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Minimi salariali all’italiana: alti, ma non rispettati*

La contrattazione collettiva offre minimi elevati, ma un’ampia fetta di lavoratori dipendenti ne è esclusa, in particolare al Sud e nelle piccole imprese. Non servono pene più severe: la soluzione passa per un sistema più semplice e più informazione.

Minimi tabellari da contratto

Qual è lo stato di salute della contrattazione collettiva in Italia. E in particolare a quanto ammontano i minimi salariali negoziati nei contratti collettivi, i cosiddetti minimi tabellari?

Nel 2015 il salario minimo orario lordo fissato nei contratti collettivi (cioè il livello più basso, includendo eventuali tredicesime e quattordicesime, ma escludendo anzianità o supplementi salariali per turni notturni o attività particolari o bonus) era in media di 9,41 euro, 17,7 per cento in più rispetto al 2008 quando si fermavano a circa 8 euro all’ora. Si tratta di cifre relativamente alte rispetto al salario mediano che era di 11,77 euro lordi. Il rapporto minimo/mediano in Italia è di circa l’80 per cento quando in Francia il salario minimo nazionale lordo, che in molti casi equivale ai minimi negoziati negli accordi settoriali, è circa il 60 per cento e in Germania è intorno al 50 per cento.

Gli stessi minimi, poi, si applicano da Bolzano a Lampedusa. Tuttavia, come mostra la figura 1, dati i ben noti diversi livelli di sviluppo tra le regioni, il peso relativo dei minimi tabellari è diverso sia che li si compari al potere d’acquisto regionale (del capoluogo di regione nella figura) sia rispetto al salario mediano regionale (il cosiddetto indice di Kaitz).

Figura 1 – Minimi tabellari per regione

Fonte: A. Garnero, The Dog That Barks Doesn’t Bite: Coverage and compliance of sectoral minimum wages in Italy, Iza Discussion Paper No. 10511.

Dal dibattito pubblico non emerge nulla di nuovo: a fasi alterne si rispolverano vecchie idee come quelle delle gabbie salariali o proposte più appropriate come la contrattazione territoriale o la possibilità di deviare dal contratto nazionale in caso di crisi.

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Meno discussa è la possibilità che le imprese non rispettino i minimi salariali e paghino meno di quanto previsto dai contratti collettivi. Ci sono tanti modi in cui un datore di lavoro può sottopagare i dipendenti. Alcuni illegali, a partire dal nero, oppure chiedendo ai dipendenti di lavorare ore extra non retribuite; oppure si possono sotto-inquadrare i lavoratori. Ma ci sono anche modi legali (o quasi), come sostituire impiegati dipendenti con partite Iva (o in passato parasubordinati) a cui i termini dei contratti collettivi non si applicano. Oppure ancora firmando un accordo “pirata” con un sindacato poco rappresentativo con l’obiettivo esplicito di fissare salari più bassi. Infine, è possibile che in alcuni casi la complessità del sistema (attualmente sono in vigore oltre 800 accordi in Italia) porti i datori di lavoro, in particolare nelle piccole imprese, a fare riferimento a un contratto errato.

Le possibili soluzioni

Incrociando i dati sui minimi raccolti dall’Istat con i salari contenuti nelle forze di lavoro si scopre che in media circa il 10 per cento dei lavoratori riceve un salario orario del 20 per cento in meno rispetto al minimo settoriale. Una stima precisa dei lavoratori sottopagati è complessa a causa di errori di misurazione e di campionamento, ma i risultati ottenuti utilizzando la Rilevazione sulla struttura dei redditi da lavoro o i dati Inps mostrano tendenze simili. Altre stime, come quelle di Claudio Lucifora in un capitolo del libro “Salari, Produttività, Disuguaglianze” appena uscito per Arel-il Mulino, vanno nella stessa direzione. In un mio precedente lavoro, usando altri dati, le conclusioni erano le medesime. In sostanza, la contrattazione collettiva offre minimi elevati, ma di fatto, una fetta importante di lavoratori dipendenti (senza contare autonomi vari a cui i contratti collettivi ovviamente non si applicano) ne è esclusa, in particolare al Sud e nelle piccole imprese (figura 2).

Figura 2 – Percentuale di lavoratori pagati meno del minimo tabellare di riferimento

Fonte: A. Garnero, The Dog That Barks Doesn’t Bite: Coverage and compliance of sectoral minimum wages in Italy, Iza Discussion Paper No. 10511.

