A che punto è l’Italia sugli obiettivi relativi all’istruzione da raggiungere entro il 2020? Formalmente è in linea con quanto si è impegnata a fare. Ma i laureati restano al di sotto della media europea, mentre gli abbandoni precoci sono ancora troppi.
Gli obiettivi del decennio per l’istruzione
La strategia Europa 2020, avviata nel 2010 dalla Commissione Barroso, ha fissato obiettivi vincolanti per tutti gli stati membri su otto indicatori socio-economici. Tra i temi toccati rientrano l’occupazione, la ricerca, l’istruzione, la povertà, il clima e l’energia.
I dati sull’istruzione appena pubblicati da Eurostat ci permettono di valutare il piano della Commissione e di inquadrare le prospettive del nostro paese.
La figura 1 confronta il livello di istruzione della popolazione tra i 25 e i 64 anni in Italia con la media dei paesi europei.
Figura 1 – Quota di popolazione per livello d’istruzione – anno 2016
Ben lontani dalla media degli altri paesi UE, buona parte degli italiani ha ancora al massimo la terza media, mentre meno del 20 per cento ha ricevuto un’istruzione universitaria.
Analoghe criticità emergono se si analizzano i tassi di abbandono (figura 2): quattordici giovani su cento non completano il percorso di studio o di formazione in cui sono inseriti (i cosiddetti early leaver), contro una media europea ben più bassa.
Figura 2 – Percentuale di giovani 18-24 anni che abbandonano il percorso di studi o formazione
La questione dell’abbandono merita un approfondimento. Disaggregando i dati (figura 3), si nota che tra questi la percentuale di coloro che iniziano a lavorare o che decidono di non farlo è piuttosto simile tra l’Italia e gli altri Paesi Ue. Il forte divario è quindi spiegato dalla quota di giovani che non trova lavoro (disoccupati) o che, sebbene disponibile a lavorare, non lo cerca affatto (scoraggiati). All’incapacità del sistema d’istruzione di prevenire gli abbandoni si aggiunge, dunque, l’inadeguatezza del mercato del lavoro nell’assorbire i più giovani.
Figura 3 – Percentuale di giovani 18-24 anni che abbandonano il percorso di studi o formazione (per categorie)
Missione compiuta o mancanza di ambizione?
La situazione attuale va però analizzata ricordando le condizioni di partenza: vent’anni fa ad abbandonare precocemente gli studi nel nostro paese era il 32 per cento dei giovani (contro il 15 per cento della Francia e il 13 per cento della Germania); mentre i laureati tra i 30 e i 34 anni erano solo l’8 per cento (contro il 23 per cento della Francia e il 20 per cento della Germania). In questo scenario, fortemente influenzato anche dalle tendenze demografiche, è certamente impensabile che un paese delle dimensioni dell’Italia possa scalare molte posizioni in pochi anni. Tuttavia, proprio perché il punto di partenza è basso, è necessario che si generi un processo di recupero efficace che permetta di colmare il divario nel minor tempo possibile. E gli obiettivi del 2020 potevano essere l’occasione per avviarlo.
La relazione tra i laureati (figura 4) e gli abbandoni precoci (figura 5) nel 2010 rispetto agli obiettivi fissati per il 2020 è illustrata dalle figure che seguono. Come era da aspettarsi, i paesi nelle condizioni migliori hanno fissato obiettivi semplici da raggiungere. Fra quelli con i dati peggiori l’Italia è invece il paese che si è impegnato di meno in entrambi gli ambiti.
Figura 4 – Quote della popolazione con istruzione terziaria nel 2010 rispetto ai target di Europa 2020 (30-34 anni)
Figura 5 – Quote di abbandoni precoci nel 2010 rispetto ai target di Europa 2020 (18-24 anni)
L’Italia è dunque formalmente in linea con gli obiettivi di Europa 2020, ma i risultati raggiunti non sono certo sufficienti. Il nostro paese continua a percorrere una strada senza ambizione, che lo porta ad avere nell’era della conoscenza una quota allarmante di giovani scoraggiati (oltre 2,2 milioni tra i 15 e i 29 anni, il 24 per cento) e un insufficiente livello d’istruzione nella popolazione.
L’assenza di cambiamenti strutturali è da imputare principalmente alle scarse risorse messe a disposizione: nel 2015, la spesa pubblica per istruzione terziaria sul Pil è rimasta ferma allo 0,4 per cento, mentre gli altri paesi dell’Unione spendono in media l’1,1 per cento, quasi tre volte tanto.
Figura 6 – Entrate delle università statali italiane (prezzi 2014, numeri indice 2000=100)
Dopo la crisi, le entrate delle università pubbliche sono scese in maniera allarmante, fino a raggiungere livelli di inizio secolo (figura 6).
L’aver fissato obiettivi non ambiziosi per il 2020 rientra in questo deludente scenario, tanto che il loro raggiungimento appare solamente inerziale, legato alle evoluzioni demografiche.
