A tenere bassa la crescita dei salari reali italiani negli ultimi vent’anni non è stata né la partecipazione all’Unione monetaria, né l’incidenza fiscale e contributiva. Probabilmente la spiegazione è che anche la produttività del lavoro è aumentata poco.
Salari tra Europa e Stati Uniti
La figura 1 mostra il livello del salario reale medio (fonte Ocse) delle cinque maggiori economie europee (Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Spagna) più gli Stati Uniti negli ultimi vent’anni.
Figura 1
Fonte: Ocse. La misura è ottenuta dividendo il monte salari per il numero medio di occupati in quell’anno, e moltiplicando il risultato ottenuto per il rapporto tra le ore medie settimanali di ogni occupato a tempo indeterminato e le ore medie settimanali di tutti gli occupati. La misura è in Usd Ppp a prezzi costanti (anno base 2016).
Spiccano subito alcuni fattori
Il tasso di crescita ventennale dei salari medi reali è molto differenziato. Guidano la classifica i due paesi anglosassoni, Regno Unito e Stati Uniti, con aumenti, rispettivamente, del 34,2 e 31,3 per cento. Intermedia la posizione dei due stati dell’Europa continentale, con un +25,5 per cento della Francia e un +15,1 per cento della Germania. Chiude la classifica la coppia sud-europea: Italia (+6,4 per cento) e Spagna (+4,7 per cento)
L’andamento della produttività
Cosa determina differenze così sostanziali sia nei livelli che nei tassi di crescita? La teoria economica suggerisce in primo luogo un ruolo cruciale della produttività del lavoro. Concentriamoci sulla dinamica, lasciando da parte le differenze nei livelli. La figura 2 mostra l’andamento della produttività del lavoro (fonte Ocse; fatto 100 il valore 1996).
Figura 2
Quanto le dinamiche dei salari reali degli ultimi vent’anni sono spiegate dall’andamento della produttività del lavoro?
Ricordando sempre che una correlazione non implica un nesso causale, diamo un’occhiata alla correlazione tra le due serie storiche.
Tabella 1
Nella figura 3 mostriamo le due variabili – entrambe normalizzate al valore 100 nel 1996 – per ciascun paese.
Figura 3
L’analisi paese per paese ci consente di notare alcuni tratti interessanti.
In primo luogo, spicca il guadagno di competitività tedesco, costruito per buona parte durante lo scorso decennio. Su base ventennale, nonostante la produttività del lavoro sia cresciuta del 27,3 per cento, i salari reali medi sono aumentati solo del 15 per cento.
C’è poi l’interessante dinamica spagnola, con lo shock negativo verificatosi nel triennio 2007-2009 (in cui i salari reali crescono quattro volte più della produttività), poi “brutalmente” riassorbito con la diminuzione di oltre il 6,5 per cento del salario reale fino al 2014, che ha consentito un rapido recupero delle condizioni di competitività internazionale.
Infine, troviamo l’esperienza del Regno Unito, dove i salari medi reali crescono del 34,2 per cento e la produttività del lavoro di circa il venti per cento in meno (+27,2 per cento). Ovviamente in questo caso – per giudicarne l’effetto sulla competitività internazionale – va considerato il fattore cambio nominale.
Insomma, lungi dal voler stabilire un preciso legame causale, sia le indicazioni della teoria economica che l’esame degli andamenti delle due variabili suggeriscono che a tenere bassa la crescita dei salari reali italiani negli ultimi vent’anni non sia stata né la partecipazione all’Unione monetaria (Francia e Germania hanno crescite più che doppie), né l’incidenza fiscale e contributiva (i dati sono lordi). Probabilmente, a spiegare perché dal 1996 a oggi i salari reali medi in Italia sono cresciuti solo del 6,3 per cento è, semplicemente, il fatto che la produttività del lavoro è cresciuta appena del 5,8 per cento.
* Luigi Marattin è Consigliere Economico del Presidente del Consiglio dei Ministri e Presidente della Commissione Tecnica sui Fabbisogni Standard
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Savino
Gli italiani delle generazioni più anziane, che hanno ricevuto per raccomandazione la grazia di un lavoro conoscono solo il bar più vicino al posto di lavoro, ma non sanno nulla in termini formativi per il miglioramento della produttività, nè hanno voglia di imparare alcunchè.
