei richiedenti non ha effettivamente diritto al riconoscimento dello status di rifugiato, la questione dei rimpatri diventa cruciale per la gestione dell’accoglienza sul territorio. A inizio marzo, infatti, risultano presenti complessivamente 175mila migranti, di cui l’80 per cento in strutture di emergenza.
Oltre alla gestione dei Cie, per anni al centro di polemiche per le condizioni in cui venivano ospitati i migranti, diventa allora opportuno riflettere sulla gestione operativa (nonché sui costi) delle espulsioni.
Secondo fonti del ministero dell’Interno, nel 2016 sono stati rintracciati in Italia circa 40mila stranieri senza permesso, per circa 30mila è stato firmato il provvedimento di espulsione, ma appena 5mila sono stati effettivamente rimpatriati. Queste operazioni hanno costi elevati e soprattutto richiedono un accordo bilaterale con il paese d’origine che garantisca l’effettivo rimpatrio, per evitare che il “foglio di via” diventi lettera morta. Va poi tenuto conto della peculiarità dei richiedenti asilo rispetto ad altre categorie di immigrati irregolari: si tratta di persone che hanno accusato il proprio paese di persecuzione o di mancata protezione e bisogna garantire che il rimpatrio avvenga in sicurezza e nel rispetto dei diritti umani.
Oggi l’Italia ha concluso solo quattro accordi di riammissione (Tunisia, Egitto, Marocco e Nigeria), a cui si aggiungono quelli stipulati dalla Commissione europea (cinque con paesi dell’area balcanica: Albania, Bosnia- Erzegovina, Macedonia, Montenegro, Serbia; tre con l’Est Europa: Ucraina, Russia, Moldova; quattro con paesi asiatici: Hong Kong, Macao, Sri Lanka, Pakistan, oltre a quelli recenti raggiunti con Turchia e Mali).
Le intese attualmente in vigore coprono perciò solo due delle prime dieci nazionalità tra i migranti sbarcati in Italia (Nigeria e Mali), mentre rimane scoperta gran parte dell’Africa sub-sahariana, da cui proviene la maggior parte di loro. Appare quindi urgente e necessario rafforzare gli accordi con altri paesi, possibilmente in un’ottica multilaterale gestita a livello europeo.
Solo in questo modo le politiche di rimpatrio dei cosiddetti “diniegati”, peraltro incoraggiate anche dalle istituzioni europee, potranno diventare efficaci. Altrimenti, in assenza di ulteriori accordi bilaterali, l’Italia rischia di accumulare rapidamente decine di migliaia di persone a cui è stato negato l’asilo e non rimpatriabili.

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Tabella 1 – Principali nazionalità dei migranti sbarcati in Italia nel 2016

Fonte: elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati ministero dell’Interno

Fonte: elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati ministero dell’Interno

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I rischi di una burocrazia con troppo potere

  1. Facendo fatica a capire i numeri e le criticità dell’immigrazione in Italia mi sono informato sulla situazione a Lussemburgo. A mia sorpresa i macro-numeri sono paragonabili, 2500 arrivi l’anno, per una popolazione di mezzo milione contro 240K (richieste o permessi nel 2015?) per 60 milioni in Italia. L’Italia è svantaggiata perché paese di primo approdo spesso non scelto, mentre chi arriva a LX, in D o in S ha scelto di andare lì. Questo spiega la % delle accettazioni molto più alta altrove; al LX era del 80% (Siria), ma sta scendendo al di sotto della metà. Un’assurdità del sistema Dublino è che iniziata una pratica in un paese non si può aprirne un’altra altrove, ma appena rifiutato si può. Una piccola %degli arrivi sparisce nel nulla poco dopo la registrazione; è naturale che questa categoria pesa molto di più in Italia. Tutto a LX è gestito da strutture pubbliche o da volontari: assistenza sanitaria, identificazione, pratiche amministrative, vitto e alloggio; e per quelli accettati: programmi di inserimento, di insegnamento linguistico e scolarizzazione per i più giovani. Non esistono grandi centri con numerosi immigrati in attesa di decisione amministrativa. In assenza di esperienza pregressa tutto è improvvisato. Il problema quasi ingestibile nel problema reale e enorme dell’immigrazione è il rimpatrio. Non si capisce perché l’Italia più interessata di tutti non è in grado di fare del dossier immigrazione il suo cavallo di battaglia nei negoziati UE.

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