Un primo cambiamento potrebbe arrivare con la Buona scuola e la Buona università, pacchetti che non si possono ancora valutare. Ma saranno interventi sufficienti a dare il via al necessario cambio di passo?
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Francesca Pugliese
Complimenti per l’articolo, chiaro e efficace. Mi lascia però un dubbio la vostra definizione di scoraggiati: chi sono? Gli scoraggiati “ufficiali” (inattivi che non cercano lavoro perché pensano di non trovarlo) sono in tutto tra i 15-64 anni 1.7 milioni mentre i numeri che fornite voi sembrano piuttosto quelli dei Neet, tra i quali quasi la metà è in realtà disoccupato. più utile anche se più difficile da comunicare il concetto di forze lavoro potenziali di cui Istat diffonde le serie e che fornisce una stima di quanti non hanno cercato lavoro ma vorrebbero lavorare (compresi gli scoraggiati).
Tortuga
Grazie, Francesca. I dati che usiamo sono quelli Eurostat, “Early leavers from education and training by sex and labour status”, aggiornati al 25 aprile 2017. I NEET propriamente sono gli “early leavers” che non hanno un’occupazione, quindi sono rappresentati dalla barra rossa e dalla barra gialla nel grafico (3). I dati Eurostat raggruppano assieme i lavoratori che sono “available for work” (barra rossa), ovvero sia chi cerca lavoro – disoccupati – sia chi, invece, come osservi, vorrebbe lavorare ma non cerca – “scoraggiati”.
Roberto Proietto
Mi spiace che abbiate commesso lo stesso errore dei quotidiani, in genere meno informati di voi: “istruzione terziaria” non vuol dire necessariamente “laurea”, almeno in Europa. Da noi si. Questo è un bel pezzo del problema. Da noi manca proprio il terziario non accademico, presente invece negli altri paesi in percentuali consistenti e compreso nelle tabelle Eurostat
Tortuga
Grazie dell’osservazione, Roberto. Quello che sollevi è un punto importante, l’istruzione terziaria in Europa ricomprende anche la cosiddetta “short-cycle tertiary education”, quella delle famose scuole vocazionali. Al di là della necessità di non utilizzare una terminologia eccessivamente tecnica, tuttavia, va notato che il divario con gli altri Paesi rileva, con diverse gradazioni, in tutte le tipologie di istruzione terziaria, tranne forse per il livello dottorale. Ad ogni modo quanto dici è vero, ed è quanto sottolineiamo anche legando i due temi: il basso livello d’istruzione e la mancanza di alternative e di legami col mondo del lavoro.
bob
l’ istruzione di un Paese non può prescindere dai progetti politici e quindi dalle strategie politiche che lo stesso Paese mette in atto per il futuro. Questo è un Paese che da 40 anni non ha più progetti di sviluppo sia industriali che culturali. E’ un Paese che non ha più agito e pensato da sistema -Paese ” ha tirato a campare” richiudendosi su se stesso. La follia di delegare a governi locali politiche strategiche ha creato clan , signorie inutili e dannose perdendo di vista la realtà. Mi dite dove può confluire un laureto quando esce dalla porta di una qualsiasi Università? Se ha posto di Giulio Natta trova il ” varacchinaro di Treviso ” che doveva salvare la chimica italiana?
arthemis
Spunto interessante! Il tema andrebbe forse legato alla domanda di lavoratori ‘high education’ da parte delle aziende italiane.. a parte la vulgata dei laureati in scienze politiche, quante aziende cercano profili di neulaureati STEM?
Mauro Palumbo
Concordo, mi permetto solo di aggiungere che le disposizioni che si susseguono in materia di Università portano a diminuire l’offerta sul territorio senza che siano incrementati significativamente i benefici per gli studenti fuori sede, che potrebbero permettere loro di frequentare università lontano da casa (se riteniamo di dover riaccentrare le sedi di offerta formativa universitaria, come sta accadendo per effetto di questi provvedimenti). Torniamo allegramente ad una istruzione universitaria di élite (pagata tuttavia principalmente con il prelievo fiscale di chi élite non è), per di più offerta da docenti sempre meno pagati e sempre meno numerosi o da precari sempre più preoccupati per il loro futuro.
Motta Enrico
Italiani poco istruiti? Considererei anche un’altra questione, cioè che ogni tanto ritorna, anche in Parlamento, la proposta di accorciare la durata delle medie superiori da 5 a 4 anni. Sarebbe un taglio oggettivo della istruzione dei nostri giovani. Ma a che scopo, visto che la vita è più lunga e l’automazione/robotizzazione riduce la richiesta di lavoro umano; quindi c’è più tempo per studiare. All’estero fanno meno anni di noi? Non ho dubbi: ne aggiungano uno o due, per le ragioni dette sopra.
Savino
Poco istruiti e pretendono di andare a comandare