Il trend può essere solo invertito dai giovani e, in particolare, da quelli provenienti da famiglie normali, in grado di sudarsi tutto quello che si possono meritare.
jazy quill
Come dice Lei una correlazione non è una relazione causale. Ad esempio, la produttività del lavoro potrebbe dipendere da variabili di domanda (quindi da salari e investimenti), in una logica di tipo Kaldor-Verdoorn. Paesi come l’Italia e la Spagna, che hanno dovuto a lungo comprimere la domanda per i vincoli europei a cui sono (stati) sottoposti, potrebbero proprio per questo motivo aver registrato una bassa crescita della produttività. Insomma, la relazione causale potrebbe tranquillamente essere invertita, a seconda di come si intende il mondo e l’economia. A complicare più il quadro è il fatto che le correlazioni per Italia e Spagna (R quadro? calcolato sui valori assoluti o sui tassi di variazione? perché se fosse il primo caso sarebbe sorprendente, almeno per l’Italia… le due curve sono fortemente “intrecciate”) sono assai poco significative
Marcello Romagnoli
Il mancato aumento della produttività forse nasce dal fatto che gli industriali italiani non hanno investito a sufficienza in macchinari, non hanno innovato abbastanza il prodotto e i processi. Il lavoratore italiano non ha molta colpa, ma ne subisce le conseguenze. Perchè l’innovazione non è avvenuta? E perchè doveva avvenire visto che, causa lo SME prima (una proto valuta fissa) e l’euro dopo ai tedeschi è stato regalato un vantaggio competitivo enorme rappresentato da una moneta svalutata rispetto a quella che avrebbero dovuo avere in condizioni di mercato? Certamente sono stati abili a usare questo vantaggio, come lo eravamo noi con la nostra Lira, prima dello SME. Inoltre i francesi hanno goduto di sforamenti del deficit che a noi non sono stati permessi, grazie al fatto che hanno accettato di essere subalterni alla Germania. Ciò ha permesso di effettuare quegli investimenti impossibili in Italia. L’euro quindi c’entra e centra assai. D’altra parte non mi aspetto una dichiarazione, per ora, diversa dal dott. Marattin….non dispero per il futuro.
Savino
Smettiamola di fare i Calimero e cominciamo ad analizzare i nostri difetti. Se la nostra (e solo la nostra) produttività è scarsa non siamo esenti da responsabilità. Ci si è adagiati su molte sicurezze che non sono più tali, soprattutto in certe generazioni. E’ di oggi un articolo per cui alcune professionalità mediche in ambito sportivo sono state retribuite con pizza e birra, mentre in alcuni ambienti, pubblici e privati, iper sindacalizzati ed iper politicizzati si continua ad andare avanti senza titoli di studio e senza meriti. Idem nel disartato settore trasporti (aziende come ATAC a Roma o GTT a Torino) dove c’è uno sciopero la settimana, ma dov’è la produttività?
Marcello Romagnoli
Smettiamo anche di fare i Tafazzi se è per questo. La produttività non la fa solo il dipendente, soprattutto oggi dove l’automazione e l’organizzazione dei cicli produttivi è fondamentale (Industria 4.0). Se non si fanno investimenti in questo senso, se non si rinnova il prodotto la produttività non può aumentare. Lei ha una visione della produttività solo sul lato lavoratore.
Il resto del suo intervento è una insieme di luoghi comuni conditi da irosità che non portano a nulla di buono. Dividersi tra lavoratori non fa il loro bene. Quelle che lei chiama sicurezze io le chiamo conquiste sociali. Avere la possibilità di opporsi a un licenziamento ingiusto lei la ritiene una sicurezza ingiusta?
Tommaso
Sarebbe interessante valutare questa tesi per quanto riguarda il Canton Ticino
Filippo
Sarebbe interessante vedere la correlazione sulle differenze e non sui livelli: le serie storiche non sembrano stazionarie, quindi le correlazioni sono molto probabilmente spurie (ad esempio in Francia entrambe le serie crescono nel tempo, quindi a prescindere da eventuali nessi causali la correlazione sarà alta). Detto questo, l’analisi mi sembra assolutamente condivisibile.
