Il Parlamento europeo ha approvato un regolamento sui rating che finirà per peggiorare i problemi di credibilità del settore. Gli emittenti – ovvero gli Stati sovrani – si intromettono apertamente nell’attività delle agenzie, limitandone la libertà di espressione sia nei tempi sia nei contenuti.
UN REGOLAMENTO SBAGLIATO
Il regolamento approvato dal Parlamento europeo in materia di rating può rappresentare un importante strumento per incidere sui problemi di credibilità del settore. Peggiorandoli. Era difficile riuscire a dare una risposta sbagliata a tutte le principali critiche rivolte alle agenzie, ma il legislatore di Strasburgo è riuscito nella rimarchevole impresa. Vediamo perché.
Alle agenzie è stata talvolta rimproverata la mancanza di tempestività: mentre le azioni di questo o quell’emittente andavano a picco e il prezzo dei suoi credit default swap (assicurazioni contro il rischio di insolvenza) saliva alle stelle, i signori del rating guardavano le carte, valutavano il pro e i contro, ritoccavano in misura limitata i propri giudizi, per paura di fornire al mercato un segnale sbagliato (come una bocciatura che avrebbe potuto spingere nel baratro anche imprese relativamente sane).
Cosa fa il regolamento per rendere le agenzie più dinamiche? Escogita un grottesco “calendario” a cui ancorare le loro decisioni. Alla fine di ogni anno, infatti, dovranno decidere le tre date in cui, nei dodici mesi successivi, potranno comunicare al mercato i propri giudizi sui bond governativi. Se sono fortunate, quelle date coincideranno con le crisi di governo, le elezioni anticipate, gli incidenti nucleari e le altre occasioni in cui gli investitori desiderano essere aggiornati sul livello di rischio dei titoli. Se invece non mettono in agenda la data giusta, resteranno mute mentre gli investitori provvederanno autonomamente a farsi un’opinione, magari consultandosi con la portinaia (sempre che non venga vietato in qualche circolare attuativa). La regola è talmente assurda che persino a Strasburgo se ne sono accorti e l’hanno ammorbidita: le agenzie potranno eccezionalmente togliersi il bavaglio se necessario, ma dovranno produrre una giustificazione scritta. E magari venire accompagnate dai genitori.
COME SI SOSTITUISCE IL RATING?
Le agenzie, si dice inoltre, sono opache. Promuovono, declassano, confermano: ma perché? Sulla base di quali fatti, ragionamenti, criteri? La normativa comunitaria in passato è venuta incontro a queste preoccupazioni, chiedendo alle società di rating di spiegare con trasparenza le proprie metodologie e decisioni. Ora il Parlamento ci ripensa e vieta di corredare le valutazioni sugli Stati sovrani con raccomandazioni di politica economica ai governi interessati. Sarà dunque un po’ più difficile, ad esempio, scrivere che un paese viene declassato perché ha un disavanzo eccessivo, visto che sarebbe un implicito invito a ridurre il deficit. Per paura di complicazioni legali, le agenzie si terranno sul vago. Tipo: togliamo la tripla A agli Stati Uniti, perché non ci piace la loro cravatta.
Ancora: gli analisti del rating sono stati accusati di essere eccessivamente sensibili ai desiderata degli emittenti (che pagano per essere valutati). Il regolamento, al riguardo, segna un salto di qualità, ma nella direzione sbagliata. Gli Stati sovrani, infatti, cioè gli emittenti quantitativamente più importanti per i mercati e per il risparmio delle famiglie, scelgono di intromettersi apertamente nell’attività delle agenzie, limitandone la libertà di espressione sia nei tempi che nei contenuti. Se l’obiettivo era quello di mettere il giudice a distanza di sicurezza dal giudicato, non pare raggiunto.
Il vero problema del rating risiede probabilmente nel fatto che negli ultimi decenni i legislatori, compreso quello comunitario, gli hanno dato valenza regolamentare in numerosi provvedimenti. Legando, ad esempio, al rating la quantità di capitale o di titoli liquidi che le banche devono detenere per essere considerate sicure. La libera opinione di un’analista si è così caricata di implicazioni diverse, diventando una sorta di “patente” per risparmiare patrimonio e accrescere gli utili. Sul punto, l’autocritica di Strasburgo è piuttosto timida. L’Unione Europea si impegna a eliminare dalle proprie normative qualunque riferimento all’utilizzo “esclusivo e meccanico” dei rating, ma prende tempo fino al 2020 per inventarsi qualcosa con cui sostituire i vituperati giudizi delle agenzie. Ammettendo così che fare a meno del rating – anche per i legislatori – non è facile. Sostituirlo con le valutazioni interne delle banche (non sempre disinteressate) o con i volubili entusiasmi delle quotazioni di borsa sarebbe una decisione avventata. Così avventata che persino a Strasburgo devono essersene accorti.
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Marco Trento
È certamente perfettibile, ma un regolamento ci vuole. Le democrazie europee non possono dipendere da tre agenzie di notazione americane. Si è visto nei mesi scorsi il potere del tutto incontrollato di cui godono queste agenzie. La sovranità oggi passa attraverso il contrasto della “haute finance” internazionale e del suo braccio armato: le agenzie di notazione. Ogni movimento in tal senso è utile, anzi necessario.
Marco Scarozza
Dagli interventi che il legislatore propone sembra chiaramente emergere che il vero dilemma non sia se il rating possa essere considerato efficace quanto piuttosto se le agenzie possano essere realmente considerate affidabili. Purtroppo pagano, a mio avviso, uno scotto di credibilità che deriva dal non essere sempre apparse del tutto indipendenti nei tempi, modi e toni con cui hanno espresso i propri giudizi.
Per questo sembra che, in fin dei conti, il giudizio sullo strumento sia buono e il giudizio sul musicista sia scarso
bellavita
meglio una cattiva regolamntazione che nessuna regolamentazione. Almeno si stabilisce un principio, e un potere del parlamento europeo
Christian Busca
Per la verità un regolamento già esiste (1060/2009) e regola in modo molto analitico e invasivo l’organizzazione e l’attività delle agenzie di rating e istituisce anche un’autorità di controllo: basta leggerlo.
Il testo appena approvato interviene proprio su quel regolamento, ma senza affrontare il problema vero: come evidenzia bene Andrea Resti, restringe la libertà di espressione delle agenzie (cosa che – direi – fa poco onore alle “democrazie europee”), ma non affronta il problema del valore legale dei rating (che è ciò che veramente fa pesare così tanto i loro giudizi). In questo caso, chi sta sbagliando davvero è il regolatore.
Le intenzioni saranno pur buone, ma ricordiamoci che la strada per l’inferno ne è lastricata.