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Se la contrattazione non copre i più deboli, viene meno al proprio fine principale. La reazione istintiva è di chiedere più controlli e pene maggiori. Può aiutare, ma non risolve completamente il problema. Ridurre il numero di accordi permetterebbe di aumentare la leggibilità del sistema. E assicurare che siano firmati da sindacati e organizzazioni dei datori di lavoro rappresentativi consentirebbe di combattere contro gli “accordi pirata” che minano i livelli salariali esistenti. Mentre rendere pubblici e facilmente accessibili le informazioni sui salari negoziati (potrebbe essere un compito del redivivo Cnel, che già raccoglie i testi dei contratti) aiuterebbe i datori di lavoro che pagano in modo sbagliato, così come i lavoratori che non possono chiedere il salario corretto poiché non hanno sufficienti informazioni. Infine, campagne di “name and shame”, cioè pubblicare online i nomi di chi non rispetta i minimi, come regolarmente avviene nel Regno Unito, contribuiscono a ridurre i comportamenti illeciti da parte di (soprattutto grandi) imprese che tengono alla propria immagine.

* Le idee e le opinioni espresse in questo articolo sono da attribuire esclusivamente all’autore e non riflettono necessariamente quelle dell’OCSE o degli Stati membri.

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Le scelte finanziarie migliorano con una spinta gentile

  1. interessante prospettiva. Professore lei ha un dato aggiornato sul tasso di copertura dei contratti collettivi sul totale dei lavoratori in Italia ? su i 25,7 milioni di persone che lavorano quanti sono coperti da un contratto collettivo ? grazie !

    • Andrea Garnero

      A seconda della fonte che si usa, la copertura formale rimane tra l’80 e quasi il 100% (principalmente grazie all’interpretazione dell’articolo 36 della Costituzione che di fatto estende a tutti i lavoratori la copertura degli accordi). Questi dati mostrano però che siamo ben lontani da una copertura effettiva a quei livelli.

  2. Marco Esposito, giornalista Il Mattino

    Occhio al potere d’acquisto regionale

    L’Istat da alcuni anni calcola le soglie di povertà differenziandole per potere d’acquisto ma lo fa attingendo ai medesimi dati utilizzati per l’indice di prezzi. Misurando cioè i prodotti più venduti in ciascun territorio per ciascuna tipologia. Ma il prodotto più venduto è sovente il più economico in un’area a basso reddito e il più di moda in un’area agiata. Quindi i confronti territoriali sono viziati. Inoltre i percettori di reddito al Sud sono molti di meno in rapporto alla popolazione e quindi devono sostenere spese maggiori (con l’aggravante dei minori servizi pubblici erogati). Non dico che ciò infici tutto il ragionamento, ma…

    • Andrea Garnero

      Grazie, il confronto va sicuramente fatto cum grano salis e nell’analisi ha solo un valore descrittivo (nessuna implicazione di policy in sé e per sé) che ritengo verosimile.L’indice di Kaitz (la terza mappa nel primo grafico) è una misura diversa ma dà lo stesso messaggio.

  3. Luigi Morandi

    Le vie per diminuire il costo orario e aumentare il netto sono diverse. Alcune vanno per la maggiore. Ne segnalo una che va per la maggiore: la cd “trasferta italia”-
    sotto la voce trasferta, che è detribuita e defiscalizzata, vanno quasi tutti gli straordinari con l’accordo aziende e lavoratori. Accordi che valgono fino al licenziamento e dimissione quando vengono spesso richiesti dal lavoratore all’azienda. Per quanto riguarda il sotto inquadramento, fenomeno diffuso nelle piccole e medie aziende del sud, e non solo, é così difficile per l’inps verificare i dati difformi dalla media nelle denunce retributive coì come eventuali scatti di anzianità non retribuiti ?
    l’uso di buone analisi dei big data dell’inps con l’ausilio di esperti hr permetterebbe almeno di capire il fenomeno per poi avviare controlli e cercare soluzioni.

  4. L’analisi è pertinente e penso che sia necessario intervenire affinché si possa rivedere il sistema contrattuale semplificandolo sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo. A mio parere dovremmo cercare di introdurre un sistema che permetta di rendere la contrattazione territoriale di primo livello. i contratti nazionali, seppur dando risultati migliori rispetto ad altri paesi, mediamente vengono rinnovati con 36 mesi di ritardo dalla scadenza.
    Secondo lei, per rendere la contrattazione più semplice e quindi esigibile, sarebbe necessario dare attuazione all’art. 39 della Costituzione attraverso una legge? Nel caso lo ritenesse importante, quali dovrebbero essere i parametri da prendere a riferimento per misurare la rappresentatività?

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