Adamo Pareto
Come lei stesso scrive ” lungi dal voler stabilire un preciso legame causale”, la correlazione, sopratutto in questo contesto, è uno strumento troppo debole per analizzare un fenomeno così complesso. Inoltre si dichiara di non voler trarre conclusioni ma si fatto ciò viene fatto (si veda nel sottotitolo). Sarebbe magari opportuno riportare e/o sintetizzare le svariate pubblicazioni scientifiche sul tema e che non vengono citate.
Lorenzo
Ok, condivido l’analisi.
Perché la produttività è così bassa?
C’entrano qualcosa l’iperprotezione di alcune categorie di lavoratori rispetto ad altre e la burocrazia che frena tutto?
Cosma Capobianco
Le analisi dovrebbero tenere conto pure degli straordinari non pagati. Nei nostri ospedali con personale in via di estinzione le ore lavorate, non pagate e ignote a ogni statistica sono moltissime. Ma pure nel privato è così e, se si osa chiederne il pagamento, il contratto non viene rinnovato, come potrei testimoniarvi facendo nomi e cognomi se in Italia venisse integralmente rispettata la dignità dei lavoratori.
dr Cosma Capobianco -SSN regione Lombardia
P.PIERANGELINI
La cosa che emerge chiaramente è la politica tedesca dei bassi salari a fronte di un aumento di produttività che comporta come conseguenza una ricerca di domanda dall’estero visto che non può crescere la domanda interna, per l’Italia la cosa è sicuramente più complessa chi ha determianto cosa? la bassa crescita della produttività è dovuta in parte alle dimensioni della aziende, alla scarsa ricerca e innovazione ( si veda anche il non utilizzo o sottoutilizzo dei laureati), mancanza di investimenti ecc.; insomma una serie di fattori esogeni ( euro) ed endogeni, è mancata comunque una sana politica industriale ( anzi abbiamo distrutto settori promettenti come le TLC e informatica, sfruttiamo male il turismo), una scarsa propensione alla ricerca ( siamo tra quelli che spendiamo meno), continuiamo a sfornare laureati inutili e quelli utili li usiamo malissimo, oltre a una tradizionale tendenza a non essere meritocratici e non sviluppare dei giovani talenti in tutte le attività dalla politica ( livello culturale dei politici più basso del dopoguerra), alle imprese e anche nello sport ( Tavecchio)
Maurizio Cocucci
Mi permetta di obiettare sull’affermazione che riguarda l’andamento delle retribuzioni in Germania. Quando scrive “politica dei bassi salari” credo si riferisca alla crescita e non al livello vero e proprio che in termini di potere di acquisto sono tra i più elevati in Europa. La crescita poco sostenuta si spiega guardando il costo del lavoro orario per unità di prodotto che confrontato con i maggiori concorrenti sul piano internazionale (USA, Cina e Giappone) risulta più elevato (e non di poco). E’ quindi intuibile come a fronte di un costo orario nel manifatturiero di circa 35 euro contro i nemmeno 30 della principale concorrenza (a cui possiamo anche aggiungere l’Italia) la crescita debba essere calmierata, soprattutto quando risulti poco competitivo come è stato per l’economia tedesca a cavallo del millennio. Recentemente però le cose sono cambiate e come risulta da almeno tre anni la crescita del PIL in Germania è sostenuto in gran parte dai consumi privati e investimenti, il contributo del commercio estero risulta molto esiguo (oggi Statistisches Bundesamt ha pubblicato i dati degli aggregati del PIL del terzo trimestre e il contributo alla crescita dell’estero è di appena lo 0,1%). Gli USA possono vantare una crescita elevata della produttività e quindi dei salari più che per altre economie, Germania inclusa.
bob
“..la crescita del PIL in Germania è sostenuto in gran parte dai consumi privati e investimenti, il contributo del commercio estero risulta molto esiguo..” A mio modestissimo parere e modesta esperienza in ogni Paese al PIL contribuisce al 90% il mercato interno e le politiche di investimenti che ne conseguono. Ancora facciamo credere agli Italiani che siamo un importante Paese esportatore
Carlo
Sarebbe interessante capire come sia possibile che nonostante l’Italia sia il paese tra quelli analizzati dove i salari seguono meglio l’andamento della produttività, appare essere quello con correlazione più bassa. Da dove sono stati presi questi dati? Come sono stati analizzati?
