La campagna elettorale per le presidenziali è stata anche in Iran una sfida tra due modelli di economia e società. Premiate le aperture alla comunità internazionale di Rouhani, bisogna ora accelerare la normalizzazione dei rapporti finanziari e bancari.
Rouhani rieletto
A quasi due anni dall’accordo del 14 luglio 2015 con le grandi potenze (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu e la Germania), la rielezione alla presidenza di Hassan Rouhani con il 57 per cento dei voti (equivalenti all’appoggio del 42 per cento degli elettori iscritti, più o meno come Emmanuel Macron in Francia) apre prospettive incoraggianti per il processo di graduale reinserimento dell’Iran nella comunità delle nazioni.
L’economia ha giocato un ruolo importante nella campagna elettorale per le presidenziali del 19 maggio, le dodicesime nella storia della Repubblica Islamica dell’Iran. Ma anche se la popolazione ha mostrato di condividere la tesi dei riformisti – secondo la quale rinunciare alle ambizioni nucleari si giustifica con i benefici commerciali e finanziari della rimozione delle sanzioni – le sfide per il secondo mandato di Rouhani sono difficili: dare priorità alle riforme strutturali inserite nella programmazione quinquennale, creare un ambiente propizio per gli investimenti, favorire la crescita del settore non-energetico, rendere più efficiente il mercato del lavoro.
Durante i tre accesi dibattiti che hanno preceduto il voto, Hassan Rouhani insieme a Eshaq Jahangiri – il suo braccio destro che ha corso autonomamente prima di ritirarsi il 16 maggio – hanno difeso l’apertura: prima del 2015 mancavano le medicine essenziali e l’incertezza era talmente alta che i risparmiatori passavano la notte all’addiaccio di fronte alle banche per poter essere i primi a cambiare toman in valuta e oro. Il contrabbando è più che diminuito – da 25 miliardi di dollari alla fine della presidenza conservatrice-populista Mahmud Ahmadinejad a circa 12 miliardi – e il reddito dei contadini è aumentato esponenzialmente grazie alle riforme.
I cosiddetti “principalisti” raccolti intorno a Ebrahim Raisi hanno sostenuto invece che non solo il gioco non vale la candela (un Iran senza capacità atomiche sarebbe facile preda di un supposto attacco occidentale o israeliano), ma che anche dal punto di vista strettamente economico le carte sono tutte a favore di Europa e Stati Uniti. Secondo il presidente di Astan Quds Razavi (che è la più ricca fondazione filantropica iraniana: amministra il mausoleo dell’imam Reza e la più grande moschea al mondo), infatti, mentre l’Iran sta facendo la sua parte, gli occidentali sono lenti nello sbloccare le transazioni finanziarie (le banche iraniane non hanno ancora accesso ai circuiti internazionali) e di conseguenza ben pochi sono gli investimenti esteri, anche nel settore energetico su cui si basa l’economia iraniana.
Gli interessi del popolo
Le questioni distributive sono state un altro tema di scontro. I conservatori si sono presentati come paladini degli interessi del popolo (“il 96 per cento”) contro le élite (“il 4 per cento”), proponendo di aumentare sussidi e trasferimenti assistenziali – i cash handouts senza condizioni da circa 70 euro mensili su cui Ahmadinejad aveva costruito i propri consensi.
Per i riformisti, ad arricchirsi negli ultimi anni sono stati proprio i gruppi vicini alle Guardie rivoluzionarie e ai populisti, che hanno fatto man bassa di società protette nel caotico e corrotto processo di privatizzazioni e le cui impronte sono dappertutto, anche nel gigantesco programma di sfruttamento delle risorse del South Pars in cui è capofila l’impresa di costruzioni Khatam-ol-anbiya. Rouhani ha accusato i conservatori di reprimere i media proprio per nascondere le malversazioni, in particolare gli scandali immobiliari che hanno circondato il sindaco di Teheran. La credibilità fiscale di Raisi, oltretutto, è inficiata dalle esenzioni di cui gode per motivi religiosi il Khorasan del Sud, la provincia con un’alta concentrazione di luoghi sacri che il candidato sconfitto rappresenta all’Assemblea degli esperti.
Anche in Iran, insomma, la lotta è stata e sarà tra due modelli di economia e società. Per il momento i populisti non sono riusciti a convincere gli elettori, ma l’Iran non è un paese dell’Europa del Nord ricco e istruito. Non c’è dubbio che i risultati dell’accordo sul nucleare tardino ad arrivare, soprattutto sul fronte della lotta alla disoccupazione, specie quella giovanile (ogni anno più di un milione di iraniani entrano sul mercato del lavoro). E se nell’anno persiano appena concluso la crescita (che nel 2015 era stata negativa) è tornata a essere vigorosa, lo storico accordo Opec-Russia per calmierare la produzione non ha ancora prodotto gli effetti auspicati (il petrolio è a 51,17 dollari rispetto ai 54,28 del 12 dicembre 2016). Anche l’inflazione, che pure dà segni di un’inversione di tendenza (per la prima volta sotto il 10 per cento in ventisei anni), non è domata in modo definitivo.
Pur esclusa dal 5+1, l’Italia è un partner economico e anche politico importante per l’Iran. Al vertice di Taormina del prossimo weekend, il nostro governo ha l’opportunità di mettere il G7 di fronte alle sue responsabilità: accelerare la normalizzazione dei rapporti finanziari e bancari, un risultato di cui Rouhani ha urgente bisogno per evitare che gli elettori che lo hanno appoggiato così massicciamente perdano fiducia nelle virtù economiche dell’accordo.
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Carmelo Cali
Sicuramente Rouhani e’ un’opzione migliore per l’Occidente e per gli iraniani comparata a quella dei conservatori teocratici o dei guardiani della rivoluzione ma temo sia un errore interpretarla come riformista. Rouhani e’ un tradizionalista moderato che ha un accordo tattico e realista con i riformisti. Ha duramente negoziato l’accordo sul nucleare, non garantisce i controlli concordati che ne sono parte, continua a finanziare milizie sciite nella regione per assicurarsi l’egemonia, non ha affrontato i problemi di efficienza nella raffinazione petrolifera che incidono sulla risposta alle variazioni di prezzo e che avrebbero potuto rendere evitabile il ricorso al nucleare . Ci sono problemi economici che non si potevano risolvere con le attese derivanti dall’accordo nucleare. Alcuni derivano dalla disastrosa gestione Ahmadinejiad ma altri sono problemi di capacità o produttività che Rouhani avrebbe dovuto affrontare: auto e estrazione minerali per esempio.