Detto questo, la produttività si misura come pil su ore lavorate. Dunque visto che il pil è un valore di equilibrio e i salari sono la maggiore componente del pil, non si può trarre assolutamente alcuna informazione da questa analisi, che ha quindi lo stesso valore dell’affermazione “l’acqua è bagnata”.
Attilio Pasetto
Sicuramente è vero che l’insufficiente crescita della produttività rappresenta un grosso freno all’aumento dei salari. Tuttavia, altre variabili meritano di essere considerate. In un articolo pubblicato oggi su “Repubblica” Stiglitz sostiene che “mentre storicamente i salari sono aumentati parallelamente alla produttività, negli ultimi anni il collegamento tra i due indicatori è saltato, con le retribuzioni ferme nonostante la produttività cresca.” Questo dipende – continua Stiglitz – dall’aumento del potere di mercato delle imprese (specie se monopoliste) e dalla parallela diminuzione di quello dei lavoratori. La quota del lavoro sul reddito complessivo sta diminuendo, e pure quella del capitale, mentre è in crescita la quota delle rendite, associate sia ai monopoli industriali sia alla proprietà intellettuale e agli immobili. Si è affermato un modello capitalista che premia le rendite, aumenta le disuguaglianze e scoraggia gli investimenti, danneggiando la produttività e i salari. Occorre quindi intervenire attraverso la politica fiscale sulla distribuzione dei redditi, colpendo le rendite e innescando un nuovo circolo virtuoso tra investimenti, salari e profitti.
Decio
Veramente, molto modestamente, mi pare che i dati riportati dimostrino il contrario della ipotesi proposta. Prima di tutto la Tabella 1 indica una bassa correlazione fra produttività e salario per l’ Italia; quindi non è vero che il salario diminuisca al diminuire della produttività. Inoltre nella Fig 3 si vede che per Italia e Spagna dopo il 2009 la produttività cresce e il salario diminuisce. Forse sbaglio, ma mi sembra che l’ analisi sia da raffinare.
Maurizio Cocucci
La sua osservazione è corretta e va spiegata. In presenza di uno shock le imprese dismettono personale e facilmente il calo è proporzionalmente in misura maggiore di quello della produzione per cui nel breve periodo si ha ‘paradossalmente’ un incremento della produttività. Questo si è verificato infatti in diversi Paesi. In presenza di un aumento dei disoccupati e quindi dell’offerta di lavoro i salari subiscono una diminuzione (le imprese hanno un maggior numero di candidati disposti a lavorare con meno pretese retributive). Questo andamento però ben difficilmente si ripercuote nel lungo periodo dove è la produttività la componente principale (non la sola) ad influire sull’andamento delle retribuzioni.
Adamo Pareto
In presenza di uno shock negativo, si ha una riduzione della domanda di lavoro. L’aumento della disoccupazione ne è la diretta conseguenza. Non si ha un aumento di offerta come conseguenza dell’aumento della disoccupazione.
Max
In Paesi in cui ci sono regimi di protezione dell’impiego o mercati del lavoro duali come l’Italia (almeno sino a poco tempo fa) per le imprese non è immediato ridurre l’occupazione al ridursi della domanda, e magari non è neanche razionale visti i costi di riassunzione. Per cui se le vendite calano e la manopera cala meno che proporzionalmente, la produttività (vendite medie per lavoratore in prima approssimazione) si riduce. Dato che le imprese licenziano o non rinnovano soprattutto i lavoratori meno esperti o temporanei, il salario medio per chi rimane occupato aumenta. Direi che il gap tra produttività e salari medi per l’Italia nel periodo 2008-2012 potrebbe essere spiegato così. D’altronde, ad occhio, le due serie si muovono quasi in sincrono per il periodo tranne che per il 2008-2012, quindi la bassa correlazione delle serie per l’Italia (0.55) rispetto agli altri paesi dovrebbe essere attribuibile a quel sotto-periodo. Dove è più facile licenziare forse la correlazione tra le due serie è più alta.
Maurizio Cocucci
Credo che stiamo affermando la stessa cosa Max, magari con sfumature diverse. Le riporto un estratto all’interno di una pubblicazione (Noi Italia) dell’Istat sulla produttività rilevata nel 2010: “Per quel che riguarda il periodo più recente, nel 2010, caratterizzato da una ripresa dell’economia dopo la forte contrazione del 2008-2009, il valore aggiunto è tornato a crescere (+2,8 per cento), mentre è proseguita la contrazione dell’input di lavoro (-0,6 per cento) e la produttività del lavoro è aumentata del 3,4 per cento.” Si sa che l’andamento dell’occupazione infatti è differito rispetto a quello della produzione, ovvero si muove in ritardo (e lei stesso lo spiega nella parte iniziale del commento) ma l’effetto è (spesso) quello che ho scritto: un aumento della produttività a seguito di un calo più che proporzionale rispetto al volume di produzione. In ogni caso è fenomeno che non ha una lunga durata e questo lo si può osservare dai grafici pubblicati, tranne il caso Germania che ha una particolare peculiarietà.
Maurizio Cocucci
Mi permetta Adamo Pareto, l’offerta di lavoro è costituita dai lavoratori inoccupati in cerca di lavoro, quindi disoccupati nella accezione formale, va quindi da sè che se questi aumentano per effetto ad esempio di una crisi che ha comportato licenziamenti aumenta per definizione l’offerta di lavoro che ne è sinonimo.
Adamo Pareto
Gentile Maurizio, purtroppo l’impostazione è erronea. I “lavoratori inoccupari in cerca di lavoro” sono il gap domanda ed offerta per un dato salario. Se c’è una riduzione di domanda (in qualsivoglia forma) è la domanda che si sposta ed aumenta questo gap. Quello che lei vede come una aumento della offerta è di fatto un aumento del gap domanda ed offerta ma in una dinamica in cui la offerta può anche stare ferma (anche perchè la offerta si sposta in genere per altre cause). Pertanto ci si muove lungo la curva per il nuovo equilibrio ma nn si muove la curva.
Adamo Pareto
Cerco di chiarire. Quelli che lei chiama “inoccupati in cerca di lavoro” sono di fatto il gap offerta e domanda di lavoro per un dato salario. Se si riduce la domanda, si sposta solo la domanda ed aumenta questo gap (per lo spostamento della domanda, NON della offerta). Ciò porta a trovare un nuovo equilibrio lungo la funzione di offerta con salari più bassi.
Stefano Cianchi
Stiglitz può anche avere ragione, ma le sue categorie mi sembrano un po’ metafisiche e perciò fuorvianti. Ad esempio è senz’altro vero che le imprese di Stato e le sue «dipendenti», come le concessionarie, riescono a tenere livelli di occupazione elevati e stipendi alti, ma è anche vero che ci riescono perchè generosamente aiutate in via diretta o indiretta da sussidi tratti dalla fiscalità generale. Le altre imprese devono invece fare fronte a due pressioni indebite ed inique: la pressione fiscale (anche per tenere in piedi monopoli statali) e la concorrenza col risultato di dover tenere l’occupazione all’osso e le retribuzioni al minimo. Nessuno è santo, ma i meno santi dettano le regole. Il risultato complessivo è la bassa produttività. Peraltro è abbastanza dimostrato che in presenza di mercati di «massa» (per esemplificare i «prodotti «cinesi» a basso valore aggiunto) bisogna assolutamente produrre e vendere prodotti distintivi ad alto contenuto di conoscenza e prezzi alti. Cosa che il sistema Italia non aiuta affatto. «dipenendenti» come le concessionarie riescono a tenere livelli di occupazione elevati e stipendi alti, ma è anche vero che ci riescono perchè generosamente aioutater in via diretta o indiretta.
Luca Ba
Ma è proprio sicuro che le imprese statali riescano a garantire stipendi alti? A me non sembra proprio anzi direi che anche in quel settore gli stipendi siano rimasti bloccati da anni (cosa che non è necessariamente un male) a meno che non si parli di vertici in quel caso sono d’accordo ma stiamo appunto parlando di una sorta di casta. Che poi gli statali oppure i parastali (bancari, dipendenti di aziende partecipate ecc) abbiano ancora tutele ormai sconosciute in imprese private è un altro discorso ma lo stipendio in se non è cresciuto anzi per i nuovi assunti forse è pure diminuito come per tutti gli altri.
bob
Credo che ci sia un errore di fondo: considerare la produttività come valore assoluto più o meno! Invece dovremmo considerare il tipo di produttività: di alta qualità o di bassa qualità. L’Italia doveva essere un territorio disseminato di laboratori e centri di ricerca invece che di orrendi capannoni pieni di “fenomeni” oltre che di analfabeti. Nel 1974 un signore chiamato Giorgietto Giugiaro letteralmente cacciato dall’Italia creò la Golf per la Germania …salvò la VW dal fallimento creando un progetto stilistico di qualità che ancora ha successo. Negli stessi anni a Napoli si produsse l’Arna un vergognoso progetto di cui sappiamo bene chi furono gli autori. Quindi la produttività non può essere solo quante auto vengono prodotte ma con quale qualità. La stessa cosa si potrebbe dire della chimica passando da Giulio Natta al “varacchinaro di Treviso” che doveva salvare Marghera. I salari sono bassi perchè da oltre 40 anni non ci sono più progetti politici e industriali ma solo spot, slogan e beghe localistiche di mediocri personaggi.
francesco
Concordo con lei : una classe politica mediocre che purtroppo è anche lo specchio della società .
Michele
La produttività del lavoro (cosi come quella degli altri fattori produttivi) dipende principalmente dalla capacità organizzativa delle imprese e degli imprenditori. Se la produttività del lavoro in Italia cresce poco o nulla dipende principalmente dall’incapacItà delle imprese italiane, che puntano solo a bassi salari, con pochi diritti e molta precarietà. Con queste premesse sperare in un incremento della produttività è velleitario. In secondo luogo c’è un sistema paese che tra corruzione, evasione fiscale e formalismi burocratici favorisce solo l’economia sommersa.
francesco Zucconi
Mi chiedo se, per aumentare la produttività, non sia necessario un forte e ben indirizzato intervento pubblico come accade in tutti i paesi a capitalismo molto avanzato. Certo, per far ciò l’Italia deve trovare il coraggio o di uscire dall’euro oppure di imporre una modifica dei trattati che regolano l’euro. Questa seconda possibilità mi appare politicamente non attuabile….
Antonio
Mezza Italia in mano alla criminalità, una tassazione statale, regionale provinciale e comunale al limite dell ‘asfissia, unitamente al fermo delle opere pubbliche e pretendete pure l ‘aumento dei salari ?
Tartarini
Scusate, ok sulla èpropduttività, ma che cosa è in pratica ?
enzo
Bisogna considerare che per l’impresa i salari sono un costo ma non l’unico. Voglio dire che l’impresa ragiona anche in termini di costi complessivi per cui cerca di ridurre quei costi comprimibili a fronte di costi (rispetto a sistema-paese concorrenti) incomprimibili. Giusto quello che si dice sulla produttività. Ma se questa fosse determinata esclusivamente dalle competenze degli imprenditori italiani e dei lavoratori italiani, non si capisce perché imprese estere , maggiormente competitive,non vengano in italia ad “approfittare” dei bassi salari.
marina
Sono in ritardo ma… magari bisognerebbe parlare anche degli investimenti. La produttività del lavoro è legata anche alla tecnologia. Durante la rivoluzione industriale aumenta perché un operaio che usa un nuovo filatoio fa il lavoro che prima facevano molti operai…magari gli imprenditori dovrebbero investire cosa che sembrano fare molto poco